Le percezioni del paesaggio
1 Novembre 2008
Giulio Angioni
I piani paesaggistici regionali, previsti come si sa anche dal Codice Urbani (dei Beni culturali e del Paesaggio), sono tutt´altro che numerosi in Italia. Se non erro, a tutt´oggi ottobre 2008 il più avanzato, e già in parte in vigore dal 2004 per la fascia costiera di circa due chilometri dalla battigia, è il Piano Pesaggistico Regionale della Sardegna, voluto molto dal governatore Renato Soru, molto discusso ma anche molto osteggiato dall´opposizione di centro-destra e da molti anche all´interno della maggioranza di centro-sinistra nel consiglio e nel governo regionali. Il Piano Paesaggistico Regionale della Sardegna si presenta dunque un esempio pionieristico in Italia in materia di pianificazione del paesaggio. In Sardegna c´è chi nota questa positiva “anomalia”, che fa sì che si guardi a questa impresa isolana di normazione e tutela anche da fuori d’Italia, per esempio dalla Spagna di Zapatero che vuole ripianificare le coste già cementificate a scopi turistici a misura degli interessi del turismo internazionale, che naturalmente tiene d´occhio anche questa impresa di pianificazione del paesaggio della Sardegna. Il PPR sardo si ispira, tempestivamente, alla convenzione Europea del Paesaggio di Firenze del 2000, che è stata salutata subito in tutta Europa come ottima e felicemente innovativa, e le sue direttive sono state recepite, sebbene a modo suo, anche dal nostro Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (Codice Urbani). Senza entrare nei particolari, è importante qui notare soprattutto che nella Convenzione Europea si definisce il paesaggio come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall´azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. E´ possibile che una tale definizione o visione del paesaggio sia molto lontana dal senso comune medio, in Sardegna, anche quando il paesaggio lo si consideri un costrutto umano, un modo di sentirsi nella “natura” e non un mero dato naturale. In questo l´antropologo che s´interessa ai saperi naturalistici nativi o locali o tradizionali o subalterni può e deve dire la sua, se può farlo a ragion veduta. Del resto, basta non molta riflessione per vedere le cose come propone e definisce la Convenzione Europea del Paesaggio di Firenze. Se si partecipa a una qualche discussione sul tema della pianificazione paesaggistica, in Sardegna, a qualsiasi livello, dal consiglio regionale al bar, si fa subito l´esperienza di una difficoltà: che ritenere il paesaggio una percezione (ovviamente non solamente visiva) delle popolazioni possa implicare il riconoscimento di un valore positivo a ogni data percezione, comprese quelle degli egoismi individuali e degli interessi degli speculatori.
In ogni caso però, e soprattutto nel caso della pianifiazione paesaggistica, è compito dell´antropologo mostrare che le percezioni di chiunque (e specialmente dei diretti interessati a vario titolo) sono da rilevare e analizzare prima ancora di essere tenute in conto, anzi, proprio per poter essere tenute in conto nella pianificazione. Infatti, anche nel caso che una certa percezione del paesaggio sia ritenuta inadeguata, arretrata o comunque negativa, essa deve essere rilevata, valutata e tenuta in conto, se non altro perché si può criticare e modificare meglio ciò che meglio si conosce, si documenta, si analizza. Sempre nella Convenzione Europea di Firenze, non si può non apprezzare il suo mettere insieme la nozione di paesaggio con quelle di processo e di dinamica, e quindi di progetto. L´urbanista, il territorialista, il naturalista, l´antropologo, il sociologo, non hanno forse molta difficoltà a pensare la processualità e la dinamicità nel paesaggio come territorio dato e nelle sue varie percezioni, quando si tratti di progettualità e pianificazione esplicita e programmatica. Più difficile è però farsi prendere sul serio quando si tenti di mettere in evidenza che le dimensioni dinamiche e processuali del paesaggio, e più in generale le dinamiche e i processi territoriali, hanno aspetti oscuri e impliciti che non sono meno importanti di quelli chiari ed espliciti, e propri dei vari