Il referendum sulle trivelle spiegato da chi l’ha scritto

1 Aprile 2016
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Marina Forti

L’intenzione dei promotori del referendum del prossimo 17 aprile è chiara: fermare le trivellazioni e mettere fine alla ricerca e all’estrazione di petrolio e gas nei mari italiani, almeno entro il limite di 12 miglia nautiche che definisce le acque territoriali. L’intenzione è esplicita, e rimanda a questioni di fondo: la politica energetica del paese, gli impegni assunti dall’Italia per limitare le emissioni di gas di serra che alterano il clima, la sua politica industriale. Se puntare sui pochi giacimenti di gas e di petrolio italiani, o piuttosto su altre risorse – turismo, agricoltura, beni culturali, protezione ambientale.

Ma un referendum non può proporre scelte così articolate: può solo abrogare delle norme esistenti. Certo potrebbe dare un segnale politico, esprimere un volere dei cittadini.

Allora vediamo: chi propone di fermare le trivelle, e perché. E soprattutto, che effetto avrebbe un sì.

Il testo di un referendum è sempre complicato: “Volete voi che sia abrogato” l’articolo tale, comma tale, terzo periodo, della legge tale, limitatamente alla tale frase. La frase da abrogare in questo caso è “per la durata di vita utile del giacimento”. Riguarda la durata delle concessioni (i “titoli”) per estrarre idrocarburi. I titoli di norma sono concessi per trent’anni; la compagnia concessionaria può chiedere una prima proroga di dieci anni e altre due di cinque ciascuna. La legge di stabilità 2016, però, parla di “vita utile” del giacimento, che significa allungare una concessione in modo indefinito.

Il ricordo dell’acqua pubblica

“Se vince il sì, quella frase sarà cancellata”, spiega Enzo di Salvatore, professore di diritto costituzionale all’università di Teramo: è stato lui a scrivere il quesito. “In quel caso le piattaforme oggi attive continueranno a lavorare fino alla normale scadenza della concessione, o dell’eventuale proroga già ottenuta, ma poi nessuna nuova proroga, andranno smantellate”.

Ma non succederà come con il referendum sull’acqua? Tre anni fa 27 milioni di italiani hanno votato a favore dell’acqua pubblica, contro la privatizzazione dei servizi idrici. Il messaggio era chiaro, però poi non è cambiato molto: Napoli è l’unica città che ha deciso di attuarlo, trasformando l’azienda idrica in un’azienda di diritto pubblico; altrove è rimasto tutto come prima.

“In questo caso il risultato sarà concreto e immediato”, insiste Di Salvatore: non c’è ambiguità possibile, votare sì significa che “la vita delle piattaforme non si potrà allungare all’infinito”, le attività petrolifere andranno a scadenza.

Che questo basti a fermare le trivelle è un altro discorso. Il referendum è stato promosso nel settembre 2015 da dieci regioni italiane (rimaste nove quando l’Abruzzo si è defilato), che hanno accolto gli appelli di un coordinamento No triv e di un gran numero di associazioni, tra cui le storiche organizzazioni ambientaliste nazionali e molte locali.

In realtà i promotori un risultato l’hanno già ottenuto. In origine infatti i quesiti erano sei, tutti dichiarati ammissibili dalla corte costituzionale. Avremmo votato per esempio anche per cancellare tre norme introdotte dalla legge sblocca Italia del governo di Matteo Renzi: quella che definisce “strategica” l’attività petrolifera, una norma sugli espropri e una sulle competenze delle regioni.

Questi quesiti sono caduti, perché le richieste sono già soddisfatte da alcuni emendamenti alla legge di stabilità 2016, approvati dal parlamento nel novembre scorso. In questo senso i promotori del referendum hanno già segnato un punto. Gli idrocarburi non hanno più il carattere di “strategicità, indifferibilità e urgenza” che comportava procedure accelerate e poche garanzie di consultazione per gli enti locali.

È saltato il “vincolo preordinato all’esproprio”, per cui anche solo una concessione per la ricerca faceva scattare l’esproprio dei terreni. Ed è scomparsa la norma che consente al ministero per lo sviluppo economico (Mise), cioè al governo, di sostituirsi alle regioni per autorizzare progetti di idrocarburi e delle infrastrutture relative: “Il governo non potrà più decidere unilateralmente; dovrà riunire le regioni interessare e cercare un compromesso”, continua il costituzionalista.

Un altro quesito è saltato perché si riferiva a un “piano delle aree”, poi abolito. Secondo le vecchie norme, il ministero dello sviluppo economico, sentito quello dell’ambiente e gli enti locali, doveva stabilire dove si può consentire la ricerca e l’estrazione di idrocarburi e dove no – nelle zone sismiche, o protette, o interessate da agricoltura di pregio, o densamente abitate, e così via. I promotori del referendum volevano bloccare nuovi permessi di ricerca sulla terraferma finché il piano delle aree non fosse stato definito. Nella legge di stabilità 2016 però il piano stesso è scomparso. In teoria, oggi sul territorio italiano si può trivellare quasi ovunque.

