Inclusione o decolonizzazione? L’Intifada palestinese, i difensori del vecchio ordine e il sardismo meticcio

2 Gennaio 2024

Manifestazione per la Palestina in Piazza Garibaldi a Cagliari

[Cristiano Sabino]

Premessa: In Palestina si è levato un grido di rivolta contro la colonizzazione. Che tale rivolta non piaccia al palato fino della sinistra imperiale, nei contenuti e nei modi, non inficia il fatto che, oggettivamente, rappresenta una messa radicale in discussione del dominio coloniale occidentale in Medio Oriente.

Scriveva Sartre nella prefazione a I dannati della terra di Fanon: «Ora avviene che quando un colonizzato sente un discorso sulla cultura occidentale, tira fuori la roncola o per lo meno si accerta che gli è a portata di mano. La violenza con la quale si è affermata la supremazia dei valori bianchi, l’aggressività che ha impregnato il vittorioso confronto di quei valori coi modi di vivere o di pensare dei colonizzati fan sì che, per un giusto capovolgimento, il colonizzato sogghigna quando si evocano davanti a lui quei valori».

In effetti sono parole la cui attualità e autenticità risuonano in noi senza essere state minimamente scalfite dal tempo.

È questo il punto cruciale attorno a cui gira la questione della rivolta palestinese e della conseguente guerra di sterminio di Israele verso la popolazione di Gaza e – in misura minore, ma altrettanto bieca – della Cisgiordania. Ed è questo il punto con cui dobbiamo confrontarci qui in Sardegna con le varie articolazioni politiche e sociali fondate sul presupposto della superiorità dei “valori” in nome dei quali avviene la colonizzazione e conseguentemente la pulizia etnica.

Il mito dell’inclusione.

Ora accade che, in diversi contesti e a fronte di mobilitazioni per la liberazione integrale della Palestina e in sostegno con la storia decennale di resistenza del popolo palestinese, da più parti venga posta la questione dell’«inclusione».

In sostanza si chiede (o si pretende, fate voi) che le mobilitazioni sulla Palestina siano «il più inclusive possibile». Si ragiona più o meno in questi termini: «bisogna essere inclusivi, quindi bisogna togliere tutti quei punti che dividono, per costruire una piattaforma comune che permetta a tutti i soggetti di partecipare ed essere protagonisti».

Di fronte a questo ragionamento dobbiamo chiederci: «ma tutti chi?».

Lo scorso 17 dicembre, I Giovani Palestinesi d’Italia, cioè la punta più avanzata delle mobilitazioni pro Palestina nei territorio dello Stato italiano, hanno comunicato quanto segue:

«Questa mattina saremmo dovuti essere presenti a Roma all’evento “Fermiamo il genocidio del popolo palestinese” organizzato da Unione Popolare, ma abbiamo deciso di non presentarci visto che all’ultimo ci è stata comunicata la presenza di Yousef Salman, rappresentante della “comunità palestinese di Roma e del Lazio” e dell’ANP, e di Luisa Morgantini, rappresentante di Assopace, fra i relatori.

In questo momento l’occupazione sionista sta sterminando il popolo palestinese. La misura della Nakba del 1948 è stata abbondantemente superata.

Questo genocidio è una rappresaglia brutale rispetto all’operazione militare del 7 ottobre.

L’entità sionista non può accettare che dopo 75 anni il popolo palestinese esista ancora, e non solo esiste, ma reclama la totale liberazione dall’oppressione colonia dal fiume al mare.

Pertanto noi non possiamo più accettare di condividere spazi di dibattito pubblico e politico con chi fino all’altro ieri auspicava la normalizzazione e la pacificazione col nemico, con chi rappresenta in Italia l’entità collaborazionista che è l’Autorità Nazionale Palestinese, con chi si fa promotore di Oslo, di quell’atto di alto tradimento che ci ha portati ad una seconda Nakba nel 2023.

Abbiamo più volte ribadito l’unità del popolo palestinese: il popolo palestinese è unito nel segno della resistenza. Chi invece ha scelto la via del collaborazionismo, ben prima del 7 ottobre, si era già allontanato dalla nostra comunità».

