Immateriali resistenti
16 Gennaio 2008
Marcello Madau
La tragedia delle morti orgolesi sembra abbia posto la riapertura di una questione, quella della Barbagia, mai chiusa né soddisfacentemente risolta Si riprende a discutere delle chiavi di lettura, dell’antica ‘Barbarìa’ contrapposta alla ‘Romanìa’ sarda. E’ mai esistita una Barbagia resistenziale? E se sì, esiste ancora? Quanto pesano e servono le chiavi interpretative sinora utilizzate? Negli studi di antichistica sarda ha un particolare ruolo il concetto della ‘costante resistenziale’, vera interpretazione di lunga durata della Sardegna antica e moderna generata dalla fervida attività intellettuale di Giovanni Lilliu: secondo essa, in estrema sintesi, con la conquista di Cartagine nel 509 a.C. le popolazioni sarde di stirpe nuragica che non accettarono l’invasore ebbero a rifugiarsi nelle montagne, da dove mantennero una propria specificità e, costante, resistenzialità sino ai giorni nostri.
Credo che tale ‘costante’ abbia una sua sostanziale validità (e non poche consonanze con ribellioni montane antigreche e antiromane di tante popolazioni della penisola in particolare del Mezzogiorno d’Italia), ma non si è certo sottratta a sostanziose forzature ideologiche. Emergono le glorificazioni delle premesse nuragiche, spariscono le critiche. E’ certo vero, come ha scritto Antonello Mattone, che Lilliu ha dato la forte impressione di teorizzare una sorta di nucleo etnico conservatosi quasi integro per millenni nelle montagne resistenziali, anche se sono prevalenti gli scritti nei quali lo stesso archeologo ha mostrato di leggere nel tempo dinamicamente, più che attraverso criteri di purezza etnica, la stessa formazione antropologica e artistica del mondo nuragico, sino a quello recentemente dedicato alla grande statuaria di Monti Prama per l’Accademia dei Lincei.
Per quanto riguarda l’antichità, sono convinto che la genesi della costante resistenziale vada ambientata in un mondo articolato, almeno per ‘dislivelli interni’ e non solo fra ‘capi’ nuragici, dentro le stesse comunità. Lo ebbe a percepire, lucidamente Emilio Lussu, e la divisione non sfuggì alla stessa sensibilità di Giovanni Lilliu, che la pose con chiarezza all’origine dei mali odierni.
Se le antiche classi dirigenti nuragiche non sembrano aver resistito compattamente ai fenici, a giudicare dai dati archeologici, non pochi sardi – strati sociali altri da quelli espressi dalle sfolgoranti immagini dei bronzetti armati – dovettero rifugiarsi nelle montagne con l’avvento di Cartagine: Diodoro e Pausania ne parlano con chiarezza. Identità sarde a confronto nelle ‘riserve’ montane o nella subalterna integrazione agricola nel mondo punico e poi romano, sino ad apprenderne quella che diventerà l’amata lingua. Poche generazioni dopo la conquista cartaginese si ribellarono lungamente a Roma, poi resistettero alla coatta cristianizzazione sino ai tempi di Gregorio Magno, e presumibilmente anche dopo; ed è certo ancora tutta da leggere, al di fuori delle ‘convenzioni’, la parte del medioevo e la trama secolare che da esso conduce alla modernità, attraverso i rigori dell’Inquisizione.
Cosa resta oggi della ‘memoria ribelle’ e resistenziale? L’impressione è quella di una sua radicale modifica. Il marcato mutamento globale dei rapporti di produzione e delle forze produttive, ai tempi della globalizzazione e dell’Impero, hanno inciso profondamente nella relazione fra memoria e contemporaneità, e la crisi della sinistra non costituisce più, o non ancora, che la stessa sinistra dia soluzione alle forti venature individualistiche del ‘ribellismo’ montanaro e pastorale. Si sviluppa altresì la produzione immateriale di artefatti culturali che cercano persino conforto nelle gigantesche icone di eroi profondamente divisi già in età nuragica (ai quali, se volessimo applicare specularmene la stessa ‘ottica’ modernista’ di chi cerca di sistemarli come ‘mito fondante’ della rivendicazione di indipendenza, potrebbe pure competere il giudizio di ‘traditori’: vendettero miniere e terreni, si inurbarono, con organica scelta sociale, nelle città fenicie, vivendo nelle stesse mura e seppellendo nelle stesse necropoli).
Cosa resta oggi di tale lunga – e composita – traccia, già critica in origine (fu proprio Lilliu a vedere negli antecedenti nuragici i ‘limiti dell’orizzonte storico sardo e le origini di mali non ancora cessati’)?
Dal punto di vista simbolico la morte di Peppino Marotto mi appare la fine della parte più alta e nobile della costante resistenziale nel suo approdo moderno, la conclusione di un periodo storico che ha cercato di sanarne limiti e chiusure legando in qualche modo le tematiche della rivolta operaia a quella della subordinazione del mondo pastorale, costruendo segni e movimenti organizzati (Camera del lavoro, Sindacato di classe, qualche cooperativa, associazionismo culturale) assieme all’episodio del rifiuto del poligono militare americano a Pratobello.
La crisi della ‘Barbarìa’, se non causa diretta alveo ampio delle dolorose lacerazioni in atto, non si curerà con eroismi o appelli culturali, ma risolvendo positivamente le relazioni fra lavoro e futuro, evitando la sovrapposizione di modelli economici e politici fortemente esterni e non condivisi, tutti falliti, partendo piuttosto dalle risorse delle comunità per costruire strade convincenti che si misurino con i mutamenti reali dei rapporti di produzione nella stessa struttura agro-pastorale. Una è l’ambiente con le sue potenzialità, risorsa che si è rischiati di bruciare con un’irresponsabile imposizione verticistica di un modello ‘parco’ pensato nelle metropoli e alle coste: ma esso non è l’unico modello di parco nazionale possibile. L’altra, non certo separata, è la battaglia contro il silenzio.
Vi è un grande bisogno di intelligenze e di unità, più di ieri. Il passato segno resistenziale coniugato con pratiche collettive può ben essere re-investito nei rinnovati temi della democrazia, dell’uguaglianza, della pace, della giustizia sociale, dei beni comuni, prospettive nelle quali, come scrive Lilliu, ‘il vecchio male della divisione possa lasciare il passo all’unità’.