Il lavoro nel simbolo della Repubblica
16 Maggio 2008
Sante Maurizi
L’unico che abbia pensato seriamente a sostituirlo è stato Craxi più di vent’anni fa, ma non se ne fece niente. Non ci facciamo caso, ma l’abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, stampigliato su un’infinità di carte e oggetti diversi, dalle targhe dei veicoli ai pacchetti di sigarette. Forse è proprio per questo, perché è un suggello notarile, un bollo da burocrazia vessatoria ben poco entusiasmante e coinvolgente. E sarà ancora per questo che la migliore agenzia di produzione simbolica di questi anni, la Lega, se l’è presa solo con «Fratelli d’Italia» e con la bandiera, contrapponendogli tutto il corredo di va pensiero, carrocci, ampolle e alberti da giussano. Eppure è l’unico segno dei fondamenti nazionali stabilito come ufficiale dal 1890.
Stretto fra due date – il primo maggio e il 2 giugno, che letteralmente rende visibili – il 5 maggio ha compiuto sessant’anni il simbolo della Repubblica. Anzi l’emblema, giacché simboli sono anche il tricolore e l’inno di Mameli. Una stella e una ruota dentata circondate da un ramo d’ulivo e uno d’alloro; legati, questi, da un nastro sul quale è scritto «Repubblica Italiana» in caratteri che richiamano la grafica della latinità (maiuscoli con l’equivalenza V-U). L’Italia uscita dal fascismo, dalla guerra e dal referendum monarchia/repubblica sentiva la necessità di un segno grafico che esprimesse con sintesi e forza i nuovi valori del patto nazionale. Nell’ottobre del 1946 il governo De Gasperi chiamò Ivanoe Bonomi a presiedere una commissione per un concorso nazionale che avrebbe assegnato ai primi cinque classificati un premio di diecimila lire (l’incredibile cifra di 280 euro di oggi) secondo poche tracce fra le quali due fondamentali: esclusione dei simboli di partito e inserimento di una stella. Quando il linguaggio della pubblicità o l’attualità politica ribadisce modi dire magari un po’ desueti («le stelle sono tante, milioni di milioni» o – ricordate? – «lo stellone di Prodi») c’è al fondo qualcosa che è vero patrimonio comune; come appunto la stella, presente nell’iconografia risorgimentale (splendente anche sul capo dell’allegoria donna-Italia) e nello stemma dei Savoia.
Fra artisti e dilettanti risposero al concorso 341 candidati, con 637 disegni in bianco e nero. La commissione invitò i cinque vincitori a preparare nuovi bozzetti, stavolta secondo un tema preciso: «una cinta turrita che abbia forma di corona», con fronde della vegetazione italiana. Altri elementi obbligatori: il mare, le parole Unità e Libertà, e ancora la stella. La scelta cadde sull’opera di Paolo Paschetto, un artista valdese professore di ornato all’Istituto di Belle Arti di Roma, al quale andarono ulteriori 50.000 lire e l’incarico di preparare il disegno definitivo. Il lavoro di Paschetto, però, esposto con altri bozzetti non piacque – qualcuno ci vide ‘una tinozza’ – e fu perciò bandito, attraverso la radio, un secondo concorso che privilegiasse il legame con il lavoro. Paschetto risultò ancora vincitore, e dopo altri ritocchi da parte della commissione la proposta approdò all’Assemblea Costituente dove fu approvata il 31 gennaio 1948. Il 5 maggio il presidente Enrico De Nicola firmò il decreto legislativo 535 che ne stabiliva ufficialmente l’adozione.
L’ulivo: la pace e la concordia. La quercia: la forza e la dignità del popolo. La stella-Italia poggia su una ruota dentata d’acciaio, traduzione del primo articolo della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». A Craxi quel segno non piaceva, e da capo del Governo nel 1987, dopo aver mandato in soffitta il vecchio armamentario socialista a favore del garofano, pensò di lanciare un bel concorso a premi aperto a tutti, anche ai bambini, per il nuovo stemma. Giuliano Amato, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, spiegò lo scarso amore degli italiani verso l’emblema con il fatto che «è fruito in circostanze emotivamente non gradevoli, quali pagare le tasse o acquistare le marche da bollo». Della commissione facevano parte nomi illustri: Bruno Munari, Paolo Portoghesi, Armando Testa e Umberto Eco, il quale dichiarò che le intenzioni erano di indire «un sondaggio fra gli umori simbolici degli italiani, per fare esprimere quella cultura simbolica vagante che è patrimonio del nostro paese». Ma la commissione si trovò in grande imbarazzo nel giudicare centinaia di elaborati farciti di tutto il repertorio più retorico o, al contrario, freddi come cartelli stradali. Poiché l’ultima decisione spettava al presidente del Consiglio («presenterò i disegni vincitori in Parlamento solo se lo riterrò opportuno» – vi ricorda qualcuno?) la cultura simbolica rimase a vagare per il paese.
C’è qualcosa che parla dell’oggi e all’oggi, in quel simbolo. Pensate per un momento di abolirlo, di trovare la traduzione visiva di un principio fondante la Repubblica più aderente all’attualità di quanto non sia il derelitto primo articolo della Carta costituzionale («padroni in casa propria» pare di un certo successo). Ridotto il lavoro allo stato liquido e la sua tradizionale rappresentanza a quello aeriforme, il primo elemento a sparire sarebbe la ruota, l’ingranaggio, ciò che ha trasformato l’Italia da paese contadino a potenza economica: l’industria. Compiuto definitivamente il Novecento, arrancante l’Italia come potenza industriale, finita la fabbrica: finita la Repubblica?