Perdonate la citazione un po’ lunga ma era necessaria per porre una questione fondamentale che, apparentemente riguarda solo il loro movimento: I Giovani Palestinesi d’Italia hanno torto o hanno ragione nell’affondare una critica così radicale in un momento in cui – si dice – bisogna allargare il consenso sul “cessate il fuoco”?

Il punto è questo: la linea «inclusione», apparentemente suggestiva e democratica – di fatto porta a escludere dalla piattaforma la condanna dell’occupazione israeliana e il sostegno alla legittima resistenza del popolo palestinese che persiste dal 1948 ad oggi. E porta a depennare la saldatura tra lotta anticoloniale palestinese e lotta anticoloniale in Sardegna, a partire dalla saldatura con la lotta (di comune interesse di palestinesi, comunità arabe e sardi) all’occupazione militare italiana in Sardegna e al conseguente utilizzo dell’apparato militare-industriale italiano presente nell’isola da parte israeliana.

A titolo puramente esemplificativo riporto lo stizzito sfogo social di uno dei vari organizzatori della manifestazione infetta da Diritti al Cuore convocata, non a caso, ad un giorno di distanza dalla mobilitazione per il boicottaggio dei marchi legati ad Israele:

«La manifestazione è stata aperta e condivisa e non di carattere divisivo e frazionista, lontana da facili parole d’ordine semplicistiche più simili a un tifo da stadio che a un ragionamento politico adatto alla contingenza storica e politica da cui nasce il dramma vissuto dai palestinesi.

Le parole d’ordine di ieri non erano orientate a chiedere la distruzione di Israele, per esempio, ma piuttosto a richiedere un ragionamento logico: Un immediato cessate il fuoco a Gaza»

Le parole d’ordine impronunciabili.

Non si tratta di un delirio isolato, visto che a vario titolo, magari sottobanco e per messaggi di rimbalzo, la scena politica “progressista” sassarese, negli ultimi tre mesi di assidue e costanti mobilitazioni decoloniali, ha pensato bene prima di disertare le mobilitazioni (a parte alcune nobili eccezioni come Rifondazione Comunista e Ponti no Muri) e poi di criticare – mai in maniera aperta e franca – piattaforma e modalità di convocazione delle stesse, ritenute troppo radicali, utilizzando argomenti affini a quelli di cui sopra.

Ma quali sono queste parole d’ordine che vorrebbero la «distruzione di Israele» e si caratterizzano per essere «tifo da stadio»?

Vediamole:

7 ottobre, Sassari, manifestazione “Libertade pro khaled, Libertade pro sa Palestina”, Manifestazione per denunciare l’arresto arbitrario di Khaled El Qaisi, un cittadino dello Stato italiano di padre palestinese e madre italiana, traduttore, studente di Lingue e Civiltà orientali all’Università La Sapienza di Roma e tra i fondatori del Centro di documentazione palestinese. Alla manifestazione hanno aderito: Gambia society, Zuanna Maria Boscani (artista), Riccardo Camboni (artista), Cobas Scuola Sardegna, Maria Elena Delia (Fondazione Vittorio Arrigoni), Filippo Kalomenìdis (scrittore), Madri contro la Repressione, Anghelu Marras (artista), Ponti non Muri, Progetto per Nuoro, Partito Rifondazione comunista Sassari, Rossomori, Sardegna Possibile, Sardegna Rossa. Del fantastico mondo della sinistra e della cultura italiana di sassari, a parte alcune sporadiche eccezioni di cui sopra, manco la eco!

11 ottobre: Su frore de sa Palestina. La chiamata è la seguente: «I fiori della rivoluzione palestinese stanno sbocciando. Curiamoli e scriviamo la storia con i popoli oppressi. Intifada fino alla vittoria».

28 ottobre, manifestazione con corteo “Palestina Libera”, con le segunti parole d’ordine: «sostegno del Popolo e della Resistenza Palestinese, che dopo anni ed anni di dominio coloniale continuano la lotta per la liberazione della propria terra, mentre a Gaza lo Stato d’apartheid d’Israele procede col massacro e con inauditi crimini contro l’umanità».

Contestualmente inizia la raccolta fondi in accordo con il Comitato Solidarietà con la Palestina – Sardegna, il Centro Culturale Handala Alì, i Giovani Palestinesi d’Italia, e l’Unione Democratica Arabo Palestinese «per sostenere la popolazione di Gaza in questo disastro umanitario perpetrato dallo Stato sionista occupante».