specialismi abituati giustamente a partire dalla rilevazione e dall´analisi per arrivare al progetto, al piano, alla norma, alla sua applicazione. E che quindi tutti gli aspetti, chiari od oscuri, vanno affrontati con forme e modalità diverse di costruzione e diffusione della conoscenza. C´è anche qui un problema di “ricostruzione” del modo di conoscere il territorio, che è ancora tenacemente fondato sulla conoscenza analitica, basato su percorsi lineari che conducono dall´analisi al progetto e che in un certo senso affidano a grandi apparati informativi il ruolo di sistema nervoso centrale della conoscenza territoriale, il tutto pensato e presentato con piglio illuministico, anche quando si parli di una co-pianificazione che coinvolga almeno tutte le istituzioni, da quelle europee al singolo comune impegnato nella formulazione di Piano Urbanistico Comunale. La definizione di paesaggio della Convenzione Europea di Firenze, come già notato, viene riproposta nella sua sostanza nella legge 42/2004 o Codice Urbani, che è legge dello stato italiano, quindi da prendere sul serio, e spinge a chiedersi, com´è successo nel caso del PPR sardo, quando si parla di percezione del paesaggio, a chi, a quali ceti o strati o classi delle popolazioni locali occorra rivolgersi e prestare attenzione, e magari dare voce e credito. Riflettere sul paesaggio come percezione, latamente esistenziale e non solo visiva, porta subito a intendere che anche in piccole porzioni di territorio le percezioni sono tanto stratificate e differenziate almeno tanto quanto è stratificata socialmente e culturalmente la popolazione locale o comunque interessata a quel territorio. Probabilmente non si fa buona ed efficace pianificazione paesaggistica, tale che diventi senso comune e prassi spontanea diffusa, se non si riesce a tenere conto di come si è abituati a percepire variamente il paesaggio in cui si vive costruendolo, e magari anche sapendo distinguere le percezioni di un anziano pastore da quelle di un giovane imprenditore agricolo. In effetti le comunità locali, soprattutto nelle coste, ma anche nei paesi dell´interno, attraverso i rappresentanti democraticamente eletti, in Sardegna molto spesso si sono fatte portavoce e interpreti, “piuttosto che delle sensibilità profonde e dei valori del paesaggio storicamente configuratosi dall´integrazione tra uomo e ambiente, di gruppi ed interessi che nulla avevano a che fare con la tutela del paesaggio come bene ambientale di interesse strategico collettivo e sovra-comunale”, come nota la Relazione Tecnica che accompagna il PPR (www.sardegnaterritorio.it/pianificazione/pianopaesaggistico). Qui evidentemente si fa cenno ai potentati dell´economia soprattutto turistica internazionale, che cercano di determinare la configurazione generale del paesaggio, e se è così, prosegue il testo della Relazione Tecnica, “non si comprende perché a ciò non debbano concorrere anche le istituzioni sovra-comunali e le istituzioni scientifiche che indagano sui processi degli ecosistemi e sulle conseguenze nella lunga durata negli interventi sul territorio”.
Concepire il paesaggio come percezione dei diretti interessati o comunque interessati a un territorio, lungi dal semplificare generalizzando, pone di fronte alla complessità dei problemi e richiede, non solo in quanto pianificatori, cercare di attingere una integrazione delle percezioni dei vari soggetti ed una sintesi che recepisca l´interesse generale, magari slegato dagli interessi contingenti di parte più o meno leciti. Intendere il paesaggio come percezione, dunque, a parte tutta la miriade di altre osservazioni, costringe a tenere conto dei ruoli di ognuno e a organizzare la partecipazione democratica ai processi di pianificazione paesaggistica, evitando il più possibile il prevalere casuale o di mero potere lobbistico, anch´esso legato e coerente con interpretazioni soggettive del paesaggio e quindi anche a interessi sul territorio. La visione dinamica del paesaggio come percezione obbliga poi a una pianificazione in cui anche la fantasia non solo visiva, applicata al futuro, previdente e quasi preveggente, abbia ruolo progettuale primario.
