Italia plurale?
1 Febbraio 2011Marcello Madau
Si celebrano i 150 anni di un Italia unita che mai come oggi sembra tremare. Non sono molti, ma un secolo e mezzo non è poco per un progetto di unificazione nazionale non certo ben riuscito. Evidentemente neppure una lingua comune è spia di esistenza nazionale. Troppe comunità, in specie meridionali ed insulari, mancano all’appello.
A circa 2500 anni dal primo insediamento greco ad Ischia, e ad oltre 2600 dai tempi della fusione nuragica e fenicia a S. Imbenia di Alghero, Il Piemonte ha edificato uno stato senza nazione ed una nazione in difetto di comunità. Tra i ‘risultati’ noti, una questione meridionale – alla quale si collega, con precise specificità, la questione sarda -, mai risolta, una questione settentrionale assai speciale, sorda competizione tra le due ‘principali’ regioni del Po, Piemonte e Lombardia sotto la grottesca maschera della ‘nazione padana’.
Tra gli elementi delle costruzioni nazionali il passato e la sua configurazione in memoria culturale rivestono seria importanza. L’Italia si è rivolta ad esso, costruendo fra Ottocento e Novecento, una memoria culturale basata su fantastici guerrieri medievali e muscolari romanità: da Carducci a D’Annunzio è una sequenza di elmi e spade roteanti, aquile imperiali, legioni, schiavi di Roma. Processo poco edificante e molto difettoso: eppure non mancherebbero gli elementi per (ri)costruirlo.
Il passato dell’Italia, complesso e articolato, permette diverse memorie culturali. Cosa ci racconta, allora, l’antichità? Quali sono le dinamiche principali e le comunità presenti?
La penisola italiana e le isole furono storicamente centrali dal primo millennio a.C. Nel millennio precedente vi furono processi formativi particolarmente interessanti , in particolare dalla seconda metà, in grado di ridimensionare il giudizio di perifericità preistorica e protostorica postulata dalla prestigiosa antichistica di Ranuccio Bianchi Bandinelli e Massimo Pallottino: i dati archeologici ora mostrano acque mediterranee certamente più vivaci di quanto si potesse percepire, per la maggiore presenza micenea (forse preceduta da navigazioni minoiche), e anche per un protagonismo nuragico di mare aperto che spiega meglio alcune notizie delle stesse fonti antiche (a prescindere dalla controversa identificazione sarda degli Sherden, il ricordo dei sardi nella Creta di Talos è suggestivamente richiamato dai rinvenimenti di Kommos, porto commerciale, nei secoli del dominio miceneo, del grande palazzo minoico di Festòs). Ma in quell’epoca la forza di gravità politica era ben definita ‘a Oriente’ e non ‘a Occidente’, localizzata fra Mesopotamia, Anatolia, fascia siro-palestinese, terre e isole egee, Egitto (l’area, curiosamente, dell’antica Europa). E fu il primo millennio a fare la futura Italia centro delle vicende mediterranee, con un processo delineabile su tre fasi, nel quale lievita, si compone ed evidenzia un mosaico di popoli che sono l’ossatura’ profonda, la vera falda della futura Italia.
In una prima fase, fra l’ottavo ed il sesto secolo a. C. i tre grandi soggetti storici dominanti, ovvero Etruschi, Fenici e Greci (i primi già stanziati fra Emilia, Toscana e Lazio), tutti al loro interno ‘plurali’, si confrontarono producendo dialettiche di estremo interesse con le popolazioni residenti: Latini, Italici come Sanniti, Piceni, Osci, Campani, Dauni, Messapi, Peucezi, Apuli, Sardi, Lucani, Siculi, Elimi, Sicani.
I segni che a noi rimangono, in gran parte dei ceti dominanti o emergenti, mostrano processi di attrazione e koinè ben strutturati nella definizione dei rispettivi spazi e nelle relazioni, nelle modalità produttive ed insediative, nel mito e nella produzione materiale. Oggi si evidenziano non solo lo scontro ma l’inclusione, nello sviluppo del modello urbano (portato da greci e fenici) e nella diffusione della cultura aristocratica del simposio e del valore militare, nei personaggi del mito e nella circolazione dei sistemi scrittori fenici e greci, destinati ad influenzare (in modo decisivo per la nascita della scrittura etrusca) le popolazioni residenti.