23 novembre: prosegue la raccolta fondi in collaborazione con la comunità palestinese di Sassari che infatti ha presentato anche una breve conferenza storico-politico sulle radici della questione.

Ecco il testo di chiamata dell’evento solidaristico: «La Palestina è sotto attacco da parte della violenza ignobile e barbara di Israele. Non solo le forze armate israeliane radono al suolo ospedali, campi profughi e bombardano ambulanze e convogli umanitari, ma lasciano addirittura morire i bambini nelle incubatrici e occupano il Parlamento palestinese. Tutto questo avviene con la complicità e il supporto degli USA, dell’Unione Europea, dello Stato italiano e anche della Regione Sardegna. Però milioni di persone in tutto il mondo stanno sostenendo la causa della Palestina libera che è diventato il simbolo della lotta contro imperialismo e colonialismo mondiali».

9 dicembre, incontro al Vecchio Mulino con Maria Elena Delia, storica militante della Freedom Flottilla, l’organizzazione che ha rotto l’embargo israeliano della Striscia di Gaza e attuale esponente della Fondazione Vittorio Arrigoni, il pacifista ammazzato a Gaza in circostanze assai oscure e storica. Ecco il titolo dell’evento: “Disertare è lottare. Disertare per combattere. Un nuovo internazionalismo per la Palestina”.

22 dicembre, inizio della campagna di boicottaggio dei marchi legati a Israele dal titolo «Tzocamus sos criminales de gherra – Boicottiamo i criminali di guerra». Ecco le parole d’ordine: «Liberazione totale della Palestina. Solidarietà e sostegno al popolo e alla resistenza palestinese. Rompiamo gli accordi tra Israele e l’apparato militare-industriale-accademico italiano che usa la Sardegna come base di esercitazioni militari e ricerca funzionale al genocidio perpetrato dai sionisti».

Valuti il lettore in che senso queste parole d’ordine possano essere derubricate a «frazionismo» o a «tendenza a strumentalizzare qualsiasi cosa, persino i morti sotto le bombe» – come pure si è scritto a proposito delle mobilitazioni decoloniali degli ultimi tre mesi.

La questione simboli «divisivi»

Un altro argomento che ritorna costantemente nella critica alle mobilitazioni radicali del movimento decoloniale nato nel nord Sardegna, è la questione dei simboli. I simboli – si argomenta – «dividono e non includono». A ben vedere l’argomento dei simboli è una sottomarca dell’argomento «inclusione», ma ci offre alcuni spunti di riflessione che vale la pena analizzare.

Perché dovrebbero essere un problema i simboli di chi si batte palesemente per la liberazione integrale della Palestina e per denunciare l’utilizzo da parte dello stato terrorista israeliano del sistema militare-industriale presente in Sardegna?

Chi ha filo da tessere tessa, poi si vedrà qual è la linea più adatta all’attuale contingenza storica. Inoltre le mobilitazioni sono sempre state aperte ad adesioni e molte realtà si sono inserite a pettine nell’organizzazione. Sta nelle cose che si proceda per affinità di metodo e politica. Ci si avvicina, si discute, ci si confronta, poi ci si trova e si crea un blocco sui contenuti e sulla condivisione delle pratiche. Così accade nella vita, sul lavoro, nelle amicizie e anche nella politica. È ovvio che anche quello sui simboli è un mero pretesto per disseminare vento.

Non sarà che il vero problema è che la sinistra imperiale non ha nessuna intenzione di dire una parola chiara su questo, per la semplice ragione che dietro varie associazioni e movimenti sta il PD, cioè il partito della guerra e di Leonardo, il partito che difende l’occupazione militare della Sardegna e che si schiera per “il diritto di Israele a difendersi”, cioè a massacrare i palestinesi e a rubargli la terra?

Perché devono sparire i simboli di chi si batte a viso aperto contro la colonizzazione? Per permettere di scendere in piazza e magari farsi propaganda elettorale a chi invece sostiene la colonizzazione (in Palestina e in Sardegna) ma vorrebbe lavarsi la coscienza con un po’ meno bombe e un po’ meno morti o più diluiti nel tempo o magari semplicemente nascosti alle telecamere, come avveniva prima del 7 ottobre?

