Il sindacato dopo il Jobs Act
20 Febbraio 2015Maurizio Landini
Con il varo dei decreti attuativi sul Jobs Act, il mondo del lavoro cambia in modo radicale. Personalmente non ho esperienza di cosa significhi fare il sindacalista e il delegato senza lo Statuto dei lavoratori e in un sistema contrattuale violato nei suoi principi. Non lo so perché siamo tutti cresciuti e abbiamo fatto sindacato in un’epoca di garanzie e tutele certe. Quest’epoca viene chiusa dal Jobs Act. Se lo sarà per sempre o no dipende soprattutto da noi e da ciò che faremo, visto che – considerando ciò che è successo in Parlamento in queste ultimi mesi – dall’attuale composizione mondo politico non credo ci si possa aspettare molto. Ma per essere in grado di riprenderci ciò che hanno tolto ai lavoratori e dare nuove tutele a chi non le ha mai avute dobbiamo in primo luogo essere coscienti della svolta radicale avvenuta. Prenderne atto, capirne le conseguenze profonde e elaborare un pensiero e una strategia adeguati al nuovo contesto. Che non ci piace,. Ma che non possiamo ignorare. Per un sindacato la prima cosa è capire come affrontare questa nuova realtà nella contrattazione. Che significa come riconquistare contrattualmente le tutele cancellate dalle leggi e, da subito, come dare tutele ai nuovi assunti e a chi passa da un posto di lavoro a un altro perdendo le precedenti garanzie. Perché saranno proprio loro a vivere in prima persona le conseguenze del Jobs Act, a loro si deve rivolgere e deve coinvolgere chi – nell’accentuato apartheid creato dal governo – può ancora usufruire dei diritti garantiti dallo Statuto dei lavoratori.
Credo che dobbiamo costruire, nella discussione e nel confronto con i delegati, gli iscritti e i lavoratori, delle piattaforme rivendicative che si pongano quell’obiettivo. La riconquista del contratto collettivo nazionale di lavoro non può essere solo una parola d’ordine pronunciata quasi ritualmente o addirittura con rassegnazione. Per noi è essenziale che il prossimo contratto nazionale di categoria – la cui sorte è tutta da verificare persino nella sua stessa esistenza – debba porre al centro l’obiettivo della ri/conquista dei diritti cancellati o mai avuti. Di fronte alle disuguaglianze salariali e di diritti in cui è stato scomposto il nostro mondo dovremo ricostruire un contratto unificante con rivendicazioni di stampo universale: nell’emergenza salariale e dei redditi che il paese sta vivendo vanno defiscalizzati i salari, non i bilanci d’impresa; è ora che i minimi del contratto nazionale diventino il salario minimo orario di legge; a fronte del dilagare del lavoro straordinario va incentivato il ricorso ai contratti di solidarietà come alternativa ai licenziamenti e va redistribuito il lavoro riducendo l’orario nell’ambito di un diverso e più articolato utilizzo degli impianti; nel contratto dovremo saper rappresentare e conquistare tutele per tutte le forme di lavoro e incentivare la partecipazione delle persone a partire dalla possibilità per i lavoratori e i loro rappresentanti di poter intervenire nelle scelte delle imprese, per discutere di cosa e come si produce, di quali siano le scelte strategiche e non dover sempre e solo giocare in difesa sui prestazioni e diritti.
Sarà su questo che siamo chiamati a sperimentare cosa voglia dire fare sindacato nel “nuovo mondo” che da fine febbraio sarà una realtà; e sarà su questo che dovremo qualificare la nostra capacità di rappresentare gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori. Senza escludere alcun tipo di iniziativa, anche giuridica e legislativa per riconquistare i diritti sottratti, fino alla possibilità di ricorrere a un referendum abrogativo del Jobs Act. Insieme ad alcune nostre proposte da mettere in campo, senza le quali il discorso rimarrebbe troppo parziale; a partire da una riforma degli ammortizzatori sociali al reddito minimo, in entrambi i casi per allargare le tutele e contrastare la deriva dell’impoverimento e della disgregazione sociale del lavoro subordinato, in tutte le sue frammentate forme.
