Il pareggio di bilancio è lo squilibrio dell’economia

1 Gennaio 2018
[Federico Palomba]

Aderisco alla linea contraria all’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio nella Costituzione esposta da Marco Ligas nel convegno Chi ha ucciso la democrazia? con Massimo Villone.

La modifica apportata dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, («Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale»), le cui disposizioni erano destinate ad applicarsi a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014 (articolo 6), era e si è confermata inadeguata dinanzi alle gravi difficoltà del nostro Paese in tema di sviluppo e di risorse necessarie per favorirlo. Infatti, i sacrifici economici che si sarebbero dovuti fare per il fiscal compact non sarebbero stati sopportabili dalla nostra fragile economia, la quale avrebbe dovuto subire pesanti sofferenze persino riguardo ai mezzi necessari per vivere.

L’introduzione di quel principio, imposta dall’Unione Europea, è intervenuta in una fase drammatica caratterizzata dall’aumento crescente del debito pubblico italiano, da una decrescente inflazione fino alle porte della deflazione, da una ormai ricorrente e persistente recessione, dalla caduta della domanda complessiva, da un processo di forte deindustrializzazione, da un alto tasso di disoccupazione, generale e ancor più giovanile. Si trattava di una miscela esplosiva che presentava anche gravi rischi per la tenuta della pace sociale.

In questa situazione il pareggio di bilancio si configurava come il peggiore dei rimedi in quanto avrebbe impedito il rilancio dell’economia. Sarebbe come imporre ad un malato già defedato una dieta ulteriormente debilitante. Questa situazione esigeva, al contrario, la somministrazione di robusti integratori che ridessero forza e slancio al nostro tessuto economico favorendo gli investimenti, le iniziative imprenditoriali e l’occupazione, con benefici effetti per la ripresa dei consumi (che significa ripresa della produzione e rilancio dell’occupazione).

Si parte dal presupposto che il ricorso all’indebitamento si correla, a seconda delle condizioni del ciclo economico, non solo al calo della domanda aggregata (recessione) ma anche al caso, altrettanto insidioso, di sottoutilizzazione congiunturale dei fattori della produzione (c.d. output-gap). Ciò si verifica in presenza di condizioni (in particolare di inflazione decrescente fino alla deflazione) che impediscano l’effettuazione di investimenti lordi (mantenimento degli impianti esistenti) e netti (incremento degli stessi), determinando l’acuirsi della disoccupazione e la sua crescente dimensione strutturale (che implica che le unità produttive che chiudono aumentino fino a determinare un irreversibile decremento della capacità produttiva e dell’occupazione stessa). In queste condizioni, il ricorso all’indebitamento mirato e non irresponsabile può svolgere un’insostituibile funzione di sostegno alla domanda complessiva in quanto si pone in stretta ed obiettiva connessione col saldo annuale del risparmio privato (famiglie e imprese), base monetaria indispensabile che dovrebbe convertirsi in investimenti. Il modello costituzionale di cui tenere conto nella stessa esplicazione degli effetti del deficit, infatti, opportunamente dà un chiaro indirizzo alla distribuzione e alla tipologia preferenziale degli impieghi del risparmio, in modo da garantire un modello di crescita armoniosamente basato sulla equa ripartizione del reddito e della ricchezza. E’ illuminante in proposito l’art. 47 della Costituzione, in specie al secondo comma, legato alla correlazione tra indebitamento e risparmio in quanto pone in capo alla Repubblica il compito di indirizzare il risparmio verso determinati impieghi: l’abitazione, la proprietà diretta coltivatrice, l’investimento popolare nei “grandi complessi produttivi del paese”. Ciò anche in funzione della propensione marginale al consumo (crescente col diminuire del livello del reddito), che garantisce intrinsecamente un più efficace sostegno alla domanda.

Queste ragioni ho posto a fondamento di una ipotesi di proposta di legge costituzionale di modifica dell’art. 81 della Costituzione che ho messo a disposizione di parlamentari. Essa prevede la riformulazione di quella norma eliminandosi il pareggio di bilancio e prevedendosi, invece, la possibilità di ricorso all’indebitamento (peraltro, con maggioranza qualificata) sulla base degli effetti negativi del ciclo economico nell’esercizio precedente o anche in caso di differenza negativa della produzione e degli investimenti rispetto al potenziale economico nazionale. Si vorrebbe così:

  • nel primo caso riacquistare il ruolo costituzionale dello Stato nella correzione del ciclo economico per il sostegno alla domanda in caso di recessione, ruolo che è primariamente svolto dall’immissione della nuova liquidità ad opera dello Stato mediante il deficit;

