Il Sulcis tra passato e futuro
16 Ottobre 2015Marco Ligas
Con questo articolo riprendiamo una riflessione sul tema “Lavoro e riordino delle attività produttive”. Partiamo dal Sulcis ma siamo consapevoli che questa questione riguarda anche altri territori della Sardegna. Ci proponiamo pertanto di estendere le analisi e invitiamo i nostri lettori a partecipare al dibattito.
È ancora ragionevole ipotizzare una ripresa dell’economia del Sulcis confermando le scelte del passato (rilancio delle miniere, salvataggio delle fabbriche perennemente in crisi, ampliamento delle centrali elettriche) o è opportuno individuare nuovi percorsi che segnino una rottura con quelle esperienze?
È un interrogativo che impone una risposta, subito. Certo, è difficile lasciarsi la storia alle spalle soprattutto quando si sa che dalla metà dell’800 le miniere hanno cambiato il volto, nel bene e nel male, di questo territorio. Da allora sono nati diversi siti minerari (forse più di 200) su un’area molto vasta; ogni zona collinare aveva il suo pozzo, la laveria per il lavaggio del minerale estratto, le fonderie e le officine di lavorazione del materiale. Accanto a questi siti sono stati creati interi villaggi per soli minatori, con i loro spacci e magazzini. Sono state costruite reti ferroviarie per il trasporto dei minerali, prima con l’ausilio degli animali e poi con l’uso delle macchine a vapore.
Oggi molte di queste strutture stanno subendo le conseguenze dell’abbandono e sarà sempre più difficile salvarle da un ulteriore degrado se non si interverrà con tempestività.
Nelle miniere sarde è stata notevole la presenza di donne e bambini e il loro lavoro è stato sempre sottovalutato. Le donne facevano le cernitrici, separavano il minerale utile da quello scadente. Si trattava di un lavoro faticoso e rischioso che il più delle volte lasciava segni sulle mani delle lavoratrici. Esisteva una netta disparità di retribuzione tra uomini e donne, veniva considerata del tutto naturale nonostante l’orario di lavoro fosse uguale per tutti. Gli stessi bambini conobbero presto la fatica del lavoro e non è retorico sostenere che a loro è stata rubata l’infanzia. Sono stati dunque anche questi gli aspetti importanti che hanno caratterizzato il lavoro nelle miniere.
È perciò paradossale, nonché irritante, che oggi si parli di queste esperienze come se gli artefici dello sviluppo industriale del Sulcis siano stati soprattutto se non esclusivamente i progettisti dei diversi siti minerari o le imprese, il più delle volte straniere, che hanno realizzato i lavori. I minatori, le cernitrici, i bambini che spesso hanno pagato con la vita la durezza del lavoro sono regolarmente assenti dalle rievocazioni: questi protagonisti appartengono ancora ad una storia fatta di amnesie ed esclusioni.
Nonostante le molteplici difficoltà incontrate, l’intera esperienza mineraria è andata avanti per oltre un secolo, ma nella seconda metà del 900 è precipitata nella crisi. Una buona parte della popolazione del Sulcis, non solo i lavoratori che hanno subito i licenziamenti, si sente ancora particolarmente legata a quelle attività.
Perdurando la crisi oggi forse è poco prudente non ipotizzare percorsi alternativi alle attività minerarie o comunque legate a quelle industrie che sopravvivono nell’incertezza, in virtù di politiche assistenziali che non potranno essere eterne. Ci sono ancora lavoratori che subiscono la cassa integrazione, che hanno pagato le contraddizioni legate alla politica degli appalti, ricattati dalle aziende che intendevano risparmiare sui costi del lavoro. A suo tempo, per dare una svolta alla crisi, non sono stati sufficienti neppure gli interventi dell’Efim, la finanziaria delle Partecipazioni statali, e quelli dell’Egam, l’ente che aveva il compito di gestire le produzioni minerarie italiane. Probabilmente con questi enti sono cresciute soltanto le attività clientelari.
È da qui, da questa crisi, che dovrebbe nascere l’esigenza di una riconversione delle attività produttive con lo scopo di ridare valore al patrimonio ambientale, storico e culturale gravemente compromesso. Quando si affrontano queste questioni si fa spesso riferimento al modello che si è affermato nel bacino minerario e industriale della Ruhr, dove sono state impiegate, e con successo, risorse considerevoli.