Una seconda fase inizia verso la fine dell’arcaismo, nel 509 a.C., quando Cartagine e Roma stipularono, come ci ricorda Polibio, il primo dei loro trattati, e operarono sull’Italia in progressione, inglobando molte antiche comunità: Cartagine nel mercenariato (con qualche tentativo più diretto in Lazio e Italia meridionale), e, soprattutto, Roma nei territori. Le due grandi potenze produssero peraltro, con interessante convergenza, decise risistemazioni delle rispettive antiche origini: Cartagine liberandosi progressivamente – pur mantenendone segni importanti – del modello orientale e dei ‘padri’ fenici; Roma degli Etruschi, abbandonati e poi conquistati.
Con le guerre puniche, che consegneranno fra il 264 ed il 146 a.C. (anno della distruzione di Cartagine) definitivamente l’Italia e il Mediterraneo al dominio romano, si apre una terza fase, con vari livelli di controllo, assorbimento e marginalizzazione delle comunità territoriali assieme a sacche non rare di resistenza. Nel 49 a.C. i confini si definirono sino alle Alpi grazie alla concessione della cittadinanza romana alle popolazioni transpadane.
Cosa resta di questo antico, straordinario mosaico? Le ‘tracce’ identitarie non sono certo rimaste tali, anche se oggi, volta per volta, si invoca la loro pura e diretta ascendenza in qualche soprassalto dei vari territori subalterni. Comunque i percorsi che da lì partono talora mostrano – nella trasformazione – straordinari episodi che potremo definire di persistenza dinamica, e soprattutto compongono, con il paesaggio e le tradizioni, un territorio reticolare molto ricco.
Torniamo allora al quesito iniziale: se davvero l’invenzione del passato è necessaria alla costruzione nazionale, ciò non significa che la memoria culturale debba essere (come non lo è l’identità) un elemento statico, almeno nei suoi riferimenti. La retorica ottocentesca si rivolgeva ad un suo passato, come aveva un senso che il fascismo, secondo i suoi modelli, combinasse gli elementi più militareschi ed etnicamente definiti dell’impero romano.
La nostra epoca –per lo meno le sue correnti più democratiche – può disporre di altri riferimenti oggi emergenti, idealmente e socialmente, e materiali storici diversi ai quali potersi riferire.
In tale ri-costruzione un ruolo fondamentale potrebbero giocare le storie dei popoli meno inclusi, che hanno le identità più diverse ed i paesaggi antropologici più conservati, non a caso i più detestati dal separatismo padano: pericolo di un forte e possibile motore per una nuova e diversa unificazione italiana. Forse è nella prima delle tre fasi, la più arcaica (anche se fu Giulio Cesare a dare corpo territoriale alla futura nazione moderna plasmando le cittadinanze secondo il territorio, dalle Alpi alle isole), che potrebbe allora ritrovarsi la vera dimensione nazionale italiana, recuperando ciò ché è stato sostanzialmente negato dal dominio romano all’unificazione piemontese al fascismo.
Non sarebbe scorretto costruire una memoria culturale impostata sulla diversità, partecipando all’Europa con tale patrimonio di idee e culture: chissà se una costruzione nazionale potrà darsi una memoria culturale senza eroi nè lutti e guerre, recuperando nell’immaginario collettivo la lezione del ‘mare entro le terre’ , non del ‘Mare Nostrum’, grazie alla personalità complessa di ogni cultura e il suo diritto all’esistenza.
1 Febbraio 2011 alle 15:35
Mai troppo tempestiva una riflessione “a sinistra” circa questo fatidico anniversario. Ancor più meritorio se una volta tanto al centro del nostro orizzonte mettessimo noi, il nostro sguardo, non quello altrui. Anche partendo dalle considerazioni fatte sul tema da Gramsci (il cui 120° della nascita in Italia è passato opportunamente sotto silenzio), sarebbe agevole produrre una griglia interpretativa e una cornice concettuale diverse, illuminanti riguardo le nostre vicende come propaggine periferica e marginale dell’Italia. Blocco storico, mancanza di un’intellettualità organica e di una classe dirigente nazional-popolare, fallimento della modernità borghese, egemonia culturale, ecc., sono concetti che non hanno perso pregnanza. Non hanno smesso di interrogarci. Come sardi e sardi nel mondo, non come “italiani speciali”. Noi nei processi e negli eventi che vengono chiamati in causa per giustificare l’unificazione italiana non ci siamo.Non ci siamo nel fenomeno della comunanza linguistica (da Pietro Bembo in su, non da Dante, comunque elitario: DeMauro, 1963); non ci siamo nel Rinascimento; non ci siamo nel Risorgimento; latitiamo, come collettività, nella Resistenza. Ma non è che fossimo “fuori dalla Storia”. Solo, eravamo da un’altra parte, eravamo altro. Siamo altro. 60 anni di autonomia, di scuola di massa e di televisione italiana non cambiano le cose in profondità. Perciò, basta con i miti delle origini altrui. Basta miti tecnicizzati su di noi da altri. Ri-narriamoci.
