Israele e Palestina: due Stati, uno, o nessuno?

21 Ottobre 2023
Palestinians stand by the building destroyed in an Israeli airstrike in Nuseirat camp in the central Gaza Strip, Monday, Oct. 16, 2023. (AP Photo/Hatem Moussa) Associated Press/LaPresse Only Italy And Spain Associated Press/LaPresse Only Italy and Spain

[Guido Viale]

Non è vero che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. Lo è solo nel suo ordinamento giuridico, che prevede un Parlamento elettivo e un governo eletto dal Parlamento.

Ma di fatto è una repubblica razzista (“Stato ebraico”, cioè degli ebrei), militarista (armato fino ai denti, compresa l’atomica; anche se protetto dalle eventuali atomiche altrui, che ucciderebbero, insieme ai bersagli ebrei, anche milioni di arabi), che pratica apartheid e stragi (di un’organizzazione non statuale diremmo “terrorista”, come lo erano le organizzazioni armate ebraiche prima di costituirsi in Stato). 

L’unica vera democrazia del Medio Oriente è quella confederale del Rojava, fondata sulla convivenza di popoli, culture e religioni diverse (curdi, arabi, yazidi, sunniti, sciiti e cristiani), su un comunitarismo che si esprime nella partecipazione di tutti alla vita politica, su una cultura con una forte impronta femminista (la principale minaccia per il fondamentalismo degli Stati islamici, la cultura patriarcale e il maschilismo delle loro popolazioni).

Niente giustifica il razzismo e il militarismo di Israele. E’ vero che ha di fronte un’organizzazione militare che non esita a compiere stragi e un popolo i cui esponenti predicano l’eliminazione di Israele e la cacciata di tutti gli ebrei dai territori della Palestina; ma il Rojava non sembra aver meno nemici, anche molto potenti e molto violenti, che ha combattuto e combatte senza imboccare per questo una deriva analoga. D’altronde, forse con meno iattanza, il presupposto della costituzione dello Stato ebraico – “un popolo senza terra per una terra senza popolo” – non sono differenti: la negazione della esistenza degli abitanti della Palestina in quanto popolo.

Fiamma Nirenstein insiste sul fatto che al momento dell’insediamento dei profughi ebrei in Palestina, questa non era uno Stato (infatti era una colonia, anzi un “mandato” inglese). Il presupposto è che per essere un popolo bisogna essere anche uno Stato. Israele lo è; la Palestina no. E da entrambe le parti si è sostanzialmente lavorato per anni perché non lo fosse. Ora questo passato di guerre e di sangue che dura da 75 anni, e anche più, non può essere dimenticato. Farlo ci impedirebbe di capire il presente; ma non può neanche essere tirato in ballo dagli uni e dagli altri per rendere sempre più difficile la ricerca di una soluzione che non comprometta, insieme alla vita dei due popoli, anche la pace in Medio Oriente e forse in tutto il mondo. Per questo occorre partire dall’oggi, ma cercando di guardare oltre l’orrore delle stragi di questi giorni.

La soluzione più invocata dalla comunità internazionale è quella dei due Stati; ma è sempre più irrealistica e rischia di essere un alibi per lasciare incancrenire ancora di più la situazione. Il territorio da riconoscere alla Palestina non esiste più: la “striscia di Gaza, con i suoi due milioni e mezzo di confinati, è inabitabile; la West bank è stata frantumata dagli insediamenti di 700mila coloni, da un muro che si insinua in tutto il territorio, dal sequestro di molti territori, da strade riservate solo agli occupanti, con contini check-point. Restituire al costituendo Stato palestinese quei territori richiederebbe la cacciata dei coloni. Ma se Sharon aveva dovuto usare la forza per trasferire fuori dalla striscia di Gaza 8mila coloni, nessuno può pensare che sia possibile cacciare dalla West bank i suoi 700mila occupanti abusivi.

