La cannabis terapeutica tra mito e verità
1 Marzo 2020[Daniela Piras]
Quello che sembra essere il perno di un attuale dibattito, frutto di un’evoluzione del concetto stesso di terapia – ovvero ricorrere ai derivati della cannabis – appartiene in realtà a un passato estremamente lontano.
Il ricorso alla marijuana per uso medico è stato approvato in Italia già da diversi anni ma il dibattimento in quest’ambito continua ad essere animato da polemiche. Se di tale terapia si può usufruire in maniera legale, perché se ne discute di continuo? Perché non sempre è disponibile, e questo porta le persone che ne usufruiscono, e ne riconoscono l’indubbia efficacia nel trattamento del dolore, a stare male, in una sorta di astinenza forzata alla quale vedono aggiungersi, oltre al dolore fisico, anche una condanna morale da parte di chi li addita come comuni “tossicodipendenti” e/o “drogati”.
Essere dipendenti da una sostanza che ha la capacità di lenire il dolore causato da diverse malattie ed avere una dipendenza fisica e/o psicologica legata alla sensazione di piacevole stordimento offerta dalle cosiddette “droghe leggere”: la confusione tra le due circostanze regna sovrana, e non è un fatto trascurabile, quando di mezzo c’è il benessere di chi spesso trova sollievo solo nella cura legata alla cannabis, avendo già sperimentato senza trarne altrettanto giovamento altri farmaci dall’origine meno discussa. Legalmente, infatti, il ricorso alla marijuana per uso terapeutico può avvenire soltanto sotto prescrizione medica e nel solo caso in cui i trattamenti convenzionali non diano risultati soddisfacenti o non si rivelino più sufficienti a controllare i sintomi causati dalle patologie arrecanti dolore cronico. Ma quali sono i casi in cui trova impiego la marijuana per uso terapeutico? Nei seguenti: per alleviare il dolore cronico, in particolare di tipo neuropatico, come quello provocato dalle lesioni del midollo spinale e da patologie quali sclerosi multipla e SLA (terapia del dolore); per contrastare nausea e vomito indotti da chemioterapia, radioterapia, terapie farmacologiche contro HIV ed AIDS; per stimolare l’appetito nei pazienti affetti da AIDS, nei pazienti oncologici e nei pazienti affetti da anoressia nervosa; per contrastare i movimenti involontari nei pazienti affetti da sindrome di Tourette; per contrastare l’eccessiva pressione endooculare nei pazienti affetti da glaucoma resistente ad altre terapie convenzionali.
Succede così che chi ha problemi simili si unisce, per cercare di dare maggior risonanza possibile alla questione. Nasce in tal modo il “Comitato Pazienti Cannabis Medica”, che ha sede a S. Alessio Siculo (ME).
Non si tratta di pionieri di una nuova frontiera della medicina: combattono per avere qualcosa che fino al 1936 veniva dato, sottoforma di olio, come cura per qualsiasi cosa. Lo dimostra anche il fatto che, quando nel 2018 si è avviata la richiesta d’indire un referendum per chiedere l’erogazione gratuita da parte del Sistema Sanitario Regionale e per avviare la produzione in Sardegna delle coltivazioni della cannabis medica, i primi a presentarsi per firmare, nel nuorese, sono stati i più anziani e meno scolarizzati. Ciò perché ricordavano che l’”olio di canapa” (da non confondere con quello che si vende nei canapa caffè, ovvero un estratto di semi che contiene ottime sostanze nutritive ma non medicinali) veniva offerto come soluzione finanche per i mal di testa!
Alcune delle proprietà terapeutiche tradizionalmente ascritte alla marijuana dalla medicina popolare sono state, nel frattempo, ampiamente confermate da numerosi studi e prove cliniche, e se n’è approvato l’impiego in terapia. Se si considera che l’essere umano possiede un sistema endocannabinoide, così come gli animali domestici, si evince chiaramente che ci si è sempre servito della canapa per curarsi. Il sistema endocannabinoide del corpo umano è un sistema di comunicazione tra cellule. Si tratta di un sistema di neurotrasmissione che si trova in diverse zone e tessuti del nostro organismo e aiuta nella regolazione di vari processi metabolici.
Medicina popolare, rimedi antichi, erbe medicinali. Trasposizione delle proprietà benefiche di piante ed erbe in creazione di nuovi prodotti farmaceutici. Fin qui niente di insolito, o di contestabile. Ma per quale motivo si è arrivati alla demonizzazione della cannabis e alla narrazione contemporanea nella quale la si associa irrimediabilmente alla tossicodipendenza?
