Il pasticciaccio brutto di via Roma
8 Gennaio 2025[Gianni Loy]
Del pasticciaccio brutto di via Roma, già si è parlato assai, e si continuerà a parlarne. Peraltro, al di là delle disquisizioni di carattere giuridico, trasuda, prorompente, l’appartenenza di schieramento dei commentatori, com’è giusto che sia.
Scontate sono anche le meline di chi si adopererà per far sì che la pronuncia del Collegio regionale di garanzia elettorale non produca gli effetti paventati; altrettanto scontati sono gli appelli di chi, scandalizzato, invoca oggi il ritorno alle urne ma che, a trovarsi in altri panni, avrebbe sostenuto senza pudore la tesi opposta.
La delibera è chiara, puntuale sino alla pignoleria. Salvo che non si voglia gridare al complotto o immaginare qualche oscura trama, non sussistono dubbi sul fatto che la candidata alla presidenza della Regione abbia violato le norme di comportamento imposte ai candidati nella campagna elettorale. Da una candidata alla presidenza della Regione ci si sarebbe aspettata maggiore attenzione.
La lettura della norme che hanno ispirato il dispositivo – più che il dispositivo stesso – suggerisce, prima di tutto, una riflessione sullo stato della nostra democrazia, di quell’oggetto misterioso che, sin dai tempi dell’antica Grecia, continuiamo a chiamare con lo stesso nome ma che evolve nel tempo, che risulta sempre più difficile da interpretare, che, in certi momenti, sembra sfuggirci di mano.
Il tema che dovrebbe appassionarci non è tanto il resoconto della spesa, quanto il meccanismo che consente di annullare l’indicazione del popolo che, esercitando uno degli strumenti tipici della democrazia – le elezioni, appunto – ha scelto di farsi rappresentare da uno degli schieramenti che si son confrontati nei primi mesi dello scorso anno.
La vicenda viene così raccontata: la candidata Todde dev’esser dichiarata decaduta per aver infranto la legge che disciplina la campagna elettorale; ma siccome essa è presidente della Regione, non potendo esser sostituita, sarà l’intero Consiglio regionale a decadere: e così si riparte dal via.
Solo che la sovranità, e quindi il governo della Comunità, appartiene al popolo, che la esercita nelle forme, e nei limiti, indicati dalla Costituzione. Far decadere un’intera assemblea elettiva comporta una limitazione della volontà popolare; è indubbio che ciò sia possibile, ovviamente, ma soltanto nei casi indicati dalla Costituzione stessa.
Ma quale sarebbe la norma, costituzionale, che consente di limitare il potere del popolo di scegliere i propri rappresentanti, rimandando a casa tutti i consiglieri? Quale sarebbe il pericolo per la democrazia? Manca un riferimento formale, è evidente, – non si dimentichi che ragioniamo di un principio fondamentale – ma manca anche il benché minimo elemento sostanziale. La delibera che propone la decadenza della presidente, infatti, neppure affaccia la più piccola ipotesi che le irregolarità compiute dalla candidata, ad esempio, potrebbero aver falsato il risultati delle elezioni. Se così fosse…
Quale sarebbe, dunque, il “turbamento” del principio democratico della sovranità popolare tanto grave da produrre la decadenza di una rappresentanza elettorale democraticamente eletta? La democrazia è esposta a ben altri rischi di manipolazione della volontà popolare di cui dovremmo veramente preoccuparci; ed invece, mi è venuto da sorridere nel leggere che la candidata, o il candidato, alla presidenza della Regione, non possa spendere in campagna elettorale più di 80 o 90 mila euri. Suvvia! E così che intendiamo difendere la nostra democrazia? Mentre le mura della democrazia sono assediate, continuiamo a discutere sul sesso degli angeli. Ben altri problemi incombono.
E poi, è persino curioso osservare che, in presenza delle irregolarità del candidato alla presidenza, la sanzione venga applicata a tutti indistintamente i consiglieri eletti, sia della maggioranza che dell’opposizione, oltreché a tutti gli elettori che si sono recati alle urne e vedono così revocato il loro giudizio.
