Il lavoro non esiste

20 Febbraio 2019

Foto Roberto Pili

[Loris Campetti]

La più strabiliante scoperta della politica è che il lavoro non esiste. Il prodotto invece c’è, che sia materiale o immateriale comunque c’è. Che dietro il prodotto ci sia qualcuno che l’ha generato è ininfluente, se non si vede non esiste, dunque è sufficiente renderlo invisibile per cancellarlo. Un telefonino è un telefonino e non chi l’ha costruito. Un algoritmo è un algoritmo e non chi l’ha inventato. Una pizza è una pizza e non il pizzaiolo che ha tirato la pasta o il rider che te l’ha portata a casa in bicicletta. Eccola la geniale intuizione della politica, una nuova teoria creazionista che non prevede l’evoluzione dalla materia prima al prodotto, cioè il lavoro. Eccola la strabiliante scoperta che ha fatto breccia nella cultura della sinistra politica. Chi invece ben conosce i generatori degli amati prodotti sono gli imprenditori, i quali però non hanno alcun interesse a far circolare la notizia della loro esistenza perché se li si ignora, se i produttori diventano sconosciuti cioè invisibili, non esistono.

E se non esistono, i padroni possono farne quel che vogliono di quei generatori di prodotti, senza interferenze della politica o dell’informazione, anzi con la loro subalterna complicità. Ne fanno carne di porco dei produttori – obsoleto termine novecentesco inventato da Bruno Trentin con l’intenzione di emancipare gli sfruttati dalla loro condizione – e i loro diritti vengono insaccati come salsicce e mortadelle pronte per allestire le apericene del terzo millennio. Ma c’è un effetto secondario provocato da questa controrivoluzione che colpisce soprattutto la sinistra politica: Dici che non esisto? Allora anche il mio voto per te diventa inesistente, dovrai fartene una ragione. E interi silos pieni di voti sono stati rovesciati nelle urne alla stregua del latte di pecora.
Mettere mano a questo groviglio e ritrovare il bandolo della matassa non sarà facile. Ho chiaro solo il punto di ripartenza: ridare vita, visibilità e parole a chi lavora riportandolo al centro della scena.

Questo, credo, sarebbe il ruolo degli intellettuali, di chi dovrebbe saper coniugare i verbi, costruire i nessi, liberare idee e parole di cui si sono perse le tracce. Qualunque operazione abbia questa finalità va sostenuta. Con questo spirito ho letto e consiglio di leggere “Con parole loro” di Frida Nacinovich, Ediesse edizioni, sottotitolo “L’amore per il lavoro nella tempesta del postfordismo”, presentazione di Sergio Cofferati e prefazione di Curzio Maltese . Il libro che raccoglie oltre cento testimonianze è il diario di un viaggio iniziato dall’autrice 5 anni fa per scovare nelle fabbriche, nei servizi, negli uffici i protagonisti, cioè le lavoratrici e i lavoratori, attraversando la grande crisi che ha svuotato le officine, spolpato i beni comuni, rinsecchito i servizi, scorticato gli esseri umani deprivandoli dei loro diritti fino a tentare di sradicarne definitivamente la dignità.

Dignità che invece si ritrova nelle parole e nelle lotte degli interlocutori di Frida che resistono al vento dei tempi, tra vittorie e sconfitte, com’è naturale nella storia e nella vita del sindacato. Aziende che chiudono ma anche aziende che crescono, la globalizzazione procede a macchia di leopardo come si capisce anche dai racconti operai che animano il libro. C’è un aspetto costitutivo di “Con parole loro” che ne rappresenta al tempo stesso la forza e il limite, che forse un limite non è bensì una sottesa promessa di un ulteriore scavo più in profondità: a parlare non sono lavoratori qualunque, persone incontrate per caso ma quadri, dirigenti sindacali, delegati, appunto quelli che resistono grazie alla coscienza di classe figlia di un pensiero forte, sensori e narratori dei cambiamenti. Operazione più che legittima, utile a evitare pessimismi e a legittimare rinunce e riflussi individuali.

Il fatto che ci sia in Italia un sindacato radicato e diffuso è una garanzia democratica, faremmo bene a ricordarcene. Però, finito di leggere il libro di Frida viene voglia di andare avanti, saperne di più dei tanti che invece hanno smesso di credere nella solidarietà come valore fondante di chi lavora, scoprire ragioni e torti di chi, e perché, volta per i sovranisti e se la prende con l’operaio nero di pelle e non con il suo slavato padrone. Viene voglia di scavare non solo nella controrivoluzione culturale della sinistra politica, ma anche nei ritardi del sindacato nel capire e dunque rappresentare la nuova era, i nuovi sfruttati, le nuove figure di un lavoro che il capitale ha frammentato e privatizzato per fare più soldi e per dividere chi lavora.

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