Un altro punto centrale dovrà essere il nodo degli appalti. Che ormai dilagano in tutte le produzioni innestando precarietà e illegalità, abbassando fino al “livello zero” il potere contrattuale dei lavoratori. Questo lo dobbiamo fare per via contrattuale mettendo questo punto al centro delle piattaforme (lo stiamo tentando nella vertenza Fincantieri, perché l’azienda si assuma la responsabilità della filiera di appalti e subappalti, metterli sotto controllo e limitarne l’uso attraverso la stabilizzazione dei rapporti di lavoro e generando nuova occupazione), aprendo vere e proprie vertenze “dedicate”; lo dobbiamo fare in senso più generale, rovesciando il quadro di divisione che gli appalti oggi determinano per unificare il mondo del lavoro (in questo senso va la raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare promossa dalla Cgil sul tema degli appalti). E, poi, non dimentichiamo due altri temi di rivendicazione. In primo luogo le pensioni – che vogliamo riformare davvero a partire dall’abbassamento dell’età pensionabile, dal ripristino delle pensioni d’anzianità e dalla correzione del metodo retributivo per garantire una pensione alle giovani generazioni; e poi il fisco, su cui stiamo organizzando uno specifico convegno a Roma il prossimo 19 febbraio – per diminuire la pressione fiscale sulle fasce più deboli, contrastare la depenalizzazione progettata dal governo e combattere davvero l’evasione, destinando nuove risorse allo sviluppo.
Qui si evidenzia come la battaglia per i diritti abbia bisogno di congiungere l’azione contrattuale con un’iniziativa politica generale; perché il cambiamento determinato dall’azione congiunta di crisi economica, politica d’austerity dettata da Bruxelles e leggi del nostro governo ci impone d’affrontare la situazione a tutto campo. Proprio perché, come abbiamo promesso alle lavoratrici e ai lavoratori, noi non intendiamo fermarci nella battaglia per i diritti con il Jobs Act diventato legge, vogliamo affrontare le novità della nuova fase anche dal punto di vista politico ed essere un soggetto che si confronta e si coalizza con tutti coloro che nel paesi si muovono per contrastare un governo che sembra volersi rifiutare di ascoltare la società. Di questo atteggiamento è un significativo indice il rapporto tra l’esecutivo e i sindacati; o, meglio, il modo in cui il governo imposta il rapporto con i sindacati. Che in realtà è un non-rapporto. Nemmeno ti ascoltano, al massimo ti considerano un interlocutore nella gestione delle crisi aziendali, ma senza un confronto vero. Tantomeno sulle scelte di carattere generale, come si è chiaramente visto nella vicenda Jobs Act: noi abbiamo chiesto, alzato la voce, protestato, scioperato e manifestato, ma il governo non ha nemmeno dato udienza alle confederazioni, persino a prescindere dalle loro posizioni più o meno contrarie al suo operato. Al massimo ha “concesso” un paio di brevi udienze per illustrare ciò che intendeva fare, vagamente e sempre in modo molto generico, senza mai affrontare il merito delle questioni. Poi è andato avanti sulla sua strada, parlando più con i giornali che con le forze sociali. D’altro canto, anche nel mondo politico, tra i partiti e in Parlamento, il confronto è stato molto relativo e il governo ha sempre proceduto a colpi di fiducia, concedendo quasi nulla all’azione emendativa parlamentare o alla discussione tra le forze politiche.
Di fronte a una simile situazione la battaglia per i diritti di chi per vivere deve lavorare non può che essere generale e – accanto a uno specifico contrattuale – ha bisogno di una forte iniziativa sociale e politica. In questo senso dobbiamo rivolgerci in primo luogo ai movimenti, alle associazioni e ai singoli cittadini per costruire un antidoto allo scollamento tra paese reale e paese ufficiale, che mina la partecipazione e debilita la democrazia. Credo che in quella parte del paese possiamo trovare le alleanze e le risorse per rafforzare le nostre ragioni, rendere più efficace ogni nostra battaglia e costruire dal basso un’alternativa.