Il tempo di una nuova umanità dipende da noi
1 Aprile 2020[Graziano Pintori]
Le nostre attività sono sottoposte alle regole dettate dall’emergenza sanitaria, di conseguenza sono rinviate a data da destinarsi. I nostri muscoli fisici e mentali sono costretti all’attesa. All’attesa della fine dell’attesa stessa. Siamo chiusi nelle nostre case a guardare il cielo: prima azzurro poi stellato, prima il tramonto poi l’aurora. E poi viceversa. Nell’attesa si guardano gli uccelli volare sopra strade magicamente deserte, inanimate e silenziose, seppure squarciate, ogni tanto, dall’ululare delle sirene. Nuovo corroborante dell’ansia. L’attesa è lunga. I bollettini governativi procrastinano l’attesa della fine del tunnel, e con essa la luce che squarcerà l’oscurità creata da Covid – 19: minaccioso assediante oltre le porte chiuse degli assediati. Siamo nel fine pena mai, nel nulla del Deserto dei Tartari della Fortezza Bastiani, costretti a fare i conti con il tempo che scorre con una quotidianità ben diversa da quella conosciuta. Nuova quotidianità fatta di attese, pause, code, fino all’altro ieri impensabili, perché il tempo era dominato dall’impellenza e dalla velocità, sostituitesi al tempo scandito dalle stagioni e dai nostri secondi, minuti, ore, giorni, mesi, e via discorrendo. Le azioni di qualsiasi tipo si compivano nell’ambito dei flash – mob, dove un’ora era troppo lunga, un giorno un’eternità. In pratica le attività della vita si svolgevano sopra un treno che non conosceva stazioni per le fermate, le soste e le attese. Si prendeva al volo per salire e scendere, scendere e salire. Tutto si svolgeva senza soluzione di continuità, mentre il tempo, quello reale, inesorabilmente scorreva; scorreva secondo il suo moto perpetuo, metamorfosando tutto, compresi noi con i nostri fitness e chirurgie estetiche: inutili mummificazioni contro il tempo.
Oggi il coronavirus ci costringe a stare chiusi nelle nostre case “con l’angoscia di sentirsi troppo pericolosamente vicino a se stessi”. Pericolo che proviene dal dover guardare cosa abbiamo caricato sulle nostre spalle senza avvertirne il peso delle responsabilità. Oggi siamo impossibilitati a fuggire, come sempre, su quel treno in corsa senza posa, dove ci sentivamo appagati della nostra esistenza, impermeabilizzati, o se volete, immunizzati da tutto ciò che non fosse compatibile con i nostri stili di vita. Siamo costretti a fare i conti con tutto ciò che rientrava nella normalità: la logica del sistema finanziario con la macelleria sociale; la logica di porre sullo stesso piano del mercato mondiale la tecnologia sanitaria e le armi di distruzione di massa. La logica della svalutazione delle vite dei “pacubenes” del pianeta, che muoiono di sanità, di fame, di peste, di siccità, di migrazione o di guerra. Tutte vittime della legge della giungla, mors tua vita mea, ossia la dura lotta per l’esistenza.
Oggi, nel lussuoso, sicuro, confortevole occidente siamo costretti a una sorta di “fermo biologico”, perché i nostri corpi sono aggrediti da corpi estranei che circolano nel sangue, penetrano nelle carni e scavano nel cuore. Finalmente ci accorgiamo che i nostri corpi sono vulnerabili come i corpi degli africani, degli abitanti delle favelas metropolitane, dei disabili, dei drogati, dei bastardi detenuti e via discorrendo. Siamo vulnerabili al cospetto di un nemico che è in grado di scalfire la nostra granitica sicurezza, costruita con le bombe atomiche e gli F35; siamo prigionieri di un nemico incorruttibile che non conosce ori e le ricchezze incalcolabili. Un nemico che nulla possono i talismani o le porte super blindate degli alloggi antiatomici. E’ un nemico presente ovunque, ovunque ci sia l’uomo tecnologicamente avanzato, ormai divenuto nemico di se stesso.
L’unico antidoto per porre fine all’attesa sembra essere il suo isolamento e rallentare quel treno sempre in moto incessante, ripristinare le stazioni per scendere e salire senza affanni. Ripristinare i finestrini dei treni e le finestre delle case per favorire lo sguardo verso il tempo, quello che scorre imprimendosi sul cielo, sui monti, sui nostri volti. E’ arrivato il momento di pensare alla decelerazione dell’energia che produce solo velocità e consumo, mercato e produzione, economia e PIL. Mi riferisco a quel sistema che si alimenta solo di noi stessi, perché siamo noi la carne che alimenta quel tipo di energia.
Potrebbe essere arrivato il tempo delle nuove stagioni, il tempo di una nuova umanità. Tutto dipende da noi.