Il ritratto del candidato premier
9 Febbraio 2013Gabriele Polo
pubblichiamo un contributo di Gabriele Polo sui ritratti dei candidati-premier (più o meno ufficiali) alle elezioni (Red)
Monti
Il suo incontro del destino si chiama Spread. Senza il panico seminato nell’estate 2011 da quel differenziale italo-tedesco, il nipotino di Mario Monti perderebbe quel soprannome. E il nonno non avrebbe il titolo di senatore a vita, né sarebbe diventato presidente del consiglio, tantomeno ora candidato premier come leader dei “riformatori”. Fu Mr.Spread (il differenziale, non il nipotino) che sfiorando quota 600 spinse il presidente Napolitano a un’iniziativa perlomeno bizzarra – forse non costituzionale – per liberarsi di Silvio Berlusconi, sostituendolo con un uomo privo di mandato elettorale o politico, ma ben dotato nel mondo finanziario e imprenditoriale. Perché Spread o nonSpread, Mario Monti non è un semplice professore di economia – associabile per postura e timbro vocale a un lampione stradale – e non avrebbe avuto bisogno di scendere (pardon, salire) in politica per essere considerato un uomo importante. E potente. Nel corso degli anni, il settantenne varesino presidente della Bocconi è stato: consigliere d’amministrazione di Fiat auto e Banca Commerciale Italiana; advisor di Coca Cola, Goldam Sachs e nel Council di Moody’s; Commissario europeo, prima alla concorrenza e poi al mercato interno; presidente europeo della Commissione Trilaterale – il “gruppo d’interesse” d’impronta liberista fondato da Rockefeller – e membro permanente del Gruppo Bilderberg – club esclusivo, in cui 130 personalità mondiali si incontrano, annualmente e a porte chiuse, per decidere quali siano gli interessi della Terra. Una sorta di massoneria economica, frequentata anche da Giulio Tremonti e Romano Prodi.
Con una simile esperienza, in epoca di dissesti finanziari, è ovvio che la politica italiana abbia aperto le porte a chi della materia se ne intende e ne dirige il traffico. Solo che, una volta sedutosi a tavola, il palazzo gli deve essere piaciuto parecchio e nel giro di pochi giorni Mario Monti è passato dal “presto torno a fare il professore” al “mi ricandido”. Forse non casualmente dopo un tour europeo, incoraggiato anche da banchieri tecnocrati e finanzieri. Suoi amici, sponsor e sapienti consiglieri: “Non vorrai mica lasciarci nelle mani della politica italiana?”, gli devono aver detto, ricordandogli per chi e perché era diventato premier. Ma votandosi in Italia e non a Bruxelles, il professore ha dovuto miscelare Fini con Casini, Montezemolo con Buttiglione e aggregare una pletora di commercalisti, avvocati, notai, padroncini. Tutto ‘sto rimescolio per rifare la Democrazia cristiana. E un po’ più in piccolo.
Ingroia
Curioso il destino della sinistra italiana. Per decenni è stata – o si è sentita – perseguitata da leggi e codici, da polizia e magistratura, costantemente minacciata dalla “giustizia borghese”; più per pensieri che per opere, a dire il vero, perché i sovversivi sono istituzionalmente bersaglio dello stato e dei suoi servitori. Ora tutto è cambiato, persino rovesciato: legge e legalità sono parole sempre più evocate a sinistra. Per dirla con De Gregori, “cercavi giustizia, trovasti la legge” e – magari – un giustiziere. Un po’ perché il malaffare ha sempre più potere, molti malandrini si sono fatti stato, le liste elettorali nazionali e locali sembrano estratti di casellari giudiziari, carabinieri e guardia di finanza temuti come bande armate. Un po’ perché le crisi ideologiche aprono spazi grandi come praterie, che in qualche modo devono pur essere occupati per arginare sofferenze e dolori. Così può capitare – come capita – che quasi tutta la sinistra-sinistra si ritrovi unita sotto l’ombrello di un magistrato: Rifondazione comunista, Verdi e Comunisti italiani, più una serie di aggregazioni antiberlusconiane e antiliberiste, più Di Pietro alla ricerca di un salvagente, corrono tutti insieme al riparo dell’ombrello di Antonio Ingroia. Più o meno è “l’arcobaleno” delle elezioni 2008, quando finì malissimo (zero deputati, zero senatori), ma stavolta sotto la toga di un magistrato. Preferito a chiunque altro per il suo impegno contro tutte le mafie – persino quelle guatemalteche, seppur presto abbandonate – e per l’irriducibilità della sua lotta ai malandrini fattisi stato. Certi che il magistrato palermitano non farà sconti a nessuno sul terreno della legalità, userà il codice penale contro gli imbrogli di finanzieri e gli scandali bancari, manderà la tributaria a colpire gli evasori fiscali e la polizia a scovare i padroni che fanno lavorare in nero e non rispettano le norme di sicurezza. Certi che Antonio Ingroia, capace di puntare il dito contro il capo dello Stato, non si farà intimidire o comprare da nessuno, né gabbare da gente come Scilipoti, Maluccio e tutti gli spacciatori di falsa onestà che hanno rovinato il povero Di Pietro e i suoi valori (morali e materiali). Ma, soprattutto, perché Ingroia “il giustiziere” ci mette una cosa fondamentale e rara di questi tempi: una faccia nota, la fama di incorruttibile, portando in dote l’eredità – contestata, come in tutte le famiglie – di Falcone e Borsellino. Allo scopo di conquistare qualche seggio parlamentare e permettere la sopravvivenza di una specie politica molto delicata e complessa che vorrebbe continuare a esistere senza dover ricorrere al Wwf.