Lo scorso 23 dicembre a Sassari è successo esattamente questo. Per esempio, era in piazza l’ex sindaco di Sassari (all’epoca PD) Nicola Sanna. Oggi è un noto esponente di +Europa e fieramente sui suoi social ha postato sue foto alla manifestazione, scrivendo «per il cessate il fuoco e per la #Pace in #Palestina». Anche la vicesegretaria della federazione regionale del PD Maria Francesca Fantato ha aderito alla manifestazione, postando sui suoi social il seguente testo: «La Pace si costruisce ogni giorno. Questo pomeriggio appuntamento alle ore 17:30 in piazza Azuni per un momento di riflessione e solidarietà nei confronti di una comunità straziata».

Notate come sia nel caso di Sanna che nel caso della Fantato, non ci sia alcun riferimento a Israele, all’occupazione, al terrorismo di stato, alla rivolta contro la colonizzazione. Non è un particolare di poco conto!

Tutto questo evidentemente non solo va bene agli organizzatori della manifestazione, ma è esattamente questo che intendono con «l’essere inclusivi». Sono inclusivi verso i dirigenti di partiti suprematisti, guerrafondai, colonialisti e filoisraeliani.

C’è infatti bisogno di riepilogare le posizioni di +Europa e del PD sulla questione palestinese? On line si trova ampia documentazione a riguardo!

La questione dei simboli è chiara: siccome i dirigenti di +Europa e del PD non possono mettere i loro simboli, allora mandano avanti il loro potente articolato civico con l’obiettivo di smussare gli angoli e censurare posizioni fino ad ottenere un manifesto di chiamata che non contiene nulla, se non un generico umanitarismo e un universalistico richiamo alla pace, del tutto compatibile con le segreterie dei loro partiti di appartenenza che, in realtà, sono schierati dalla parte del sionismo, dell’imperialismo, del colonialismo e del suprematismo occidentale.

«Se ti rubano il portafoglio». Critica al mito di due popoli due stati

In questi giorni, confrontandoci con le comunità arabe sulle parole d’ordine e sui metodi della mobilitazione, è emersa una metafora molto forte che voglio riportare qui per spiegare il ragionamento che ci ha portati a mantenere una linea politica radicale e non compromissoria sulla decolonizzaizone della Palestina e della Sardegna: «se ti rubano il portafoglio, tu accetti di fare a metà con chi te lo ha rubato?».

Ecco spiegata in breve la teoria dei “due popoli, due stati”, utile a lavare la coscienza della sinistra imperiale, ma non a inquadrare la questione della necessaria decolonizzazione. La decolonizzazione o avviene o non avviene, non ci si può liberare a pezzi. Certo, non esiste la bacchetta magica ed è a volte necessario costruire i percorsi di emancipazione. Ma non è possibile pensare di assumere una posizione sterilmente umanitaria o neutralista sulla questione: in un conflitto ci si deve posizionare, soprattutto se questo conflitto apre un’enorme faglia nel sistema di dominio globale a trazione statunitense e avvicina diversi popoli, tanto da rilanciare – su scala globale – un nuovo e vigoroso fronte anticoloniale che dalla Palestina arriva fino in Sardegna.

In Palestina vige lo stato di apartheid. Non lo dico io, lo dicono varie organizzazioni internazionali serissime sulla base di rapporti approfonditi. Scrive per esempio Amnesty International:

« La conclusione di Amnesty International è che le autorità israeliane stanno mettendo in atto un sistema di apartheid nei confronti di tutte e tutti i palestinesi sotto il loro controllo, che vivano in Israele, nei Territori palestinesi occupati o in altri stati come rifugiati»

Prosegue Amnesty specificando perché Israele è uno stato fondato sull’apartheid:

« Dalla fondazione di Israele, nel 1948, la politica e la legislazione israeliane sono state plasmate da un obiettivo generale: mantenere una maggioranza demografica ebraica e massimizzare il controllo degli ebrei israeliani sulla terra, a spese dei palestinesi. Per raggiungere questo obiettivo, i governi che si sono susseguiti hanno deliberatamente imposto un sistema di oppressione e dominazione ai danni dei palestinesi. Gli elementi chiave che compongono questo sistema sono la frammentazione territoriale, la segregazione e il controllo, la confisca di terreni e proprietà e la negazione dei diritti economici e sociali». ( https://www.amnesty.it/domande-e-risposte-apartheid-israeliano-contro-i-palestinesi/#:~:text=Israele%20non%20%C3%A8%20stato%20parte,%2C%20che%20vieta%20l’apartheid. )

