Il ruolo della questione sociale nell’attuazione del disegno europeo

16 Settembre 2019
[Gianfranco Sabattini]

Sin dall’inizio della realizzazione del disegno europeo, le politiche sociali hanno svolto un ruolo marginale, in termini, sia di impatto sull’andamento dei singoli sistemi economici nazionali, sia di procedure per l’adozione di provvedimenti legislativi, la cui approvazione ha richiesto, per lungo tempo, l’unanimità in sede di Consiglio. A parere di Maria Jepsen e Philippe Pochet (direttrice dell’area ricerca dell’Istituto Sindacale Europeo e docente di Economia del lavoro presso l’Università Libera di Bruxelles, la prima; direttore generale dello stesso Istituto e docente presso l’Università Cattolica di Lovanio, il secondo), il dibattito sull’Europa sociale ha sempre avuto come oggetto di approfondimento due aspetti: il primo riguardante il riequilibrio tra dimensione economica e dimensione sociale; il secondo relativo alla costruzione di “un ambizioso programma sociale”, che ha avuto sempre vita stentata, venendo di solito riproposto in coincidenza dei “momenti difficili” attraversati dal progetto europeo.

In “La dimensione sociale europea in prospettiva” (saggio apparso nel n. 1/2019 dei “Quaderni rassegna sindacale – Lavori”, totalmente dedicato al tema “Ripensare l’Europa sociale”), gli autori intendono dimostrare che nella realizzazione del progetto europeo non esiste “solo l’integrazione economica, ma anche il progetto sociale”. Quindi, analizzando l’attività degli organi di governo dell’Unione Europea successivamente al 2005, gli stessi autori ritengono possibile la definizione di una “cornice” istituzionale che, sulla base dei recenti sviluppi dell’economia globale, consenta di “delineare le prospettive future” del progetto sociale; un obiettivo, questo, che giustificherebbe la ragione per cui la Commissione europea, con l’intento “di promuovere un nuovo tentativo di riequilibrio e di sviluppo della dimensione sociale”, ha di recente proposto l’attuazione del “Pilastro europeo dei diritti sociali”, il cui impatto effettivo dovrebbe riequilibrare la dimensione sociale rispetto alla dimensione economica.

Nei primi anni del nuovo millennio, l’adozione di una Carta dei diritti fondamentali ha dato luogo a un ripensamento dell’intero sistema politico europeo; con essa, infatti, si è inteso porre rimedio all’impasse del periodo precedente, caratterizzato da continue dichiarazioni retoriche sulla necessità che fosse attuato un specifico “Modello sociale europeo”, in assenza però di una strategia attuativa da parte delle istituzioni comunitarie. Solo il sopraggiungere della Grande Recessione del 2007-2008 e le conseguenti difficoltà incontrate dagli Stati membri nel contrastare i suoi effetti negativi hanno determinato la nascita di un nuovo interesse per la dimensione sociale.

Gli anni della crisi hanno rappresentato un importante punto di svolta nella politica sociale comunitaria: il programma di riforme approvato nel 2000 a Lisbona dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Unione Europea, si è però risolta nella sola “istituzionalizzazione” del Consiglio Europeo di Primavera (un vertice annuale in occasione del quale i Capi di Stato e di Governo si sono di solito limitati ad analizzare i principali temi economici e sociali del momento, senza mai elaborare proposte da attuare nel campo sociale); pertanto, la “Strategia di Lisbona” è stata sostituita dalla “Strategia Europa 2020”, che costituisce il programma dell’Unione per il decennio in corso.

Si tratta di un programma comunitario che, oltre ad indicare le misure di politica economica da attuare per superare le carenze strutturali dell’economia europea, migliorarne la competitività e la produttività, e favorire l’affermazione di un’economia di mercato sociale sostenibile, stabilisce anche l’impegno dell’Unione ad attuare un piano per il sostegno dell’occupazione e per la lotta contro la povertà. La nuova “Strategia”, al di là degli intenti complessivi che la ispirano, comporta principalmente un cambiamento della politica comunitaria, consistente – affermano Jepsen e Pochet – “nel rafforzamento del sistema di governance economica”, nel senso che la “crisi economica non ha favorito alcun rilancio di nuove iniziative sul terreno delle politiche sociali, ma ha generato un gran numero di nuove misure sul terreno appunto della nuova governance economica”.

La Grande Recessione del 2007-2008 ha indotto gli Stati membri dell’Unione Europea ad adottare un insieme di iniziative intergovernative mirate a stabilizzare la situazione economica, con la costituzione del “Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria” (MESF), cioè di un fondo temporaneo a sostegno di quegli Stati membri della zona euro colpiti da crisi imputabili dovuta a circostanze eccezionali esterne all’eurozona. Nel 2013, il fondo è stato assorbito nel “Meccanismo Europeo di Stabilizzazione” (MES), passato alla storia col nome di “Fondo Salva Stati”. I due “Meccanismi”, osservano Jepsen e Pochet, “hanno dato alla Commissione e al Consiglio europeo un potere più ampio per determinare il modo in cui gli Stati membri dovevano redigere i loro bilanci, e quindi il modo in cui potevano definire e finanziare le proprie politiche sociali”.