Grillo
Vent’anni fa, promettendo un “nuovo miracolo italiano”, Silvio Berlusconi conquistava il monopolio della comicità politica. Oggi c’è qualcuno più bravo di lui. I tempi cambiano e se continua la centralità dello spettacolo come comunicazione inaugurata dal Cavaliere, Beppe Grillo ne ha stravolto forme e contenuti. Televisione e battute da avanspettacolo sono roba da vecchi, l’Ambra Jovinelli sul piccolo schermo funziona sempre meno. Con Grillo e il MoVimento 5 stelle l’Agorà è un alternarsi di piazza e internet, la politica va in rete accatastando uno sopra l’altro i problemi del paese, cuciti assieme dalla rabbia che vuole spazzar via tutto ciò che suona come politica tradizionale. VaffaDay, TsunamiTour: piazze e web ruggiscono, Grillo mette a disposizione la sua professionalità, carica gli astanti urlando e agitandosi che quasi va in apnea; poi innesca la risata liberatoria, senza la quale il fegato esploderebbe e la bile sommergerebbe tutto in un fetido blob. I contenuti sono quelli delle nostre tante emergenze: ambientali, economiche, finanziarie, legalitarie; tutti problemi veri. I nemici sono le caste di ogni specie e luogo: politici, banchieri, finanzieri, giornalisti; tutta gente piena di responsabilità e poco amata. L’obiettivo è fare pulizia, ridare il potere alla “ggente” normale, con l’onestà. In sé non è una novità, lo diceva anche il Berlusca del ’94, dopo Tangentopoli. Imbrogliava, eppure gli credettero in molti. Ma oggi sembra più vero, lo si urla con più rabbia, con mezzi più moderni e più cognizione di causa. Funziona. Anche se la comunicazione – in quanto spettacolo – è prevalentemente a senso unico. Perché la democrazia partecipativa di Grillo nasce e si perde presto nel grande mondo della rete. Alla fine, dai palchi come on-line è un monologo. Di successo, perché in fondo l’Italia è sempre alla ricerca di un capo da seguire. Anche se il leader nemmeno si candida e ti dice che lui è solo un portavoce, un megafono. E’ probabile che non menta. Probabilmente Beppe Grillo è solo l’avatar dell’inventore di Second Life, il cofondatore del MoVimento, Gianroberto Casaleggio, manager del web e genio della comunicazione. Sembra Vittorio Feltri con la parrucca riccia, parla poco ma c’è sempre. Soprattutto quando si tratta di far fronte ai dissensi e decretare scomuniche. Poche, per ora. In attesa dell’annunciato successo elettorale, per farne cosa, si vedrà. Periodicamente procediamo a tentoni nel buio: non per gufare, ma quando Mussolini marciò su Roma, l’allora re Vittorio Emanuele III se ne uscì con una considerazione degna di un Savoia: “Ne abbiamo provate tante, proviamo anche questa”.