Proviamo a fare un po’ di luce sulla questione attraverso alcuni dati storici. La coltivazione della pianta della cannabis, unica pianta la mondo che può essere utilizzata allo stesso tempo come droga e come fibra, risale ad almeno diecimila anni fa. Nel corso della storia la cannabis è stata utilizzata per scopi medici, spirituali, religiosi o ricreativi (tramite inalazione o vaporizzazione) da almeno 5.000 anni. Diversi documenti ne testimoniano la presenza in varie parti del globo. Elencare in questa sede, in maniera dettagliata, quali popoli hanno, nel corso della storia, utilizzato questa pianta e in che modo non ha molto senso. In sintesi, possiamo dire che, nel Nuovo Continente, la coltivazione della cannabis è stata massiccia per secoli. Oltre all’utilizzo nella tessitura se ne conoscevano anche le potenzialità ricreative. Due istituzioni hanno provato ad impedirne la diffusione e l’utilizzo: la Chiesa e lo Stato. Già nel 1484 una bolla papale ne vietò l’uso ai fedeli. Nonostante la condanna della Chiesa, l’utilizzo della cannabis a scopo ricreativo divenne una vera e propria moda tra gli intellettuali.
L’Italia è stata per secoli un’importante produttrice di questa pianta, per via del clima favorevole alla coltivazione. Da pianta valorizzata per i suoi diversi utilizzi e funzioni si trasforma – durante un lungo percorso segnato da interessi economici imperanti, commercializzazione di prodotti concorrenti – in pianta da criminalizzare.
Per arrivare ai tempi più recenti, nel 1937 viene firmato, dal presidente americano Roosevelt, il Marijuana Tax Act: la legge che dà il via al Proibizionismo nei confronti del commercio, dell’uso e della coltivazione della canapa, esteso in pochi anni a numerosi altri Paesi del mondo.
Le motivazioni di tale scelta sono le più disparate. Il direttore del Federal Bureau of Narcotics americano, Harry J. Anslinger, uomo ambizioso, razzista e bigotto, giustificò la proibizione con le seguenti parole:
“Negli Stati Uniti d’America ci sono 100mila fumatori di marijuana. La maggior parte di loro sono negri, ispanici, filippini e artisti. La loro musica satanica, il jazz, lo swing, sono il risultato dell’uso di marijuana. La marijuana provoca nelle donne bianche il desiderio di intrattenere rapporti sessuali con negri, artisti e altri. La marijuana è una droga che provoca assuefazione e produce negli utilizzatori insanità, criminalità e morte. La marijuana porta al lavaggio del cervello pacifista e comunista. Gli spinelli inducono i negri a pensare che sono come gli uomini bianchi. La marijuana è la droga che più ha causato violenza nella storia dell’uomo”.
Dietro alla campagna proibizionista c’erano, oltre al bigottismo, importanti interessi economici.
In gioco c’era la tutela di enormi investimenti, come quello effettuato sulla carta da albero dalla famosa casa editoriale/cartaria Hearst. Il suo proprietario William Randolph Hearst, dichiarò sul Newspaper Tycoon:
“La marijuana è la strada più breve per il manicomio, fuma la marijuana per un mese e il tuo cervello non sarà niente più che un deposito di orridi spettri, l’hashish crea un assassino che uccide per il piacere di uccidere”.
I giornali di Hearst portarono avanti per anni una enorme campagna di disinformazione e propaganda proibizionista contro la cannabis, attribuendole falsamente una miriade di “mali sociali”.
Fa un certo effetto leggere come alcuni stigmi sociali risultino attuali anche oggi: pensiamo al razzismo strisciante (e anche a quello meno strisciante) presente sui Social e ai proclami via web dei politicanti che esaltano la “difesa della patria” e che mettono alla berlina una certa fetta della popolazione (variabile a seconda del periodo) rea di aver portato “cattive abitudini” tra gli italiani-brava gente; pensiamo alla criminalizzazione di un certo tipo di cultura musicale: ieri lo swing e il jazz, oggi il rap o la trap; consideriamo anche la condanna di alcune abitudini sessuali delle donne ritenute troppo “avanzate” o promiscue. La storia si ripete con le stesse dinamiche: cambiano soltanto gli attori. Ad ogni rappresentante di certune categorie, anche ai nostri tempi,viene affibbiata l’etichetta di “drogato”.
Oggi, nonostante decenni di proibizionismo perpetrato nella maggior parte dei Paesi, la cannabis resta una sostanza immensamente popolare, seconda solamente ad alcol, caffeina e tabacco.