1 Febbraio 2011 alle 19:14
Caro Omar, il mio obiettivo, come avrai visto, è, occupandomi della parte antica, quello di provare in questa sede ad impostare un ragionamento sulla memoria culturale ed il suo uso, vedendo se ne è ‘tecnicamente’ possibile un’altra. Posso raccogliere la tua colta e appassionata provocazione parlando dell’antichità. Io non ho certo nascosto il punto di vista sardo: da S. Imbenia a Monti Prama le tracce del primo millennio sono molto suggestive, i nuovi dati portano letture dialettiche, i nuragici stanno con ‘gli altri’. Un etruscologo come Mario Torelli dà un ruolo molto forte ai nuragici per lo splendore di Vulci. Sospetto che non serva sostituire uno sguardo con un altro, ma saperli anche usare assieme,. Cogliere – i dati archeologici ce ne danno molte indicazioni – le parti comuni degli ‘sguardi diversi’, il perché lo siano e lo diventino, se ciò conduce a identità più complesse.
Il discorso che tu proponi è ben più ampio, e ovviamente non meno importante: ma anche in esso credo che gli sguardi servano tutti.
Da sinistra naturalmente cerco di mettere in comune – i blocchi sociali di Gramsci e le sue categorie mi appaiono sinceramente poco utilizzabili – il diritto per tutti ad un’esistenza affrancata dal bisogno e vissuta pacificamente in un ambiente sano. Sapendo, ma già succede, che quando la scelta di uno sguardo solo ha dentro di sé pratiche e logiche democratiche, molte strade diventano incrociate.
5 Febbraio 2011 alle 15:13
Approffitto di questo articolo per dire che ormai pare che su Tuvixeddu il parco “Cualbu” sia inevitabile. Lo stato Italiano recentemente, sotto l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inaugurato una importante mostra internazionale in Algeria sulla cultura Fenicio Punica “I Fenici in Algeria. Le vie del commercio tra Mediterraneo e Africa Nera” http://www.cherchel-project.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=78&Itemid=32&lang=it
Cioè qui da noi si permette l’ulteriore e distruttiva urbanizzazione di uno dei luoghi più importanti di quella cultura e poi in pompa magna presiede una grossa iniziativa relativa alla civiltà fenicia in un’altro paese.
Ma penso che i cagliaritani saranno contenti di avere finalmente un parco con tanto di strade asfaltate, quartiere residenziale a ridosso del colle, laghetto artificiale e ristorante.
6 Febbraio 2011 alle 11:09
Sì, è evidente che la maggioranza dei cagliaritani e dei sardi la vede così, vuole il laghetto e il ristorante, come la maggior parte dei milanesi, dei chicaghesi, pechinesi, algerini… Non siamo, non sono soli, i Cualbu, e sanno, sentono di essere grande maggioranza nel mondo. E noi altri non sappiamo fare i conti con il nostro essere minoranza che si sente illuminata, e spesso anche giacobina, che non sa porsi abbastanza il compito di far sentire sempre più gente nel modo che ci pare giusto.
6 Febbraio 2011 alle 16:01
A proposito d’Italia. Ieri a Milano molti si sono riuniti per l’onore d’Italia e contro il ricco epulone. Mentre all’estero non fanno che chiedersi: e gli italiani? Dicono e protestano, dice Eco. Ma fa più rumore un reggiseno che cade di un articolo di fondo. Giusto. Meno il rammarico che faccia più rumore un reggiseno che cade che un articolo di fondo. Per fortuna un reggiseno che cade fa ancora più riumore di un articolo di fondo. Come è sempre accaduto. E come spero che sempre accadrà. Credo di averlo capito quando mia madre mi ha svezzato. Ma non sapevo di saperlo. Ora lo so.
Anche senza sapere di saperlo, lo sappiamo tutti. E gli intellettuali che passano sopra a cose così per farci su un motto di spirito, sebbene per scopi e in contesti sacrosanti, mi preoccupano. La gente, cioè noi, sappiamo bene tutti, anche se non sappiamo di saperlo, che un reggiseno che cade fa e deve fare più rumore di una bustina di minerva. E il punto è che allora tanti finiscono per dare ragione e retta a Berlusconi, invece che a Umberto Eco che si distrae nel dire e per amor di battuta perde la mano e la partita. Lo so che l’Umberto stava dicendo di reggiseni che cadono per soldi e altri meretrici. Ma ci sono altri reggiseni che cadono. E soprattutti altri seni. O no?