Di fronte a questo non basta chiedere il cessate il fuoco e nemmeno – per usare la metafora – la restituzione di metà del portafoglio, anche se sarebbe già un inizio. Durante la seconda guerra mondiale non si chiedeva il cessate il fuoco, si lottava per la fine del nazismo e del fascismo. Il regime di apartheid israeliano deve crollare. Questo significa uccidere tutti gli ebrei o deportarli? Assolutamente no! Quando è crollato il nazismo i tedeschi non sono stati uccisi, torturati o scacciati, ma il terzo Reich è stato smantellato e altrettanto si deve fare con il regime terrorista di Israele. Quando è crollato il regime di Apartheid in Sud Africa non si sono creati due stati: uno per la popolazione di pelle nera e una per la popolazione di pelle bianca, ma un solo stato interraziale, dove tutti potessero vivere in pace. Ecco cosa significa essere per la liberazione integrale della Palestina, magari non è una soluzione che si può ottenere in un giorno, ma le basi su cui è fondato Israele sono la guerra, il suprematismo, la colonizzazione, il razzismo e appunto il regime di apartheid e ciò non è accettabile né sostenibile.

I due linguaggi

Scrive Gramsci per mezzo dell’appello dell’Internazionale Contadina al V Congresso del Partito Sardo d’Azione del 1925, o meglio alla base di contadini e subalterni sardi che da quel Partito si sentiva rappresentata:

«Il Partito sardo d’azione vuole essere l’espressione della nuova coscienza sociale e politica della Sardegna, ma esso non ha ancora un programma concreto, evidente ed una tattica che possa garantirne il successo. ne è una prova il doppio linguaggio che il Partito sardo d’azione adopera; uno per i contadini dinanzi ai quali si mostra più radicale, ed uno per la stampa e il parlamento»

Allo stesso modo la sinistra imperiale usa due linguaggi: uno per le segreterie dei partiti, per i giornali, per la comunicazione pubblica e ufficiale e uno sotterraneo da dare in pasto alla sua (seppur residuale) base, cioè a quelle decine di brave persone che, per esempio, erano in piazza lo scorso 23 dicembre perché in cuor loro pensavano di partecipare ad una manifestazione partigiana e schierata dalla parte della Palestina.

Nella chiamata pubblica e istituzionale della manifestazione, infatti, non solo non compare mai la liberazione della Palestina, ma non viene mai neppure citato Israele. Si parla invece di «cessate il fuoco», senza esplicitare il soggetto che dovrebbe cessare il fuoco e cioè le IDF israeliane che finora hanno sganciato 29mila bombe su Gaza, hanno massacrato più di 20mila persone di cui la quasi totalità civili.

In un volantino diffuso in piazza, con il giochetto dell’anonimato (mentre la chiamata pubblica era sottoscritta da una lunga lista di soggetto politici e associativi), si viene invece incontro al (giusto) bisogno dei militanti di percepire una qualche vicinanza con chi sta resistendo alla realizzazione della Grande Israele (che è il vero fine dello stato ebraico sotto protezione USA) e quindi alla soluzione finale del popolo palestinese. Soluzione finale da realizzarsi non con campi di sterminio, ma con un piano di deportazione di massa come è emerso dal documento realizzato lo scorso 13 ottobre 2023 dal Ministero dell’Intelligence presieduto dalla ministra Gila Gamliel e trapelato all’opinione pubblica. In questo documento si parla di deportare la popolazione palestinese di Gaza nel deserto della penisola egiziana del Sinai, per non farvi più ritorno.

Perdonerete la lunghezza ma riporto i due comunicati.

