Il miraggio della parità di genere in Italia
16 Marzo 2014Michela Angius
Il Convegno “Imprenditorialità e innovazione: il ruolo dei laureati” organizzato a Bologna da AlmaLaurea è stato l’occasione per fare il punto sulla condizione lavorativa delle laureate italiane. L’analisi si basa su un campione di quasi 210 mila laureate appartenenti a tutti i tipi di corso a distanza di uno, tre e cinque anni dalla laurea.
Il quadro che viene fuori è sconfortante per il genere femminile ma anche per l’intera società data l’esistenza di un’iniquità imbarazzante in un Paese che spesso si auto-proclama democratico.
A livello occupazionale, è emerso che già a un anno dalla laurea magistrale (3+2) lavorano 52 donne su cento e 59 uomini su cento. Vi è una differenza di ben sette punti percentuali.
Le differenze di genere restano significative anche a distanza di cinque anni dal conseguimento della laurea, confermando in tal modo la penalizzazione femminile nel mercato del lavoro. Svolgono un’attività lavorativa 79 donne su cento e 86.5 uomini su cento.
Anche sul fronte della certezza lavorativa, la condizione delle laureate è avvilente. Gli uomini ottengono lavori più stabili rispetto alle donne. In Italia, la precarietà è più femminile che maschile.
La situazione peggiora se si considera la presenza o meno di figli. A un anno dalla laurea il tasso di occupazione tra chi ha figli è pari al 44% per gli uomini, contro il 27% delle laureate. Il differenziale continua ad aumentare più passano gli anni dall’ottenimento del titolo di studio. Con o senza figli, gli uomini hanno un tasso di occupazione maggiore di quello femminile.
C’è da chiedersi se le donne decidono di diventare madri più tardi o perfino di non avere figli anche in ragione di tali fattori. Questi dati raccontano l’esistenza di una discriminazione molto forte per chi decide di diventare madre. In effetti, l’età media delle donne italiane alla prima gravidanza è di 32 anni e data la situazione non proprio accogliente che si trovano ad affrontare appare come una scelta coraggiosa e ammirevole. Probabilmente se chi desidera mettere al mondo dei figli potesse contare su un insieme di politiche di sostegno, il tasso di natalità spesso tanto auspicato sarebbe più elevato e le madri-lavoratrici si sentirebbero più tutelate e supportate.
La situazione descritta fino a questo momento è drammatica, ma non finisce qui. Le differenze di genere riguardano anche le retribuzioni.
L’analisi è stata realizzata tenendo in considerazione le diverse variabili che possono influire sui differenziali retributivi di genere. Ad esempio il percorso di studio, l’età media alla laurea, il voto, l’eventuale formazione post-laurea, il tempo pieno e/o parziale, etc. A parità di tali condizioni, gli uomini guadagnano più delle donne.
Dopo i cinque anni dalla laurea, le donne che lavorano hanno in media uno stipendio mensile netto di 1.333 euro, gli uomini di 1.626 euro.
Sorvolando sul fatto che indipendentemente dall’appartenenza di genere questi stipendi consentono a mala pena di sopravvivere, gli uomini si portano a casa ben 300 euro in più rispetto alle donne.
Questa discriminazione è chiamata “pay gap” ed è trasversale ai diversi gruppi disciplinari. Solo per citare alcuni esempi: un insegnante di genere maschile guadagna mensilmente 437 euro netti in più rispetto alle insegnanti donne; un lavoratore sempre di genere maschile che è occupato nel settore scientifico guadagna 219 euro in più di una sua collega.
Alcune delle lauree dove si registrano differenze retributive in favore degli uomini sono ingegneria, agraria, psicologia e architettura. L’unico ambito disciplinare in cui le donne possono vantare un guadagno leggermente superiore è quello medico. Le donne laureate in medicina guadagnano 81 euro netti in più rispetto ai loro colleghi di genere maschile.
E’ evidente che i dati di questo Rapporto dovrebbero essere al centro delle politiche occupazionali, economiche e sociali dell’attuale Governo.
Nel 2013 il Bel Paese si è piazzato al 97° posto su 136 per quanto riguarda le pari opportunità nel mondo del lavoro. Senegal, Bolivia, Nicaragua e Brasile fanno meglio dell’Italia (fonte World Economic Forum).
Alle donne devono essere garantite le medesime condizioni lavorative e retributive degli uomini. Non si commetta l’errore tipico italiano di sminuire la questione bollandola come il residuo di un ideale femminista perché così facendo non si ottiene altro se non il mantenimento e rafforzamento delle disparità, e invece urge un tempestivo cambiamento. L’ennesimo.
16 Marzo 2014 alle 15:34
Concordo sulla considerazione che poter contare su un insieme di politiche di sostegno sarebbe incoragginate per chi desidera mettere al mondo dei figli. Le madri-lavoratrici necessitano di essere più tutelate e supportate sia dal punto di vista retributivo, nei primi anni di vita del bambino, sia per quanto riguarda la flessibilità oraria. S