Con la sua legalizzazione cambierebbero diverse cose: la criminalità organizzata subirebbe un duro colpo, poiché ne detiene il business milionario; il cittadino/consumatore abituale vedrebbe riconoscersi il diritto al suo sereno consumo. Il governo potrebbe tassare e regolamentare l’eventuale commercio. Al di là degli aspetti che potremmo definire “generali”, ciò sarebbe molto importante per chi necessità della cura terapeutica legata ai derivati della cannabis.
Il “Comitato Pazienti Cannabis Medica” fa leva sull’Articolo 32 della Costituzione italiana, il quale garantisce il diritto alla cura. Un diritto alla cura che va di pari passo con il diritto ad avere accesso al farmaco con il quale ci si cura. Ciò di cui hanno bisogno i pazienti che trovano in questa sostanza mitigazione dai propri mali è avere la certezza della continuità della cura, in modo tale da non doversi trovare nella incresciosa situazione di dover interrompere il trattamento. C’è da aggiungere che, una volta rimasti privi del farmaco, i pazienti si possono ritrovare a proseguire la cura, dopo la pausa imposta, con un altro tipo di prodotto. Con l’importazione di altre varietà di cannabis si introducono infatti nuovi prodotti diversi e non sostituibili rispetto a quelli attualmente in commercio. Non tutti i tipi di cannabis sono uguali e ogni varietà ha un’azione differente. È essenziale la continuità terapeutica, perché tale diritto non può e non deve sottostare a decisioni che esulano dalla volontà dei medici che hanno, nelle loro piene facoltà, deciso di prescriverne il trattamento. Alla già complicata situazione si aggiunge anche il fatto che, a causa della legislazione in materia non chiarissima e per via della scarsa formazione proposta dal sistema sanitario, capita che i medici stessi, a volte, abbiano delle remore a prescrivere tale terapia. La paura deriva dal fatto che si ha a che fare con una sostanza definita “psicotropa” della quale non si conoscono tutte le proprietà.
Lo Stato non aiuta a fare chiarezza e in più ci si mettono di traverso anche alcuni politici che, lungi dal voler affrontare il problema della carenza del farmaco e dal voler creare informazione in merito, ne approfittano per cavalcare l’onda dell’ignoranza, riferendosi ai pazienti in questione come “tossicodipendenti”. Non essendoci una sufficiente formazione specifica, soprattutto per gli specialisti, la situazione è che, ad oggi, qualunque medico può prescrivere la cannabis terapeutica. Spesso, però, i medici hanno paura di ritrovarsi i finanzieri in studio o sono convinti che la cannabis sia una moda momentanea.
In Italia, attualmente, la cannabis medica arriva dallo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, dove la si produce, o attraverso due case farmaceutiche che si sono aggiudicate il bando indetto dal Ministero della Difesa, riguardante la fornitura: la Bedrocan, olandese, e l’azienda canadese Aurora Cannabis Inc. la quale possiede Pedanios, un grossista esportatore e distributore di cannabis medica nell’Unione europea, con sede in Germania.
Nonostante questi approvvigionamenti esterni i pazienti restano sempre scoperti, poiché si continua a sottostimare la quantità da ordinare. Non si hanno i dati chiari sulle quantità necessarie a garantire la continuità della terapia da parte di chi ne fa uso e non esiste una rete di centri medici prescrittori riguardante tutta l’Italia.
Il “Comitato Pazienti Cannabis Medica” sta facendo il possibile per far conoscere ai pazienti che si rivolgono a loro i nomi dei medici prescrittori regione per regione. «La cannabis terapeutica non viene legiferata tramite servizio sanitario nazionale ma regionale, questo crea una grande confusione – spiega uno dei membri. Ad esempio, la regione Sardegna riesce a fornirla, secondo richiesta dei pochi medici prescrittori, a pochissime persone tramite il sistema sanitario regionale. La maggior parte di chi ne ha comunque diritto la ottiene senza ricetta rossa, ovvero senza alcun aiuto dalla Regione o dal Ministero. E i costi sono esosi».
Ma come si utilizza la cannabis terapeutica? Proviamo a fare chiarezza, dando voce a un’esponente del Comitato Pazienti Cannabis Medica: «C’è da dire, in primis, che la cannabis terapeutica non si fuma. – E qui sta il primo passo utile per distinguere tale categoria dai cosiddetti consumatori abituali di droghe per scelta sociale e ricreativa. N.d.R. – Esistono dei modi molto più sani ed efficaci per consumarla anche secondo la patologia. Essendo una pianta liposolubile si fa sciogliere prima per venti minuti in acqua che sobbolle e in seguito nel latte per altri quindici.