Comunicato della Rete Diritti al Cuore pubblico, ufficiale e trasmesso agli organi di stampa:

INSIEME A NATALE CONTRO IL MASSACRO DI GAZA

E’ previsto per sabato 23 dicembre a Sassari alle ore 17:30, con appuntamento nella centralissima Piazza Azuni, il corteo per chiedere di fermare ora i bombardamenti e il massacro in atto a Gaza.
La rete delle associazioni sassaresi si mobilita al gran completo per lanciare un messaggio di solidarietà al popolo palestinese: «La situazione in Palestina precipita di ora in ora, non possiamo più restare inermi, non possiamo più rimandare. Pensiamo che sia fondamentale scendere in piazza, insieme, per dichiarare il nostro dissenso».
La decisione di organizzare un corteo, sabato 23 dicembre, il giorno prima della vigilia di Natale, e nel pieno centro della Città, ci permetterà di intercettare e coinvolgere tutte le persone distrattamente intente nelle compere di Natale. “Vogliamo lanciare un messaggio di sospensione momentanea dello shopping natalizio o dei festeggiamenti, per poter riflettere sulla devastazione della terra di Palestina, dove nacque Gesù, e l’uccisione di decine di migliaia di vittime innocenti. Uno dei regali più belli che possiamo fare in questo momento è “uscire da questa narrazione natalizia della festa e del consumo e fermarsi a riflettere per dire, insieme, basta a questo inutile massacro”.
L’appuntamento è previsto per le 17.30 in Piazza Azuni; il Corteo si muoverà alle ore 18 procedendo in via Luzzati, via Brigata Sassari, via Enrico Costa fino ad arrivare in Piazza Fiume dove si terranno alcuni interventi e l’accensione della scritta “CESSATE IL FUOCO”.
Durante il corteo si distribuiranno volantini e documenti informativi.

Qui Israele non viene nominato, l’occupazione non esiste, non si capisce chi stia sparando e chi stia effettuando il massacro. Questo documento è stato inviato ai media ed è stato diffuso sui social, con le firme delle associazioni.

Ora vediamo il volantino anonimo distribuito in piazza nel contesto della manifestazione del 23 dicembre:

Siamo ancora qui a parlare di GAZA, di PALESTINA. Le ingiustizie, le sevizie, le vessazioni subite dai tanti popoli della terra, dall’Africa al Vicino Oriente, dal Mali alla Siria, alla Libia sono tante; ma crediamo che l’ingiustizia madre sia quella che ancora oggi, dopo così tanto tempo, viene perpetrata nei confronti del popolo palestinese verso cui l’occidente non volge mai lo sguardo: non vede, non sente, non parla; anzi, vede un mondo alla rovescia. E così l’oppresso diventa oppressore e viceversa e la palese differenza delle forze in campo non è mai argomento di riflessione.

GAZA: L’assedio continuo; la prigione a cielo aperto; il blocco via terra e via mare; i crimini delle diverse e ripetute operazioni dal cielo e da terra di Israele; le forniture idriche, elettriche, sanitarie centellinate fino a questa ultima strage autorizzata.

GAZA: una striscia di terra lunga 40 KM e larga 12 KM dove vivono 2.200.000 persone (uno dei luoghi più densamente popolati al mondo). Pensate a Gaza come una striscia la cui costa va da Castelsardo a Porto Torres e si spinge all’interno come da Li Punti a Platamona. Una striscia di terra controllata da tutti i lati e circondata da un barriere elettrificate. Israele mantiene il controllo delle frontiere terrestri (ad eccezione di quella che confina con l’Egitto), di quelle marine e dello spazio aereo. Non c’è via di fuga dai bombardamenti. Non puoi scappare da terra e non puoi scappare dal mare. E’ un carcere a cielo aperto. Israele ha chiesto a più di un 1.000.000 di persone di spostarsi dal Nord della Striscia di Gaza verso il Sud continuando a bombardare sia a nord sia a sud. Di più: centinaia e migliaia di civili vengono convinti a spostarsi a sud di Gaza per essere ugualmente bombardati a tappeto proprio li dove si sono affollati. Non c’è un posto sicuro in tutta la Striscia, non c’è via di fuga,

