La battaglia del Morgogliai
1 Luglio 2010Natalino Piras
Più di un secolo fa, il 10 luglio 1899, ci fu la battaglia del Morgogliai. Il nome è già di per sé un contenitore di suoni e di racconti. Cosicché anagrammandone le prime quattro lettere Morgogliai diventa Grom: la battaglia del Grom. Sembra un luogo da “Signore degli anelli”. Ma potrebbe pure darsi che quel Morgogliai richiami il murguè, murguleu, che significa vino. Etimologia? Dice il Wagner: “Probabilmente preromana; cfr nome di luogo Murgueliai presso Oliena”. È che oltre tutti questi giri e ghirigori la battaglia del Morgogliai è una parte fondante del nostro romanzo storico, come Sardi e come irrisolta Questione Meridionale, un frammento significativo della storia come falso, Unità d’Italia compresa. Si potrebbe farne ancora oggi cronaca, con i nomi veri al posto giusto. Ma pure inventando, ricorrendo alla finzione. Dice la storia vera che in Sardegna, il 10 luglio 1899 ci fu «la battaglia del Morgogliai», nel Supramonte orgolese. Da una parte esercito e carabinieri. Dall’altra la banda dei fratelli Serra Sanna di Nuoro, quelli che nell’autobiografico “Cosima”, Grazia Deledda definisce «i fratelli***». Perierunt due soldati regolari, i due capibanda e altri banditi, uno per tutti Tommaso Virdis. L’epica popolare ha messo quella «battaglia» e gli eventi ad essa collegati sotto una lente di ingrandimento. I fatti furono narrati tra gli altri dal tenente dei carabinieri Giulio Bechi nel libro “Caccia grossa”, pubblicato per la prima volta nel 1900. Giulio Bechi pagò con il carcere l’accusa di aver diffamato i sardi nel suo libro. In realtà più che una battaglia, quella del Morgogliai fu una lunga sparatoria accaduta in un periodo fosco. Lo scontro era stato preceduto dalla famosa «notte di San Bartolomeo», quando a Nuoro e dintorni esercito e carabinieri intervennero per arrestare in massa le famiglie che proteggevano i latitanti. C’era in corso una guerra vera e propria che contrapponeva diverse nassones a un «altro Stato» . I banditi alla macchia arrivarono a essere centinaia. C’era chi li definiva tzigantes, giganti. Altri invece li chiamava titules, esseri spregevoli. I banditi avevano pure protezione in «alto» e in «basso». Ma non costituirono mai un esercito vero e proprio come invece ce ne furono, prima e dopo l’Unità, nel Sud dell’Italia . Il bandito sardo resta un tipo «solo». Non è come i briganti dell’Aspromonte riuniti per bande, né come i rivoltosi siciliani delle diverse Bronte e Alcara Li Fusi, narrati da Verga, da Sciascia e da Consolo, considerati briganti tout court dagli «italiani venuti dal nord», garibaldini compresi. Dice la finzione che cercando tracce di Melchoro Minero alla biblioteca comunale di Vetus, Dalton Clericus si imbatté nella storia di Tomas Birde. Come di molta perduta gente, pure di costui non esistono fotografie che lo mostrino in vita. L’unica posa lo raffigura da morto: steso sulla nuda terra, la testa poggiata su uno spuntone di roccia. Era il 10 luglio del 1899 quando Tomas Birde, toro infuriato, terrore delle campagne, iniziò a diventare corpo freddo. La battaglia del Grom era terminata da poco. Restavano carcasse crivellate dal piombo dei moschetti, inutili corazze le cartucciere a tracolla. I corpi dei banditi ammazzati colavano ancora sangue mentre i soldati si aggiustavano al meglio per la fotografia di gruppo. Stesero ai loro piedi le prede puzzolenti di selvatico, facce ferine mascherate da lunghe barbe, capelli corti e irte chiome, fuoco compresso dentro occhi vitrei che nessuna mano pietosa aveva voluto chiudere. Grappoli di mosche stercavano sulla bocca dei banditi uccisi, caduti di schiena, il moschetto ancora artigliato tra le mani, nell’estremo tentativo di scagliarlo contro le baionette che li trafiggevano. Dice la storia vera mischiata con la storia come falso che in quel tragico 1899 in Sardegna furono registrati “209 omicidi e 2 sequestri di persona”. Bande occasionali si scomponevano e si ricomponevano, partivano e ritornavano dalle terre dell’Inforcato. Fu da qui che Tomas Birde e Lovicu mossero per Murguè, per ricomporre il grosso in vista di una discesa nelle terre baronali, per depredare. Ma a loro insaputa si muoveva anche l’esercito dei soldati regolari e dei carabinieri. Erano più di duecento, al comando del capitano Giuseppe Petella, ufficiale dal portamento fiero. Il 10 luglio del 1899, caldo sole dardeggiava sin dall’alba sopra le nera foresta di Chentomínes e alla truppa regolare sembrava di entrare nella selva di Teutoburgo. Dopo una intera mattinata di marcia estenuante furono al nido delle aquile e troppo tardi i banditi si resero conto che l’esercito stava loro addosso. Si scatenò l’inferno. Due soldati caddero subito, uccisi dal fuoco dei banditi, un fantaccino appena sbarcato in Sardegna, ammazzato con una fucilata alla spalle mentre si dissetava in un torrente. L’altro si chiamava Aventino Moretti, già famoso per aver posto fine ai giorni di Giovanni Corbeddu di Oloustes. I soldati vendicarono subito i commilitoni. Stanarono i banditi, li rincorsero per sottobosco e giogaie, li ammazzarono come cani. Dopo la battaglia esposero la selvaggina davanti all’obiettivo del fotografo. Il ritorno a Vetus fu un trionfo, osannati come liberatori dalla gente accorsa a vederli passare per le strade, a passo di marcia ma lieti in volto. Dietro i comandanti seguiva la truppa con i due soldati uccisi portati a spalla dai compagni, ricomposti solenni come guerrieri sopra barelle di legno e di frasche. Diverso il trattamento riservato ai banditi, trascinati nella pietra e nella polvere, legati alle code di asini e muli. Quasi cento anni dopo scena analoga si ripeté a Nuoro, dopo il conflitto di Osposidda, non molto lontano dal Morgogliai. Anche allora caddero banditi e un agente di polizia. Le forze dell’ordine passarono per il corso strombazzando, come dopo un caccia grossa. Fu un trionfo ingiusto.