Il vero problema dell’Europa è la xenofobia, non l’immigrazione
16 Ottobre 2015Marco Siddi
Negli ultimi mesi, centinaia di migliaia di persone hanno rischiato la vita per raggiungere l’Europa. Scappano da guerre civili e stati in disfacimento, come Siria, Libia e Somalia.
Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), tra gennaio e settembre 2015 circa 533.000 profughi sono arrivati in Europa via mare (rispetto ai 219.000 dell’intero 2014). Di questi, quasi 400.000 sono giunti in Grecia – paese già allo stremo a causa della crisi economica e dell’austerità – , 131.000 in Italia e poco meno di 3.000 in Spagna.1 Si tratta di cifre elevate ma ancora molto inferiori a quelle dei profughi siriani attualmente nei campi della Turchia (1.900.000), del Libano (1.100.000) e della Giordania (629.000), nazioni che sono notevolmente più povere e piccole dell’Unione Europea.
Tra i migranti arrivati in Grecia, la maggioranza proviene da Siria e Afghanistan. D’altro canto, quasi la metà di quelli che hanno raggiunto le coste italiane fuggono da Eritrea, Nigeria, Somalia e Sudan, vale a dire da nazioni devastate da conflitti o caratterizzate da violazioni dei diritti umani su larga scala. Secondo l’OIM, tra il 1 gennaio e il 2 ottobre 2015, 2.887 persone sarebbero morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Il tratto di mare che separa l’Italia dalla Libia è quello più pericoloso: quasi il 90% delle vittime ha perso la vita quì.
Attraverso le loro politiche, diversi stati membri dell’Unione Europea hanno contribuito a creare il caos da cui i profughi cercano di fuggire. Basti pensare alle operazioni militari britanniche e francesi in Libia, a cui non sono seguiti piani postbellici e che hanno spinto il paese verso la guerra civile. Dovremmo anche ricordare la partecipazione di molti paesi europei alle guerre guidate dagli Stati Uniti durante l’era di George W. Bush, che hanno contribuito a destabilizzare il Medio Oriente e a creare terreno fertile per i reclutatori dell’ISIS.
Nonostante le sue palesi responsabilità, l’Europa non ha mostrato un impegno umanitario e diplomatico adeguato a rimediare agli errori commessi in passato. Il dibattito si è focalizzato sul rafforzamento del controllo dei confini (come se questo potesse risolvere la crisi umanitaria) e sull’irrilevante connessione tra immigrazione e terrorismo. A Bruxelles, gli stati membri dell’Unione si sono scontrati, con toni molto accesi, sulle modalità di accoglienza e del ricollocamento dei profughi.
Alcuni paesi, in particolare quelli dell’Europa dell’est, il Regno Unito e la Finlandia, si sono opposti fermamente alle quote nazionali obbligatorie per il ricollocamento proposte dalla Commissione Europea, sostenendo invece un impegno su base volontaria e non vincolante. Altri si sono distinti per un approccio più generoso, in particolare la Germania e la Svezia, che stanno accogliendo sul loro territorio un gran numero di rifugiati. Le quote stabilite finora riguardano solo 120.000 persone e non tengono dunque conto del numero reale dei profughi. Restano inoltre forti dubbi sull’attuazione dei piani di ricollocamento: al momento, pare che i profughi verranno radunati temporaneamente in campi in Italia e in Grecia, per poi essere ridistribuiti tra i paesi Ue. Chi è arrivato sognando la Germania si rassegnerà all’idea di una vita, ad esempio, in Ungheria e Slovacchia – paesi che continuano a ripetere che non sono benvenuti?
Molti leader europei non sembrano interessarsi della dimensione umanitaria della crisi. Il primo ministro slovacco Robert Fico sostiene che il 95% delle persone che cercano di entrare in Europa attraverso la Grecia, l’Italia e l’Ungheria sono semplicemente migranti economici e non rifugiati. Il primo ministro ungherese Orban li ha bollati come immigrati irregolari e sta tentando di bloccarne l’ingresso in Ungheria con muri e barriere. Secondo Fico e Orban, l’attuale crisi deve essere affrontata come un problema di immigrazione illegale, con il conseguente rimpatrio nei rispettivi paesi di origine. Questo tentativo di distorcere la realtà ha una motivazione giuridica: secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sullo Statuto dei Rifugiati del 1951, gli stati della Ue sono tenuti a offrire accoglienza e protezione a chi può dimostrare di “essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche”.2
La polizia ceca, apparentemente immemore della recente storia europea, ha marchiato i profughi con numeri sulle braccia e sulle mani, mentre l’Ungheria ha utilizzato detenuti per erigere una barriera al confine con la Serbia. Durante l’estate, alla pressante richiesta di accogliere una piccola quota di rifugiati, il primo ministro slovacco e quello polacco hanno dichiarato la loro disponibilità ad ospitare alcune famiglie di profughi cristiani. Oltre a mostrare la totale intolleranza religiosa di chi le sostiene, queste posizioni sono in aperto contrasto con i valori fondanti della Ue, tra cui il sostegno a una “società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. (Articolo 2, Trattato sull’Unione Europea)3
L’inosservanza dei valori europei e le forti divergenze tra stati membri sulla ricollocazione dei migranti rivelano, nelle parole di Ivan Krastev, la “profonda crisi al cuore del progetto europeo”.4 Le sue origini non sono da ricercare nell’attuale flusso di profughi provenienti dalle regioni dilaniate dalla guerra. Sono piuttosto il risultato dell’incapacità da parte di molti europei di identificarsi con i valori che essi sostengono sulla carta, di confrontarsi apertamente con il passato xenofobo delle proprie nazioni e della costante tendenza ad affrontare in termini di sicurezza questioni umanitarie, come l’immigrazione da paesi in guerra.
Attribuendo a politici sciovinisti e di destra il ruolo di interlocutori credibili e accettandoli persino al governo, le istituzioni della Ue e alcuni stati membri hanno contribuito all’inasprimento della crisi. Consentire discorsi intolleranti nelle istituzioni di uno stato è un forte catalizzatore per la loro diffusione nella società. Per contrastare la deriva xenofoba, i leader europei dovrebbero incentivare un dibattito che ponga l’accento sui diritti umani, la solidarietà e l’eguaglianza, mettendo dunque in atto principi già codificati nei trattati europei.
[Marco Siddi è un componente dell’associazione Comuna]