Poi i territori assegnati al costituendo Stato palestinese non rendono possibile la sua continuità territoriale: dunque la libera circolazione dei suoi cittadini, lo sbocco al mare, un proprio spazio aereo, e molto altro, senza sottostare al controllo di Israele. Infine, c’è la sproporzione delle forze: Israele ha una sua struttura industriale, un’agricoltura florida, una finanza autosufficiente, un esercito super armato, la bomba atomica. La Palestina e la sua popolazione sono state espropriate di tutto, vivono di sussidi dell’Onu, dell’Unione europea e di diversi paesi arabi che ne condizionano e ne condizionerebbero le politiche; non ha un’economia autosufficiente e non avrebbe mai un armamento anche lontanamente paragonabile.
Di fronte a questa impasse, nota a tutti ma ipocritamente taciuta per far finta di perseguire la pace, si è andata facendo strada l’ipotesi di un unico Stato, entro cui costruire nel tempo una pacifica convivenza dei due popoli, facendo leva sulle comunità e le reti che anche oggi, e nonostante tutto, antepongono le ragioni della pace e della convivenza a quelle, più che comprensibili, dell’inimicizia e del rancore. Ma l’ostacolo principale a questa soluzione non risale al passato, né ai più che fondati timori del presente, ma riguarda il futuro: la popolazione araba dell’intero territorio ormai supera per numero quella ebrea, nonostante gli apporti fortemente incentivati, soprattutto della popolazione ebraica delle colonie. Con la maggioranza molti ebrei di Israele temono di perdere anche la loro identità di Stato ebraico, l’approdo dopo 2000 anni di diaspora e persecuzioni, mentre molti palestinesi contano evidentemente sulla forza dei numeri per prendersi una rivincita sui 75 anni delle loro sofferenze.

Ma forse l’ostacolo maggiore sta proprio qui: nel non riuscire a concepire la convivenza se non nella forma di uno o più Stati e non in quella della loro dissoluzione a favore di una democrazia “dal basso” e confederale, che metta al centro i bisogni e le aspirazioni di ogni sua comunità. Può sembrare un’utopia, ma bisogna cominciare a parlane; e non solo a proposito di Israele e della Palestine. Il Rojava dimostra che è una strada percorribile. Certo un intervento della “comunità internazionale” (un’entità che esiste sempre meno) a tutela dei diritti e della incolumità di tutte le comunità sarebbe indispensabile; ma lo sarebbe anche nel caso che si optasse seriamente per le soluzioni dei due o di un solo Stato.

Si tratterebbe in ogni caso non di una utopia, ma di un esperimento anticipatore di soluzioni da riproporre in tutte le situazioni sempre più numerose di conflitto e di crisi “interetnica”; un “esperimento” senza il quale il mondo sembra destinato a farsi seppellire dalle guerre o ad autodistruggersi per aver trascurato la minaccia che incombe su tutti più di ogni altra: quella del collasso climatico. La globalizzazione senza Stati è già stata in gran parte realizzata dalla finanza internazionale. Adesso è ora che perseguirla siano invece i popoli.

Senza pretendere di essere esaustivi, i passi che nella situazione concreta sono ineludibili mi sembrano essere:
L’abbattimento delle barriere fisiche e di controllo su tutti i territori;
L’istituzione di una commissione mista per la verità e la riconciliazione sull’esempio di quella messa in atto in Sudafrica;
La presa in consegna da parte di una commissione internazionale di tutti gli armamenti noti di entrambe le parti: dai kalashnikov all’atomica (molti sfuggiranno al controllo, ma si tratta di un work in progress);
La promozione di milizie miste per mantenere l’ordine pubblico composta di individui disposti a farne parte e a rispettarne le finalità;
La promozione di comunità miste tra tutte quelle reti che già ora ritengono di poter svolgere un lavoro comune (e tra queste un ruolo di primo piano spetta fin da subito alle donne);
La consegna a ogni comunità di territori sufficienti a garantirne la sopravvivenza;
Lo stanziamento di ingenti finanziamenti internazionali sotto un controllo congiunto degli enti donatori e dei rappresentanti delle due comunità.

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