Quindi chi parla di “tisana” sbaglia preparazione. Si prepara un decotto e si beve, con tutta la sostanza che è rimasta nel latte. Poi esistono le vaporizzazioni, che niente hanno a che vedere con le sigarette elettroniche, e si usano per le erbe mediche. Sono fatte apposta per non bruciare la sostanza tagliata opportunamente dal farmacista galenico; si posizionano le erbe dentro una camera di ceramica, dove il calore viene stabilito dal paziente, senza che niente arrivi decarbossilato nei polmoni; in tal modo ci prendiamo tutti i benefici della pianta senza andare a bruciare niente. Esistono gli oli di cbd con poco thc (la cosiddetta sostanza psicotropa) che vengono utilizzati soprattutto per i bambini e gli epilettici farmaco resistenti o, in generale, da chi ha problemi riguardanti lo spettro autistico, etc. Altri modi per assumerla sono: attraverso l’olio con alti contenuti di cbd e thc, ciò dipende sempre dalle patologie e dal piano terapeutico. Inoltre esistono anche degli appositi cristalli. Insomma, la cosa principale da mettere in chiaro è che la cannabis terapeutica non si fuma».
In prospettiva di un cambiamento della situazione attuale, oltre a venir meno il problema dei disagi e del malessere provocato a chi resta senza la terapia, si aprirebbe anche un importante indotto economico.
Lasciamo spazio ancora all’attivista del Comitato, che afferma: «Se l’Italia si mettesse in testa seriamente di coltivare indoor, almeno per quanto riguarda la terapeutica (visto che fino alla prima metà del 1930 eravamo i più grandi esportatori di canapa verso gli USA con la nostra pianta endemica, la Carmagnola, che ha delle fibre resistentissime) si comincerebbe nell’immediato a creare diecimila posti di lavoro tra chimici, agronomi, lavoranti etc, fino ad arrivare ai farmacisti galenici! E soprattutto nessuno rimarrebbe senza la possibilità di vivere in modo degno! Invece, continuiamo a fornire forza lavoro alla mafia e sosteniamo il mercato nero, oltre a continuare ad assumere farmaci come benzodiazepine e morfine per il dolore cronico che, oltre a farci assuefare in fretta, ci distruggono: intestino, fegato, reni e sinapsi. La cannabis non provoca tutti questi effetti collaterali. Nella storia dell’uomo non è mai capitato che una persona morisse per abuso di cannabis (anche se di sicuro non è il modo giusto per assumerla 24h). Quando rimango senza so già che mi torneranno tutti i disturbi decuplicati. Per questo ho bisogno di questa terapia, non perché mi dia assuefazione a livello fisico o psicologico ma semplicemente perché mi aiuta a vivere meglio».
Con questo articolo si spera di aver offerto una serie di spunti di riflessioni, e si spera di aver fatto venire voglia di informarsi maggiormente sull’argomento. Questo perché la sanità riguarda tutti. I problemi di una categoria non riguardano esclusivamente quella categoria.
Il fatto di avere una minima idea sulla questione, maggiore di quella che ci viene offerta come pillola preconfezionata tramite il web o tramite il vociare sregolato del politico di turno, incide sulla percezione del dibattito, rendendolo aperto. Chi è informato può confermare o ribattere a ciò che sente o legge, chi non è informato resta invece in balia di dati e argomentazioni varie, immerso in un vortice di notizie in cui non riesce a distinguere tra verità e falsità.
Una comunità è tale, e può essere tale, soltanto nel caso in cui gli appartenenti si sentano vicini gli uni agli altri. Come sosteneva Rousseau ne “Il contratto sociale”: l’individuo non ha alcun diritto se non come cittadino di uno Stato, e tale appartenenza si deve e si può realizzare solo sul piano di un’associazione di persone, che sono poste su un piano di uguaglianza piena e completa, un’uguaglianza in cui ogni individuo è “l’io comune” che si fa garante dei diritti e delle libertà di ciascuno.
Una comunità non funziona soltanto perché “la ruota gira” e ciò che oggi non ci riguarda o ci sfiora lontanamente un domani potrebbe vederci, nostro malgrado, protagonisti. La comunità ha senso se esiste per uno scopo. La comprensione delle dinamiche sociali che la animano, e in questo caso le dinamiche legate al sistema sanitario a cui noi tutti facciamo riferimento, sono essenziali per sentirsi parte di qualcosa, per fare la nostra parte, e per mettere a disposizione il nostro personale (e qui che conta davvero l’individualità) contributo.