Il problema maggiore in Sardegna, a parte che tocca fare un po’ i pionieri per la prima volta, è appunto far diventare il più possibile senso comune che il paesaggio o è un modo di vedere e di sentire, anzi di vivere in un certo luogo, o non è; e quindi non solo discutere, per esempio, se sia possibile un turismo balneare senza urbanizzazione delle coste, cosa importante, ma su cui finora si è finito spesso per insabbiare ogni discorso. Certo, combattere contro le volontà speculative è sacrosanto, tanto quanto che gli imprenditori abbiano certezze operative, ma tenere conto della varietà delle percezioni profonde del paesaggio è impresa a cui temo che non siamo ancora pronti. E non solo in Sardegna. Ma è urgente che il PPR sardo per lo meno non continui a essere occasione di lotta politica politicante tra maggioranza e opposizione e anche all’interno dei due schieramenti, se non addirittura pretesto di piazzamento pro o contro Soru, usando persino il delicato strumento del referendum abrogativo per scopi che con la pianificazione paesaggistica non sembrano avere a che fare. Tuttavia è positivamente nuovo e innovativo che oggi si discuta molto più che altrove in Sardegna di piano e di pianificazione paesaggistica, spessissimo anche in nome di ciò che si dice identità. E anche pensando al paesaggio, l´identità, se è anche altro, non può non essere un progetto del futuro in rapporto col passato nel contesto del resto del mondo. Che lo si sappia o meno, è sempre così. Ma è pensando a una cosa dicibile come identità paesaggistica sarda, paesaggio sardo identitario che le identità appaiono subito soggettivamente plurime, come del resto lo sono sempre, e allora questa è un´occasione in cui non è solo retorico il riconoscere che dev´essere considerato urgente sviluppare il senso della comunità di tutti i sardi, il senso dell´appartenenza e dell’unità di passato e futuro che lega l’insieme dei sardi al di là delle proprie diversità interne, per esempio tra i luoghi di costa e i luoghi di monte, di piano e di collina.
Qualcuno insomma nell´isola ha inteso che questa è un´occasione per un nuovo e necessario patriottismo sardo (magari non etnicisticamente sostanzialista e fissista) che diventi supporto e impegno a farci riscoprire il senso della cittadinanza, sarda italiana europea mediterranea e planetaria, ma anche il senso della legalità e dell´impegno civile, senza di che ogni pianificazione non può avere fondamento stabile e unitario. Un piano che si dice paesaggistico infatti comporta prima di tutto promozione di attività in campo politico, sociale, culturale, economico, scientifico, artistico e così via. Anche nel caso specifico della pianificazione paesaggistica, promuovere l´identità come rapporto e progetto deve significare promuovere, gestire e amministrare luoghi e occasioni d’incontro tra le diverse discipline scientifiche, tecnologiche e artistiche, favorendone lo studio complessivo, la diffusione e anche la formazione di professionalità specifiche oltre ad un´utilizzazione collettiva. Identità e paesaggio sono nozioni tanto poco dicibili quanto onnipresenti, non solo in luoghi identitariamente problematici come la Sardegna. Tanto più allora il concetto stesso di paesaggio mutuato dalla Convenzione Europea e, ripetiamolo, definito come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni…”, se fa discutere, non è però by-passabile. Questa percezione delle popolazioni locali, che genera il loro paesaggio e ne fonda territorialmente l´identità, sembra ad alcuni troppo rispettosa di percezioni paesaggistiche non condividibili, le quali infatti anche in Sardegna hanno prodotto ancora producono e vogliono continuare a produrre i danni che tutti lamentiamo. Eppure il paesaggio deve comunque pensarsi come un processo di percezione di un territorio, senza implicare che ogni percezione (e azione che ne consegua) sia positiva e rispettabile. Infatti ogni percezione è da considerare, e da tenere in conto, come forza in campo, senza di che si continua o a fare errori “centralistici” o “illuministici” o “dirigistici”, come, sempre in Sardegna, è successo per il piano del Parco del Gennargentu, osteggiato dalle popolazioni locali fino a farlo diventare lettera morta per tutti. Conoscere gli elementi della percezione comune del proprio paesaggio da parte di una popolazione, e le diversità interne di questa percezione, è condizione imprescindibile per la pianificazione, soprattutto quando di quelle percezioni si voglia sia utilizzare e sia mutare qualche aspetto. Tenere conto della percezione delle popolazioni è condizione politicamente neutra, preliminare a ogni piano. Ma non ci sono solo teste da cambiare in fatto di percezioni correnti sul paesaggio, ci sono certo elementi del senso comune vecchio e nuovo in fatto di paesaggio che possono giocare un ruolo positivo anche in fase di pianificazione, per non fare la fine del Parco del Gennargentu. Non si può programmare un aggiornato senso comune sardo paesaggistico fingendo che nelle teste dei sardi di oggi ci sia tabula rasa di percezioni, gusti, abitudini e codici emotivi in fatto di paesaggio. Essi infatti, sebbene più o meno espliciti, anzi di solito molto impliciti e però potenti ed efficienti, giocano un ruolo nel bene e nel male. I pianificatori devono almeno essere coscienti del fenomeno, se non anche attrezzati a riconoscerlo e ad affrontarlo.