Si dirà: dura lex sed lex. Così sta scritto, per cui, nostro malgrado, così dobbiamo agire. Ma non è affatto vero. In primo luogo perché le norme, per risultare coerenti coi principi costituzionali, devono rispondere a criteri di ragionevolezza e di proporzionalità. Ed in questo caso, non pare proprio né ragionevole, né proporzionale sciogliere un Consiglio e mandare tutti a casa solo perché il candidato presidente ha commesso delle irregolarità nel rendicontare le spese per la campagna elettorale.
Ma così sta scritto! Né dubito. Non è questo il caso. Poiché questa ipotesi, questa fattispecie, non è stata disciplinata da nessun legislatore, neppure da quello ordinario.
Ma come? lo stabilisce la legge n. 515 del 1993! Niente affatto: tale legge disciplina una fattispecie differente, quella del singolo candidato a consigliere, o parlamentare, e prevede sanzioni soltanto per colui che abbia commesso l’irregolarità, che verrà sostituito dal primo dei successivi aventi diritto. Il legislatore del 1993, in nessun caso dispone sanzioni che vadano oltre la sfera personale del candidato inadempiente, perché l’ipotesi era del tutto sconosciuta all’ordinamento, e nessuno può arrogarsi il diritto di ritenere che il legislatore dell’epoca intendesse disciplinare fattispecie non prevedibili. Tanto più per il fatto, evidente, che quella legge era, ed è, finalizzata a garantire il rispetto della disciplina delle campagne elettorali mediante l’applicazione sanzioni dirette esclusivamente al trasgressore e neppure sfiora l’aspetto relativo all’esercizio della sovranità popolare. Giovanni Dore ha ricordato, assai opportunamente, che al momento dell’emanazione della legge n. 515/1993, i presidenti di Regione non venivano eletti direttamente dal popolo. Occorrerà attendere la modifica dell’art. 122 della Costituzione, avvenuta solo nel 1999 con legge costituzionale, perché la fattispecie di cui discutiamo veda la luce.
In definitiva, la legge richiamata non disciplina e non potrebbe disciplinare il caso, la fattispecie concreta che si è presentata; né è consentito supporre che il legislatore dell’epoca possa averlo immaginato e, immaginandolo, possa aver ritenuto proporzionale e ragionevole la sanzione della decadenza dell’intero Consiglio. Tale legge è applicabile solo nei limiti di quanto il legislatore intendeva e poteva disciplinare secondo lo stato dell’arte, ovverossia consentendo la decadenza del singolo eletto senza che, neppure incidentalmente, si producessero effetti su di un piano, quello costituzionale, che richiede di esser maneggiato con maggior cura. Non solo: neppure una norma di legge che, oggi, disponesse in tal senso – data l’enorme sproporzione tra la violazione e le sue conseguenze, visto che si intrecciano due piani ben distinti anche nella gerarchia delle fonti – potrebbe sfuggire al vaglio di costituzionalità da parte della Corte.
Quanto alla minuziosa ricostruzione dei fatti contenuta nella delibera del Collegio regionale di garanzia, c’è un aspetto che non intendo, quello relativo alla distinzione tra le spese per la campagna elettorale della candidata presidente e quella della coalizione dei partiti. La nuova legge elettorale ha praticamente cancellato tale distinzione – se ne dovrebbe prendere atto – visto che, con l’elezione diretta, la coalizione non può vincere se non vince il candidato presidente e se il candidato presidente vince, anche la coalizione avrà vinto. In altri termini: il candidato presidente che chiede il suffragio, chiede agli elettori di portare al governo la coalizione e, per altro verso, la coalizione, per poter vincere, deve necessariamente chiedere agli elettori di dare il loro voto al candidato presidente.
L’interpretazione, insomma, non può limitarsi all’analisi grammaticale del testo. Del contesto, come ammoniva Sciascia, non si può prescindere.