In Sardegna si è parlato spesso di questo progetto. Nel corso degli ultimi due decenni sono state coinvolte diverse istituzioni, se ne è parlato con i rappresentanti della Giunta e del Consiglio regionale, con le Università sarde, con il Governo e persino a livello europeo. Forse non sufficientemente con i lavoratori e con le comunità territoriali. Anche l’Unesco, con un atto ufficiale del 1998, ha riconosciuto l’importanza del Parco Geominerario, Storico Ambientale della Sardegna impegnando Stato e Regione a mettere in atto le iniziative necessarie per il suo funzionamento. Purtroppo i contrasti interni alla Giunta regionale di quegli anni e la scarsa convinzione di alcuni rappresentanti istituzionali hanno bloccato questo progetto. Oggi si cerca di rilanciare quel progetto, con la consapevolezza che si tratta di un’occasione fondamentale, forse definitiva, perché il Sulcis fuoriesca definitivamente dalla crisi in cui si trova.
Gli obiettivi sono indicati in modo chiaro nella Carta di Cagliari, il documento base della costituzione del Parco. Basta citarne alcuni per comprendere l’importanza che rivestono. Si parla innanzitutto della salvaguardia del patrimonio di archeologia industriale e della creazione e tutela del Museo della storia mineraria. Non mancano le indicazioni per le opere di risanamento del territorio, di ripristino ambientale e di riconversione industriale. Anche le iniziative tese allo sviluppo delle attività turistiche rivestono un ruolo importante. Fondamentale risulta infine il recupero dei compendi immobiliari.
Per la realizzazione di un progetto così articolato e impegnativo non possono essere eluse alcune condizioni fondamentali. In primo luogo la disponibilità delle risorse necessarie. Quando si parla del bacino minerario e industriale della Ruhr non bisogna dimenticare che in dieci anni sono stati spesi due miliardi di euro per risanare 300 chilometri quadrati. Esiste anche in Sardegna la possibilità di investire una cifra, se non di quell’ampiezza, comunque necessaria per realizzare le riforme ritenute indispensabili? È evidente che investimenti di quella portata richiedono un impegno congiunto del settore pubblico e di quello privato. Al tempo stesso è fondamentale che l’intervento pubblico debba essere complementare a quello privato e non debba ripetere gli errori che si sono verificati in passato. Ciascun sostegno all’iniziativa privata dovrà essere finalizzato al raggiungimento di obiettivi programmati. E i controlli perché ciò avvenga dovranno essere severi, diversamente si riproporranno le clientele e il malaffare.
Il confronto sulle risorse certamente pone la Sardegna in una situazione di difficoltà rispetto all’esperienza tedesca. Si può però affermare che il progetto da realizzare nella nostra isola presenta un vantaggio rispetto alla Ruhr: le opere di risanamento del territorio e di riconversione industriale avvengono su un territorio che si affaccia su un mare stupendo e dove sono presenti spiagge estese per diversi chilometri: le potenzialità turistiche sono dunque evidenti ma non possono essere usate riproponendo vecchie pratiche caratterizzate da un uso primitivo, speculativo e devastante del territorio.
Nella valutazione della riconversione delle attività produttive non bisogna sottovalutare aspetti strettamente collegati alle tipologie degli interventi previsti. Già in passato sono emersi alcuni interrogativi per niente infondati che si possono sintetizzare così: come è possibile che i metalmeccanici o i chimici che hanno vissuto le loro esperienze lavorative all’interno di quei settori, all’improvviso scoprano nuove professionalità. Non si tratta di questioni irrilevanti, sono abbastanza importanti perché riguardano le esperienze lavorative di intere comunità.
È certo però che in momenti particolari, quando sono in discussione sia il futuro di un territorio sia le opportunità lavorative di migliaia di persone, è necessaria la disponibilità ad affrontare situazioni nuove che prevedono l’acquisizione di nuove professionalità; serve cioè una crescita culturale da parte di tutti per superare le resistenze che spesso derivano dai timori legati all’innovazione. E non è detto che quando si avviano i processi di riconversione i nuovi lavori debbano necessariamente sostituire tutti quelli vecchi anche laddove esistono le condizioni di una loro continuità.
In Sardegna, proprio nel Sulcis, i lavoratori dell’Alcoa sono ancora impegnati in una lotta che è sindacale e politica al tempo stesso, viene condotta per la difesa e la conservazione della fabbrica. La lotta non è facile perché incontra ostacoli sia da parte dell’azienda sia da parte delle istituzioni che oppongono una resistenza su un aspetto certo non secondario: la definizione del costo dell’energia che è indispensabile per la ripresa del funzionamento dell’azienda.
È pertanto necessario che la lotta degli operai dell’Alcoa trovi il sostegno sia sindacale che politico, avendo al tempo stesso la consapevolezza che un’eventuale sconfitta non segnerà la fine della storia ma costringerà tutti a reinventare nuovi processi produttivi capaci di garantire il diritto al lavoro così come è sancito dalla nostra Costituzione, per intenderci quella definita nel 1948.