Bersani
All’atto di nascita del Partito democratico, la definizione di “fusione a freddo” abbandonò per qualche mese i confini della fisica per inoltrarsi nel mondo della politica. Quello era il problema: come fondere, senza farli evaporare, gli ex democristiani della Margherita con gli ex comunisti dei Ds. E non far fuggire verso altri lidi i rispettivi elettorati, perché in politica 1 + 1 non sempre fa matematicamente 2 (molti anni prima un avventato Pietro Nenni fondendo Psi con Psdi disse che il risultato sarebbe stato 3: fu 1 e mezzo). Walter Veltroni ci provò, ma infaustamente: spesso gli esperimenti chimici hanno bisogno di più tentativi. In questo caso il terzo sembra essere quello buono. Perché Pierluigi Bersani è antropologicamente l’uomo giusto per tenere insieme ex democristiani (di sinistra) ed ex comunisti (di destra). Lo è fin dalla culla: nasce in una famiglia cattolica dell’Emilia rossa, da chierichetto organizza lo sciopero dei suoi colleghi contro il parroco, si iscrive al Pci per la disperazione dei genitori e poi si laurea in storia del Cristianesimo con una tesi su papa Gregorio Magno. Le due culture politiche prevalenti nell’Italia repubblicana convivono miracolosamente in Bersani. Un predestinato. Anche nelle passioni, fin dallo sciopero dei chierichetti, fatto per cambiare la destinazione delle offerte dei fedeli, rivelando quella sensibilità per i temi economico-sociali che, dalla presidenza della regione Emilia Romagna, lo porterà a Roma per essere più volte ministro dello sviluppo, dei trasporti, dell’industria e del commercio. E’ lui l’autore delle prime liberalizzazioni, per privatizzare il “pubblico che non funziona” (ma cui si ricorre volentieri per opere come la trasformazione in autostrada della Orte-Cesena-Padova, che Bersani sponsorizza come presidente dell’omonima fondazione) seguendo la stella polare dell’efficienza amministrativa, vera religione di Bersani rivelatrice della sua scuola emiliana, comunista di nome ma riformista-socialista di fatto: più Turati e Prampolini che Gramsci e Togliatti. Un mondo in cui a governare davvero sono le cooperative, tutte, “rosse” e “bianche”, LegaCoop e ConfCoop. Così anche nella sua sfida più impegnativa, la premiership, Pierluigi Bersani trae la propria proposta politica dalle sue radici: il buongoverno del socialismo emiliano, per fare dell’Italia un’unica e grande cooperativa e rassicurarla – anche quando polemizza – con i toni del patriarca contadino (“oh ragassi… siam mica qui a pettinar le bambole”, o “…a smacchiare i giaguari”). Talmente bonario che anche quando si arrabbia sembra non crederci troppo nemmeno lui. E sembra di vederlo, in maniche di camicia ai bordi della strada, col cric in mano per aiutarti a montare la ruota di scorta dell’auto in panne. Magari non sarà proprio l’Italia giusta del suo slogan elettorale, ma per il centrosinistra potrebbe essere la volta giusta.
Berlusconi
L’ultima è la restituzione dell’Imu. Con i soldi presi in Svizzera, sui conti italiani – una realtà al rovescio. Nemmeno Gino Bramieri le sapeva raccontare così bene. E, del resto, a Berlusconi cavalier Silvio – barzellettiere per passione, politico per necessità – non spiacerebbe essere ricordato come il grande intrattenitore d’Italia – più grande di Macario e Mussolini messi assieme – quando andrà a occupare il posto che gli spetta al centro del mausoleo che si è fatto costruire nella villa di Arcore, dove aveva generosamente offerto un loculo pure a Indro Montanelli, sentendosi però rispondere “Domine, non sum dignus”. Di storie, in questi ultimi vent’anni, il leader del centro-destra ne ha raccontate tante, con una costanza da far invidia alla pubblicità della cedrata Tassoni. Nuovo miracolo italiano, meno tasse per tutti, abolizione dell’Ici, dell’Irap, dell’Imu – come capo comico; lotta ai comunisti, alla politica-politicante, alla magistratura rossa – come capo manipolo. Alternando il sorrisetto ammiccante al ghigno rabbioso, in un copione perfettamente studiato: non per niente è lui, il Berlusconi cavalier Silvio, l’autore della più grande trasformazione antropologica dell’ultimo secolo, quella che desta meraviglia – non sempre ammirata – in tutto l’Occidente (essendo l’Oriente più abituato a misteri, presagi e prodigi): è il berlusconismo, l’ultima autobiografia della nazione, quell’insieme di pensierini e comportamenti che detta e al tempo stesso riassume la medietà di caratteristiche italiche, chiamate anche come vizi. Non per nulla è sempre lui, il Berlusconi cavalier Silvio, ad aver rivoluzionato la comunicazione prima televisiva e poi politica, dettando tempi, modi, battute e contenuti, al punto da contagiare e cambiare gli avversari fin nel profondo dell’anima, imprigionandoli nel terrore di diventare sempre più simili a lui. Cosicchè il militante di sinistra “medio” confessa di non temere tanto “Berlusconi in sé, ma il Berlusconi che è in me”. Sarà per questo che Berlusconi cavalier Silvio sembra non finire mai, capace di superare ogni tipo di scandalo – giudiziario, politico, sessuale – in una storia in cui tutti i protagonisti perdono i propri contorni. La Bocassini si confonde con le olgettine, Travaglio sfuma in Ghedini, Fede si incrocia con Vespa, l’ex procuratore Borrelli sembra lo zio dell’ex nipote di Mubarak. Tutti comprimari di cui si perde memoria. Lui no, di lui c’è perfetta concezione: se il pensiero è debole, il paese cerca qualcosa di forte. Ma niente tragedia, mica siamo in Grecia. Noi viviamo di commedia.