  • nel secondo riaffermare lo stesso ruolo costituzionale dello Stato (desunto dagli articoli 3, secondo comma, 4, 35,.36,38, 41,42, 43, 45 e 47 della Costituzione) anche per il caso di economia nazionale che risulti crescere in modo insufficiente a causa del non pieno impiego dei fattori della produzione (con tasso di disoccupazione elevato in corrispondenza di inutilizzazione o dismissione di impianti industriali, anche senza recessione). Ciò perché la crescita rimane ridotta rispetto a quella effettivamente realizzabile se:
    a) si accumula per via fiscale un eccessivo risparmio pubblico (cioè un alto avanzo primario pubblico) per lungo periodo;

b) lo stesso Stato disincentiva, limitando il deficit con troppe tasse o limitando eccessivamente la spesa, la creazione del risparmio e la sua trasformazione in investimenti.

Ogni sforzo deve, quindi, tendere allo sviluppo al massimo grado del potenziale economico, che è costituito dal tendenziale pieno impiego degli impianti produttivi esistenti, reso possibile dalla trasformazione del risparmio prevalentemente in investimenti lordi (manutenzione degli impianti che rimangono in funzione) e netti (nuovi impianti con capitali aggiuntivi perché convenienti). Si verificherebbe, così, una situazione che favorisce la piena occupazione grazie proprio al risparmio privato consentito dal deficit pubblico.

Quanto detto sopra è finalizzato ad ottenere in misura adeguata la piena occupazione e la tutela della retribuzione reale. La piena occupazione è conseguente all’integrale sfruttamento degli impianti e alla trasformazione del risparmio in investimenti. La retribuzione reale segue all’aumento della produttività (anche incorporando l’aumento inflattivo dei prezzi, cioè l’inflazione, e non solo perseguendo la crescita al netto dell’inflazione: infatti, la crescita “netta” può non esserci per cause del tutto estranee a colpe dei lavoratori, ad esempio come avviene ora a causa dei mancati investimenti per eccesso di pressione fiscale o per insufficienza della spesa pubblica). Ciò consentirebbe alla domanda interna (ciclo retribuzioni-consumi) di sostenere l’occupazione.

La riformulazione prevede, inoltre, che non si possano istituire nuovi tributi e nuove spese. Si intende, così, reintrodurre il carattere formale (cioè di validazione contabile) della legge di bilancio, per rendere più chiara e responsabile, in vista dell’esercizio annuale, la gestione di saldi certi e non mutevoli per via di disposizioni di variazione della legge di spesa o di entrata contenuti nella legge di bilancio stessa. Ciò perché la certezza contabile di quest’ultima è messa in pericolo se si verifica la contestualità della  “manovra” contenuta nella legge di stabilità. E’ necessario, pertanto, evitare confuse sovrapposizioni tra manovra e legge di bilancio. Alla luce di quanto sopra detto un’ipotesi di riformulazione potrebbe essere così strutturata;

  1. L’articolo 81 della Costituzione è sostituito dal seguente: Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni legge che importa nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Il ricorso all’indebitamento è consentito, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei loro componenti, sulla base degli effetti negativi del ciclo economico nell’esercizio precedente o in caso di differenza negativa della produzione e degli investimenti rispetto al potenziale economico nazionale, nella misura adeguata a favorire la piena occupazione e la tutela della retribuzione reale mediante il sostegno alla crescita della domanda nonché la tutela e l’incentivazione del risparmio popolare ai fini dell’articolo 47″.

Nella legislatura che volge al termine è impossibile pensare che questa operazione di rimodulazione dell’art. 81 della Costituzione nel senso sopra indicato vada in porto. Essa, però, rimane affidata al nuovo Parlamento ed ai partiti che lo comporranno, di modo che la scelta degli eletti e dei partiti che ne faranno parte sarebbe utile che si giovasse anche della loro chiarezza programmatica in ordine a tale cruciale problema. In tal senso l’elaborazione di cui sopra è comunque ancora a disposizione di chi volesse assumerla come propria.

L’adozione di questa linea programmatica non collocherebbe il nostro Paese tra quelli euroscettici, ma si limiterebbe a far risaltare che le costrizioni troppo pesanti si traducono in un danno non solo per il Paese che le applica, ma anche per l’intera Europa, che si giova dello sviluppo dei suoi componenti mentre è, invece, essa stessa gravemente depotenziata dalle crisi economiche che li colpiscono.

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