Insistenze

1 Luglio 2015
bonificare inquinando
Roberto Mirasola

E’ notizia di questi giorni il progetto di realizzazione a Portovesme di una nuova centrale termica alimentata a carbone che consentirebbe la riapertura dell’Euroalluminia.

Ma procediamo per ordine cercando di comprendere come si è arrivati a tale decisione. Nel 2013 viene costituita una società denominata Euralenergy S.P.A. con capitale sociale di € 120.000,00 il cui compito è quello di predisporre gli studi di fattibilità e le autorizzazioni necessarie per costruire un impianto di energia elettrica e termica per la produzione di alluminio. La partecipazione al capitale sociale vede anche la presenza della SFIRS con il 40% la rimanente parte è di Euroalluminia che come sappiamo fa capo al gruppo russo RUSAL.

Nel luglio del 2014 vengono chiusi a Palazzo Chigi 24 contratti di sviluppo firmati dal governo Renzi. Il contratto più ricco manco a dirlo riguarda il piano che fa capo a Euralenergy, la quale e arriviamo ai giorni nostri, deposita presso il Servizio Sostenibilità ambientale valutazione di impatto ambientale. A questo punto sono immancabili i riferimenti sugli effetti positivi per l’occupazione, con relativa soddisfazione e dei sindacati e della giunta regionale.

L’atteggiamento della giunta regionale è quanto mai curioso. Da una parte si caldeggia l’investimento capace di creare lavoro, senza tra l’altro chiedersi quanto potranno durare vista l’esperienza passata, e dall’altra ci si preoccupa di procedere alle bonifiche facendole diventare addirittura una priorità. Come a dire mettere d’accordo il diavolo e l’acqua santa. Una contraddizione.

Tutto questo quando l’Europa decide di puntare invece su una crescita sostenibile cioè la strategia Europa 2020. Il documento è facilmente consultabile su internet. Gli obiettivi sono la tutela dell’ambiente, costruire un’economia a basse emissioni di anidride carbonica, perché si è consapevoli di essere dipendenti dal petrolio, gas e carbone e alla lunga tutto ciò potrebbe essere una minaccia per la sicurezza economica oltre a contribuire al cambiamento climatico.

Dunque in Sardegna andiamo nella direzione opposta. Forse perché avendo avuto un modello industriale folle fatichiamo ad abbandonarlo. Un sistema industriale completamente estraneo al contesto Sardo basato sulle importazioni più che sulle esportazioni e questo perché si sono volute impiantare industrie come la chimica, la petrolchimica, la produzione dell’alluminio che hanno portato disoccupazione e miseria lasciando tra l’altro l’ambiente circostante fortemente compromesso avendolo inquinato.

E’ tempo di cambiare pagina, avendo il coraggio di parlare alla gente, spiegando loro che tali investimenti non sono più convenienti. Sono dannosi per la salute e oggi non sono più competitivi, quindi chiusura delle fabbriche, licenziamenti e incremento della disoccupazione. Non si tratta di essere contro le industrie, ma è pur vero che queste non devono essere dannose per l’ambiente. Il modello industriale da noi conosciuto ha fatto la fortuna solo delle grandi multinazionali che hanno sfruttato gli incentivi pubblici senza creare nessuna ricchezza per la Sardegna.

Tale modello si è dimostrato fallimentare ed è inutile continuare a tenerlo ancora in vita con la speranza di qualche posto di lavoro. Le alternative esistono e abbiamo il dover di perseguirle. Puntare ad esempio sul Agroalimentare, sul turismo, investire sull’agricoltura, puntare sull’energia rinnovabile visto che il sole e il mare sono materie prime della nostra isola. Bisogna anche dire che quest’ultimo settore è fortemente appetibile per interessi meramente speculativi cosi come il business delle serre fotovoltaiche insegna. Dunque è opportuno avere un piano di riferimento capace di tutelare chi veramente vuole fare impresa in maniera seria.

Altra cosa da fare è procedere alle bonifiche, il che consentirebbe di reimpiegare i lavoratori. Certo la battaglia è difficile ma la strada da seguire non può che essere questa. Bisogna richiamarsi alla politica ambientale dell’Unione rifacendosi al principio “chi inquina paga”. Gli operatori economici sono tenuti ad adottare misure preventive in caso di minaccia per l’ambiente. Qualora il danno si sia già verificato, essi sono obbligati ad adottare le misure adeguate per porvi rimedio e a sostenerne i costi. Quindi i costi devono ricadere su chi ha causato i danni. Non dimentichiamo che l’Unione Europea come abbiamo visto, persegue l’obiettivo di creare un’economia più rispettosa del clima e con minori consumi energetici.

Ancora le comunità locali devono essere ascoltate. Non è più pensabile imporre dall’alto le decisioni che poi hanno delle ricadute sulle persone che vivono quei territori interessati. I movimenti NO Progetto Eleonora, contro le servitù militari e le scorie denotano che è forte una coscienza civica che i nostri governati dovrebbero guidare anziché limitarsi a dire di essere d’accordo.

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