non c’è un corridoio di evacuazione, ci sono solo le bombe. La gente è ammassata da due mesi senza cibo, senza acqua, senza medicine, senza casa, senza niente. Ogni giorno viene vissuto come se fosse l’ultimo in attesa della bomba che distruggerà te e la tua famiglia. Dice il direttore dell’ufficio di New York dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Creig Mokhiber, nella sua lettera di dimissioni lasciando il suo incarico in segno di protesta: «A Gaza case civili, scuole, chiese, moschee e istituzioni mediche vengono attaccate arbitrariamente mentre migliaia di civili vengono massacrati. In Cisgiordania inclusa Gerusalemme occupata. In tutto il paese regna l’apartheid». Tutto quanto sta avvenendo a Gaza e nei Territori Palestinesi, come sempre, ha un’enorme cassa di risonanza e provoca moti di indignazione quando si raccontano le vicende che riguardano Israele, e restano nel silenzio più assordante gli indicibili soprusi e ingiustizie che il popolo palestinese subisce quotidianamente, in nome di un sempre più malcelato alibi di “sicurezza”. Creig Mokhiber a questo proposito dice: «C’è una copertura da parte dei corporate media in occidente, tesa a deumanizzare i palestinesi e, così facendo, a legittimare il genocidio». Lo dice senza mezzi termini: quello in corso a Gaza oggi è un genocidio «da manuale».

Il nostro desiderio per un futuro migliore è un desiderio di pace e di giustizia per tutti perché non c’è pace senza giustizia. Un’utopia? Noi ci crediamo, vogliamo crederci. Ma la pace non è solo l’assenza di guerra. Bisogna arrivare ad una pace giusta e duratura. Per farlo bisogna chiamare le cose con il loro nome ed è necessario riconoscere le responsabilità di tutti. Nessuno può chiamarsi fuori. Si è lasciato che il diritto

internazionale, insieme alle risoluzioni delle Nazioni Unite, fosse calpestato giorno dopo giorno. Creig Mokhiber, nella sua lettera di dimissioni chiarisce che i governi di Stati Uniti, Regno Unito e gran parte dell’Europa sono “complici di questa orrenda aggressione”.

Qualche numero per rendere ancora più esplicito e chiaro di cosa stiamo parlando: Più di 20.000 morti di cui il 70% sono donne e bambini 50.000 donne in gravidanza senza assistenza. Più di 1000 bambini con un arto amputato. Più di 300 professionisti della sanità morti. Il 90% della popolazione a Gaza è sfollataIl 44% vive sotto la soglia della fame, manca acqua e cibo pulito 8000 pazienti hanno urgente bisogno di cure fuori da Gaza. Più di 300 morti in Cisgiordania. Servono più di 1000 camion al giorno per 6 mesi per poter curare e assistere tutti i pazienti di Gaza. Negli ultimi due giorni a Gaza sono state uccise 390 persone e ferite 734.

Sicuramente non tocca a noi, da questa parte del mondo, scegliere la strada giusta per il futuro: toccherà ai popoli autonomamente e democraticamente rappresentati, percorrere le strade della convivenza possibile e futura.

Tocca a noi invece dire:

Stop alle bombe,

Stop al massacro,

Stop all’occupazione,

Stop all’apartheid”.

Come si vede quest’ultimo documento contiene parole d’ordine più chiare, come per esempio “stop all’occupazione” e “stop all’apartheid”. Ma anche qui c’è un equivoco grande quanto una casa. Come si fa a scrivere che «non tocca a noi, da questa parte del mondo, scegliere la strada giusta per il futuro: toccherà ai popoli autonomamente e democraticamente rappresentati, percorrere le strade della convivenza possibile e futura»?

In Palestina c’è un regime di apartheid e di colonizzazione oppure no? Se si ritiene di no, bisogna dirlo in maniera chiara ed essere coerenti con il primo documento, prendendo una posizione “umanitaria” che in realtà nasconde il “diritto di Israele a difendersi” ma si critica la maniera “esagerata” in cui questo avviene, se invece si ritiene di si, si deve sostenere la lotta decoloniale, come in altri frangenti si è sostenuta la resistenza vietnamita, la decolonizzazione dell’Algeria e via dicendo. Si deve sostenere la causa Palestinese e intrecciare a quella la lotta per l’autodeterminazione, la giustizia, i diritti nel qui ed ora, nel nostro luogo e nel nostro tempo. Questo si chiama internazionalismo ed è questo ciò che dobbiamo e vogliamo fare, rifuggendo ambiguità di ogni sorta.