Nel periodo tra il 2007 e il 2017 la politica sociale europea ha subito così una battuta d’arresto; ciò, a parere di Jepsen e Poachet, è valso a ridurre la dimensione sociale europea a prevalente “fattore di aggiustamento in relazione al risanamento e alle difficoltà dell’economia”; pertanto, per gran parte del decennio successivo all’inizio della crisi, la politica posta in essere non ha mirato “a rassicurare i cittadini europei sul fatto che l’Europa fosse anche un’Europa sociale”. Al contrario, il significato attribuito alla solidarietà fra gli Stati membri dell’Unione si è tradotto nella necessità che i Paesi con alto debito pubblico e con disavanzi nei loro conti non mettessero a rischio gli altri Stati membri.

Perciò, con l’inizio della Grande Recessione, l’Europa, non solo ha trascurato la dimensione sociale fra le priorità della propria “Agenda” politica, ma ha anche affievolito la “capacità degli Stati membri di utilizzare la sicurezza sociale come fattore automatico di stabilizzazione”. Di fronte a questa situazione, è stato inevitabile che sorgessero dei dubbi e dei timori riguardo alle sorti del progetto europeo; conseguentemente, vi è stato il rilancio del dibattito sulla dimensione sociale dell’Europa, con la concentrazione dell’attenzione sul rischio che poteva derivare alla prosecuzione del processo di integrazione del Vecchio Continente con lo smarrimento della questione sociale.

Il dibattito svoltosi in seno alla Commissione e al Consiglio ha portato all’adozione, nel 2017, del “Pilastro” sociale europeo che – secondo Jepsen e Pochet – lascerebbe presagire il ritorno, se non a un’Agenda dell’Europa sociale, almeno al ricupero dei “principi fondamentali che avevano governato l’UE sin dalle origini”. Per preservare e rafforzate questo ritorno – osservano gli autori – occorrerebbe agire da subito su vari fronti complementari; in particolare, occorrerebbe “riportare le questioni sociali tra le priorità dell’Agenda politica europea”, completare l’Unione Economica e Monetaria (attrezzandola di meccanismi di stabilizzazione) e modificare l’orientamento delle politiche economiche e monetarie.

Per Jepsen e Pochet, quest’ultimo punto dovrebbe essere oggetto di una considerazione prioritaria; ciò perché è ormai largamente assodato che l’architettura istituzionale dell’Unione, soprattutto per quanto concerne l’eurozona, è fondata sull’assunto che il governo dell’economia e della moneta unica debba essere garantito dall’accettazione condivisa della “clausola della convergenza”, in virtù della quale tutti Paesi aderenti sono obbligati a rispettare i famosi parametri fissati dal Trattato di Maastricht. Alla luce dell’esperienza successiva alla crisi del 2007-2008, due di questi parametri sono risultati particolarmente restrittivi per la politica economica e monetaria dei singoli Paesi: uno ha riguardato il governo del disavanzo corrente della pubblica amministrazione (espresso in termini di rapporto tra il disavanzo pubblico annuale ed il PIL); l’altro, la consistenza del debito pubblico consolidato (espresso in termini di rapporto tra il debito pubblico lordo ed il PIL).

La “clausola di convergenza” imponeva ai Paesi che all’epoca della decisione di adottare la moneta unica avessero avuto un disavanzo pubblico corrente maggiore del 3% del PIL di provvedere a diminuire tale disavanzo, sino a raggiungere un livello prossimo o minore del parametro stabilito; in secondo luogo, la “clausola” imponeva ai Paesi che avessero avuto un debito pubblico consolidato maggiore del 60% del proprio PIL di ridurlo sino a raggiungere un livello prossimo al tale parametro.

Emblematico risulta il caso dell’Italia, Paese eccedentario rispetto ad entrambi i parametri; il rientro nella norma sarebbe potuto avvenire senza traumi, solo se l’Italia fosse riuscita a crescere a tassi più elevati di quelli registrati nei Paesi aderenti all’area dell’euro e con debiti pubblici meno eccedentari. Ma la bassa crescita sperimentata nel corso degli anni Novanta ha imposto all’Italia di perseguire questo obiettivo, non grazie ad un’espansione della domanda aggregata, ma “attraverso politiche deflattive, che hanno reso oltremodo onerosa e difficile la sostenibilità del rientro dalle due posizioni debitorie eccedentarie”.

Al fine di superare l’empasse nella quale versa la realizzazione del progetto europeo, occorre dunque, a parere di Jepsen e Pochet, una nuova governance al servizio non dei mercati finanziari, ma della transizione da una società europea preoccupata unicamente di salvaguardare la stabilità monetaria ad una nuova società fondata su relazioni più solidali tra gli Stati membri, da realizzarsi attraverso l’abbandono della “clausola di convergenza” e degli automatismi del libero mercato.

Ciò sarà possibile, concludono Jepsen e Pochet, solo con la creazione di istituzioni comunitarie che “favoriscano la solidarietà e limitino il potere del mercato”; dovrà trattarsi di istituzioni in grado di governare la convergenza dei singoli Stati verso posizioni di un maggiore equilibrio dei loro conti, rimuovendo così “lo stallo sociale” attraverso un dialogo aperto e democratico. Per dare concretezza a questa nuova e auspicabile fase attuativa del progetto europeo, il “Pilastro” dei diritti sociali potrà costituire “il punto di partenza” di un rilancio della dimensione sociale dell’Europa unita, divenendo l’occasione di una svolta di lungo periodo che porti anche alla ripresa del processo di integrazione, sinora spesso interrotto e sempre ostacolato, a causa degli egoismi nazionali.

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