James Bondi
1 Giugno 2010Marcello Madau
Avrei dovuto scrivere per questo numero un pezzo sui falsi fra Ottocento e Novecento, e sul senso di tali fenomeni. Ma vi ho rinunciato, perché ho trovato un nuovo e più valido alimento al tema nelle minacce di dimissioni del Ministro Sandro Bondi rispetto ai tagli promessi dalla Finanziaria di Giulio Tremonti.
C’è qualcuno che sorride, per l’impressione patetica che se ne può ricavare, della protesta del nostro Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, che si sta comportando da vero 007 (anche se si indigna se il procuratore antimafia Grasso svela qualcosa sui 007 veri, alla sua parte politica così vicini). Altri esprimono solo diffidenza, assieme alla dimostrazione di una crisi evidente fra le diverse anime del PDL. Altri ancora – vedendo questa crisi – pensano che comunque Bondi a suo modo abbia puntato i piedi. E magari, smesso di sognare un posto tombale nel mausoleo di Silvio (come il povero Shagal, oste-vampiro di ‘Per favore non mordermi sul collo’) si affiancherebbe oggettivamente alla schiera dei ribelli. Pardon, della corrente di Italo Bocchino.
Io credo che una lettura neanche troppo approfondita della situazione debba far escludere vere fratture politiche. Il problema di Bondi non è che non vuole i tagli alla cultura, ma che li vuol fare lui. Cosa che finora gli è riuscita benissimo.
Prescindendo come doveroso dalla non emozionante azione culturale del ministro, quello che emerge non è affatto strano. E tutta l’azione della destra al governo è pienamente organica al modello rappresentato: si taglia sulla democrazia, si taglia sul lavoro, si taglia su cultura e paesaggio.
L’attacco a tutto il sistema dei saperi attraversa senza soluzione di continuità le scuole di ogni ordine e grado per arrivare ai beni comuni: il cibo, l’acqua, l’aria, un patrimonio culturale e paesaggistico profondamente identitario. Di un’identità trasversale e meticcia, che va da nord a sud, dalle isole tirreniche a Ionio e Adriatico, e che anche per questo non piace a Tremonti e Lega Nord. Infatti, è innanzitutto un attacco al Mezzogiorno.
Possiamo discutere sulle punte di eccellenza che sono minacciate di chiusura (perché ora giunge la notizia di uno stralcio dei tagli agli istituti culturali: appunto, ci penserà Bondi), della indegna proposta di liquidare la gloriosa Scuola Archeologica Italiana di Atene. I tagli alla lirica, al cinema, al teatro. L’assalto a coste e centri storici. Al parco geominerario della Sardegna.
Ma è il taglio ai beni culturali e paesaggistici che nel suo insieme è istruttivo e assolutamente prevedibile. Esprime con esattezza la percezione che la cultura rappresenti – almeno in parte – un ciclo diverso da quello del mercato. E quindi la convizione che alla gente serva meno di un condono e di una sanatoria.
Che soprattutto, alla fin fine, che il popolo non debba imparare troppe cose. Una delle leggi più stabili nella storia dell’uomo è che i potenti si adoperino in ogni modo per evitare l’accesso delle classi e dei ceti subalterni alla conoscenza.
L’attacco è tanto più virulento quanto una nuova capacità di organizzazione democratica del lavoro cognitivo è oggi possibile e perciò temuta. In Sardegna ciò è particolarmente vero, come mostra in modo semplice e lineare Alfonso Stiglitz in questo numero.
In questa particolare crisi del capitalismo, denudato dall’esplosione di bolle speculative planetarie (in altri tempi si sarebbe potuto dire, con lettura neppure temeraria: la fase suprema del capitalismo), è il potere a cercare – anche con una certa disperazione – l’unità, a spendere con insostenibile retorica ed ipocrisia l’idea che di fronte alle difficoltà di tutti ci voglia l’unità delle forze democratiche e non la divisione.
Ma la divisione c’è già, questa finanziaria la interpreta come da manuale: è una severissima, per quanto articolata, frattura fra le classi.
Chi ha poco o nulla, deve pagare la crisi, chi ha molto non viene toccato e anzi viene protetto.
Una vera vergogna alla quale si risponde soltanto con un ragionato e radicale antagonismo. Non dimenticandosi, parafrasando Lenin, di sapere e conoscere, perché l’operaio per sperare di vincere deve sempre sapere – da solo ma meglio assieme – una parola in più del suo padrone.