Seppelliamo l’ideologia del “social forum”

Arriviamo al dunque. È finito il tempo dei social forum, degli intergruppi, dei movimenti dei movimenti. Se mai questa logica ha avuto un valore (e personalmente ne ho sempre dubitato fortemente) essa appartiene ad un mondo che non esiste più, vale a dire un’epoca in cui si pensava – del tutto erroneamente – che aveva vinto la globalizzazione neoliberista e che tutte le frange critiche dovevano convergere su un programma riformista per «globalizzare i diritti oltre che le merci» – così si ripeteva e scriveva ossessivamente.

Quel tempo è finito. Siamo entrati in un periodo del tutto diverso, dove, in un contesto geopolitico segnato dall’insorgenza di poli politici ed economici che finalmente – in un modo o nell’altro – mettono fortemente in discussione il dominio e l’egemonia nord-americana, sono contestualmente rinati movimenti decoloniali, dall’Africa alla Palestina, dal sud America alla vecchia Europa.

In questo contesto non si può più ragionare da terzomondisti, non si può e non si deve dividere il campo tra «loro» e «noi». In un altro articolo ho parlato a questo proposito di «sardismo meticcio», perché sono convinto che l’insorgere di un nuovo movimento decoloniale in Palestina e in Africa – per rimanere a quelle latitudini – e in generale la forte critica che diversi popoli nel mondo stanno avanzando a ranghi serrati al suprematismo occidentale, riguardi direttamente anche noi in Sardegna, cioè anche la nostra necessità di de occidentalizzare la nostra vita e la nostra società e di unirci al generale movimento per la fine della colonizzazione che dura ormai da Seicento anni (per noi dal 1409, data in cui abbiamo perso l’indipendenza)

L’appoggio all’Intifada palestinese – in Sardegna – rappresenta anche l’innesco di una nuova forma di sardismo intergenerazionale e interetnico che si basa sull’idea di identità intesa non come essenza immutabile, ma come risultante del conflitto e della ribellione. Infondo la lotta palestinese può rappresentare la base per un nuovo internazionalismo costruito sull’idea che l’occidente, ad oggi, non rappresenta più un insieme di valori progressivi e un piano di riforme che migliorino la vita delle masse (come appunto ai tempi della presunta lotta per “globalizzare i diritti”), ma una gabbia di privilegi osceni e di ipocrisie che affondano le loro radici nel massacro, nella segregazione, nella violenza sistemica e nella volontà di radicare e di estendere la colonizzazione su tutto il globo.

D’altro canto, in piazza, nelle affollate assemblee, nelle discussioni con le comunità palestinesi, marocchine, maliane, gambiane ed egiziane è emerso con chiarezza che la questione palestinese oggi rappresenta il collante di popoli che imparano a riconoscersi fratelli nella lotta, soprattutto per una generazione emergente che ha compreso il valore dell’insorgenza ed è pronta a battersi con disciplina e rigore per non fare la fine del topo.

Concludendo credo in buona sostanza che la lotta sia una e che in particolare la Palestina possa e debba avere un ruolo di rompighiaccio per far saltare tutta una seria di contraddizioni e tabù che fino ad oggi hanno pesato come un macigno su ogni discorso di emancipazione.

Per questo motivo non solo la mobilitazione sardista meticcia in appoggio alla Palestina va allargata e rilanciata, ma va fatta una chiarezza adamantina nei riguardi dei dirigenti di tutto quell’articolato civico che, dietro la facciata pacifista, nasconde ambiguità, complicità e, infine, la volontà di salvare il vecchio ordine, i suoi privilegi e di impedire alle varie istanze di liberazione, di ibridarsi, mescolarsi, fondersi, dando vita ad una nuova stagione politica e sociale in cui le comunità, i popoli, i dannati della terra, gli emarginati, i subalterni, finalmente smettono di sentirsi soli e si riconoscono fratelli e sorelle nell’atto di spezzare le loro catene.

Questo va fatto e questo faremo.

1 Commento a “Inclusione o decolonizzazione? L’Intifada palestinese, i difensori del vecchio ordine e il sardismo meticcio”

  1. Inclusione o decolonizzazione? L’Intifada palestinese, i difensori del vecchio ordine e il sardismo meticcio - da Il Manifesto Sardo - di Cristiano Sabino 2 Gennaio 2024 scrive:

    […] https://www.manifestosardo.org/inclusione-o-decolonizzazione-lintifada-palestinese-i-difensori-del-v… […]

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