Un sistema di pozzi, raffinerie, infrastrutture

Dunque il 17 aprile andremo a votare sull’unico quesito rimasto in piedi. Il ministero per lo sviluppo economico ha chiarito che riguarda 135 piattaforme oggi attive, “ma il numero di concessioni è minore perché ognuna può comprendere più piattaforme”, precisa il costituzionalista: sono una quarantina. Enzo Di Salvatore si è appassionato alla questione degli idrocarburi alcuni anni fa, dice, quando il Partitodemocratico abruzzese gli aveva chiesto una consulenza per una legge regionale: “Ho scoperto che gli ultimi studi giuridici in materia risalgono agli anni sessanta, abbiamo molte lacune dal punto di vista del diritto minerario”.

Erano i tempi di Enrico Mattei e dei primi pozzi di gas in val Padana o del petrolio a Gela, in Sicilia. In effetti, solo all’inizio di questo secolo gli idrocarburi sono tornati d’attualità in Italia, quando i successivi governi hanno cominciato a dare permessi di ricerca, offshore e sulla terraferma. I progetti si sono concentrati su Abruzzo e Basilicata: “In Abruzzo c’è stata la battaglia contro il Centro oli che ha bloccato grandi sviluppi dell’industria petrolifera. In Basilicata non è stato così, e sono nati i pozzi della val D’Agri”, osserva Di Salvatore. “Ma non guardate il singolo progetto: petrolio e gas sono un sistema che comprende pozzi, raffinerie e varie infrastrutture”.

Le ragioni dei promotori del referendum sulle trivelle sono numerose, e diverse. Le scelte energetiche: durante la recente conferenza dell’Onu sul clima, a Parigi, “l’Italia si è impegnata a cominciare una ‘transizione’ verso le energie rinnovabili e l’uscita dai combustibili fossili per contenere il riscaldamento globale. Ma non sta facendo proprio nulla in questa direzione”, dice Stefano Lenzi del Wwf nazionale.

I critici delle trivelle spiegano che i giacimenti italiani sono poca cosa, e del tipo più “sporco”, con alto contenuto di sostanze sulfuree. Le riserve certe nei nostri fondali marini ammontano a 7,6 milioni di tonnellate di petrolio, secondo le valutazioni del ministero dello sviluppo economico: stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole sette settimane. Sommando le riserve su terraferma si arriverebbe a 13 mesi. Più consistenti quelle di gas che arrivano a 53,7 milioni di metri cubi. Diciamo che sul bilancio energetico non inciderebbero molto.

Gli effetti dell’estrazione invece sono duraturi. La costa adriatica per esempio vive di turismo, “ma pensate che i turisti continueranno a venire se gli riempiamo il mare di trivelle?”, chiedeva il presidente del consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti, presentando la campagna referendaria insieme ai colleghi (il 7 marzo a Roma). Il turismo in Italia occupa tre milioni di persone e produce il 10 per cento del pil nazionale, fanno notare i promotori. Si aggiungano pesca, agroalimentare, e la gestione del patrimonio culturale: industrie consolidate messe a repentaglio dalla ricerca di idrocarburi.

Poi gli effetti ambientali. Le ricerche in mare sono fatte con la tecnica chiamata air gun, “fucile ad aria compressa”, che significa sparare bolle d’aria in modo ripetuto e alta frequenza sui fondali, come esplosioni, per provocare onde d’urto (si usa nelle prospezioni geosismiche). L’impatto sulla fauna marina è perlomeno controverso. Nell’alto Adriatico inoltre c’è il rischio di “subsidenza”: estrarre il gas provoca un forte rischio che i fondali sprofondino, per la laguna veneta sarebbe il colpo finale (per questo in effetti in quella zona vige già una moratoria sull’estrazione). Ancora, un recentissimo studio di Greenpeace documenta l’inquinamento delle piattaforme nell’Adriatico.

Paradossi del partito di maggioranza

Il referendum sulle trivelle “dovrebbe sollecitare un ripensamento della politica industriale nel paese”, aggiunge Maurizio Marcelli, responsabile del dipartimento salute e sicurezza del lavoro della Fiom-Cgil: il sindacato dei metalmeccanici è nel comitato per il sì al referendum sulle trivelle. “Non è vero che se vince il sì si perdono posti di lavoro”, continua Marcelli. Le piattaforme non danno poi molto lavoro, e comunque “solo nella fase della trivellazione: poi lavorano tutto in remoto”. Certo, ci sarebbero un po’ di posti di lavoro nell’indotto, “ma sarebbero ampiamente compensati dal lavoro che si potrebbe creare investendo nelle energie rinnovabili e in settori industriali compatibili”, continua il dirigente sindacale. Così torniamo al punto: il referendum sulle trivelle rimanda a scelte di fondo sulla politica industriale, energetica. “Ma non vediamo un grande dibattito”.

Del referendum sulle trivelle si parla ben poco. Il governo ha scelto di non accorparlo alle elezioni amministrative (sarebbe stata necessaria una legge apposita, come è avvenuto in altri casi): i promotori ammettono che raggiungere il quorum è una sfida difficile. Poi c’è la solita confusione tra sì e no: vota sì se non vuoi le trivelle, e viceversa.

L’informazione sul referendum intanto viaggia soprattutto sui social media. Per una strana ironia, finora il referendum contro le trivelle ha fatto notizia soprattutto quando nel partito che guida il governo si solo levate voci che chiamano a non votare, suscitando polemiche: un governo invita i cittadini a non esercitare un diritto democratico. Paradossale: molte tra le regioni che hanno promosso quel referendum sono governate da quello stesso partito.

Questo articolo è stato pubblicato da Internazionale il 23 marzo 2016

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