L’Europa, Schengen e l’esclusione
16 Maggio 2010Pier Luigi Carta
Sono le parole di J.K. Galbraith, realizzatore del programma Grande Società per Lyndon Johnson e della Teoria della Povertà di Massa, che meglio di tutte possono introdurre il concetto di emigrazione, definita come “il più antico mezzo di lotta contro la povertà. Essa stessa sceglie quelle persone che di più aspirano ad essere aiutate. L’emigrazione è benefica per quei paesi verso i quali ella si dirige e, nei loro paesi d’origine, contribuisce a rompere l’equilibrio della povertà. Per quale perverso motivo accade che siano in così tanti ad opporsi ad un fenomeno così ontologicamente positivo?” Pur non essendo obbligatoriamente d’accordo con lui su tale edulcorata visione del fenomeno, bisogna riconoscere che molti governi stanno rendendo l’immigrazione una roulette russa, ostacolandola con modi che ormai non si fa più difficoltà a definire fascisti.
Sarà anche per questo motivo che si tende a denominare l’odierno sistema di protezione dei confini europei con lo stesso appellativo della Festung Europa, termine ustato dalla propaganda nazista per riferirsi al piano della Wehrmacht di fortificare l’intera parte di Europa già occupata. La convenzione di Schengen ha permesso di applicare il principio di aperture delle frontiere tra gli Stati membri, formando così un territorio denominato spazio Schengen; il primo accordo è stato firmato il 14 giugno 1985 dalla BRD -Repubblica Federale Tedesca-, Belgio, Francia, Lussemburgo e dai Paesi Bassi. Il passo successivo è stata la convenzione di applicazione nel 1990, entrata poi in vigore cinque anni dopo. L’introduzione del reato di Immigrazione Clandestina in Italia, con la modifica dell’art.10-bis dal sedicesimo comma del primo articolo della legge n. 94 del 15 luglio 2009, non poteva che esserne logica conseguenza. Pochi giorni dopo il 9 maggio, data convenzionale della festa dell’Europa, giorno in cui, nel 1950, Robert Schuman presentò la sua omonima Dichiarazione, che porterà al Trattato CECA, l’immagine proiettata dalla cortina attorno all’Europa produce un chiasso assordante ancora troppo poco avvertito, e consente di affermare che i confini sanciti da Schengen sono un cimitero a cielo aperto. Questa comunitarizzazione delle politiche di respingimento e di indurimento delle frontiere investe anche i domandanti asilo e si accompagna ad una crescente sfiducia nei loro confronti. Con la Convenzione di Dublino del 1990 –ratificata poi con la legge del 23 dicembre 1992 n. 523- si era cercato di regolamentare, a livello comunitario, le procedure per il trattamento dei richiedenti asilo. La Convenzione si basa ampiamente sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che definisce il Diritto di Asilo come un diritto umano fondamentale all’art. 14 come “diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. Hanno dunque diritto di asilo i “rifugiati“. Quello di “rifugiato” è uno status riconosciuto, secondo il diritto internazionale (art. 1 della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951), a chiunque si trovi al di fuori del proprio paese e non possa ritornarvi a causa del fondato timore di subire violenze o persecuzioni. Il riconoscimento di tale status giuridico è attuato dai governi che hanno firmato specifici accordi con le Nazioni Unite, tra cui l’Italia, o dall’UNHCR secondo la definizione contenuta nello statuto dell’Alto Commissariato. Delle procedure accelerate sono state introdotte per far fronte alle “domande manifestamente infondate”, notoriamente dopo il cedimento del blocco dell’Est e della Yugoslavia, che hanno prodotto dei flussi massicci di rifugiati. Due filiere d’immigrazione diverse all’origine si mescolano tra loro lungo il tragitto amministrativo e territoriale in direzione del paese d’arrivo: sovente i domandanti asilo, trovatisi nell’impossibilità di ottenere un visto, affondano nella clandestinità. I sans-papier prodotti dall’emigrazione economica ricorrono spesso ad una domanda d’asilo per tentare di regolarizzare la situazione. Questo fenomeno da il via ad un processo perverso che sminuisce e criminalizza anche il rifugiato con un dossier compatibile per ottenerne lo statuto legale. Come risultato, secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati, un richiedente asilo di questi tempi deve attendere in media diciassette anni per vedere regolarizzata la sua situazione. Un tale lasso di tempo può essere un’odissea interminabile, come dimostrano i vari casi, spesso sommersi, di rimpatri, di slittamento nella criminalità, tentativi di suicidi e forme di protesta estrema come lo sciopero della fame. Prima dell’adozione della Convenzione di Ginevra e la creazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati –HCR- nel 1951, il diritto d’asilo restava un affare nazionale o un problema da regolare volta per volta. Dopo il 1945 l’ONU decise di affrontare diversamente la situazione, considerando che il problema dei rifugiati si prospettava durevole e che il suo sviluppo avrebbe coinvolto non solo l’Europa. Uno dei primi mezzi messi in opera fu l’UNRWA –United Nation Relief and Work Agency- organo autonomo e regionale creato nel 1949 per rispondere ai bisogni dei Palestinesi che furono espulsi o costretti alla fuga al momento della costituzione di Israele. La tendenza non si è invertita durante gli ultimi cinquant’anni, e anche se l’HCR impone la differenziazione tra immigranti ordinari e forzati, gli uni regolati dal diritto ordinario dei Paesi e gli altri presi a carico dalle convenzioni internazionali che vincolano gli Stati segnatari, la distanza che li separa diviene sempre più sottile, dato che le problematiche ambientali, le crisi economiche e i conflitti, spesso intervengono a condannare le medesime realtà. Si potrebbe concludere con le parole scritte su di una lettera trovata sui corpi di due adolescenti guineani, Yaguine Koita e Fodé Tounkara, passeggeri clandestini trovati morti sul carrello d’atterraggio del Sebena Airlines Airbus A330 nel 1999: “All’attenzione delle Eccellenze e degli Ufficiali dell’Europa. Noi soffriamo enormemente in africa. Aiutateci. Noi abbiamo dei problemi in Africa. I diritti dei bambini non esistono. Noi abbiamo la guerra, le malattie. Ci manca il cibo. Noi vogliamo studiare e vi chiediamo di aiutarci affinché noi possiamo essere come voi in Africa”. Parole che regolarmente restano inespresse ma che appartengono a tutte quelle vite che ogni giorno vengono perse a Lampedusa, a Gibilterra, al largo di Calais, sulla frontiera messicana o sui 206 km della frontiera tra la Grecia e la Turchia.