La città delle donne
16 Aprile 2013Silvana Bartoli
Capita ancora di sorprendersi: davanti alla vetrina di una libreria tappezzata dal saggio di Hanna Rosin: The End of Men.
La fine del maschio, secondo l’autrice, significa l’ascesa delle donne: sono loro, ormai, le dominae mundi.
Dagli Stati Uniti, all’Europa, all’Asia il cambiamento epocale è già avvenuto: le ragazze sono più brave a scuola, il numero di diplomate e laureate ha superato quello di diplomati e laureati; l’evoluzione dell’economia ha quasi cancellato i baluardi riservati al lavoro maschile: imprese di costruzioni, fabbriche di automobili.
Nel mondo che cambia si sono aperte posizioni lavorative occupate in maggioranza da donne: finito irreversibilmente il modello del “maschio che procura il cibo” mentre la “femmina cura la casa”.
La tesi del libro si completa con un altro elemento: le donne sono riuscite a occupare i posti lasciati dagli uomini perché più flessibili, mentre da parte maschile c’è ripugnanza ad adattarsi alla rivoluzione che è in marcia.
Il libro ha avuto grande successo negli Stati Uniti, grazie anche al tono profetico che ne ispira le tesi: se tutto questo cambiamento non è ancora realtà, è certo che sta per compiersi; i segnali ci sono tutti: i congedi parentali e le “quote rosa” favoriscono la parità, e l’applicazione dell’uguaglianza salariale, secondo Hanna Rosin, sarà l’ultima porta per affacciarsi sul tempo delle donne.
Ma…forse il mondo guardato dagli Stati Uniti è diverso che da noi; là ci sono, ad esempio, gruppi religiosi cristiani che si battono con forza contro ogni discriminazione, mentre nell’ebraismo più del 50% dei rabbini è donna: difficile trovare un’azienda o una fondazione in cui le donne rivestano cariche di leader in percentuale simile.
Nel nostro mondo invece la mutazione radicale delle traiettorie femminili non si è accompagnata ad un investimento maschile nel farsi carico degli impegni domestici e familiari. Tutte le inchieste lo dimostrano: le donne hanno aggiunto il lavoro retribuito a quello gratuito di cura, mentre gli uomini sembrano opporre una resistenza feroce ad aumentare il tempo dedicato alla casa e alla famiglia.
Sicché molte donne si trovano in un cumulo di impegni eccessivo tra i ruoli nuovi e quelli tradizionali, dei quali non riescono a liberarsi perché la “società” si aspetta che continuino a svolgerli. Inoltre le donne sono sempre maggioritarie tra i salari più bassi, e poco presenti nei ruoli direzionali. La strada verso una effettiva parità da noi è ancora lunga e i diritti conquistati sono spesso a rischio.
Rosin forse vuol dire che è finito il patriarcato, e su questo possiamo essere d’accordo: la violenza a cui assistiamo – che ora però denunciamo a voce alta, senza più tacere e subire – è forse il colpo di coda di una tradizione morente.
C’è infatti un dato positivo a livello mondiale: nonostante la percezione diffusa, la violenza non è aumentata, è diventato invece sempre più raro il silenzio. Basta pensare a quanto è successo in India dopo la morte della ragazza violentata dal branco. Le tradizioni di quel paese non prevedono la difesa delle donne, eppure la protesta è esplosa: donne di tutte le età e classi sociali sono scese nelle strade e la politica è stata costretta ad ascoltare la loro voce. La crescita economica, peraltro diseguale, non basta più: solo il riscatto delle donne può aprire la strada a una democrazia compiuta. La violenza subita non è più letta come parte naturale della “condizione femminile” ma riguarda pesantemente la mentalità retrograda e ottusa di un maschile che si oppone ai cambiamenti portati dal progresso.
Lo scontro in atto è politico, come si è visto alla Green Power: l’apprezzamento sessuale da parte del leader che vuole esibire il suo potere in pubblico, è una forma di violenza non diversa da quella verbale del parroco di Lerici. Per entrambi il compito delle donne è rendersi gradite, altrimenti il maschio entra in crisi… Ma quando c’è qualcuno che parla o si comporta così, ora si può riderne pensando all’angoscia della “virilità” che deve passare dal privilegio sessista a una parità per lui incomprensibile. E come non compatirlo se la libertà femminile ha messo in crisi i suoi “valori”?
Il patriarcato è finito grazie alle donne lontane e vicine che nel corso dei secoli hanno messo in discussione il controllo maschile sul corpo femminile, esercitato in nome dello stato o del dio. Hanno osato parlare e si sono inventate occasioni per sottrarsi a quel controllo, affrontando un nemico oggi quasi inimmaginabile; un nemico per il quale una ragazza incinta senza appartenere a un marito meritava la morte sociale.
Per secoli gli uomini si sono chiesti seriamente se le donne avessero un’anima e la risposta era: no di certo! Sono scimmiette, meno pelose delle altre in quanto create per il piacere maschile; le regole grammaticali sono state definite quando alle donne era proibito studiare e il genere maschile poteva considerarsi universale e misura di tutte le cose. Questa è la storia da cui veniamo, non un’altra, e merita il nome di apartheid. Ma adesso è finita, anche se ogni tanto compare ancora qualcuno che crede di vivere in quel mondo, in quella storia, come dimostra il commento di Antonio Martino sulle parole volgari di Battiato: “magari ci fossero puttane in parlamento- ha detto- anche l’occhio vuole la sua parte”.
Non ho sentito lo stesso strepito che ha travolto Battiato, eppure il deputato Martino ha affermato serenamente che si lustra la vista se vede puttane; viene da chiedersi cosa prova quando vede gli utilizzatori.
Non si tratta dunque di “condizione femminile” ma di educazione maschile.
È anche vero però che le donne capaci di vedere la necessità dei cambiamenti, le ribelli insomma, devono sempre fare i conti con le occasioni in cui è meglio essere accomodanti, o silenziose, per la paura di essere escluse; si accetta il conformismo, per diventare come le altre e come gli altri si aspettano che siamo: a fermarci sono le nostre insicurezze.
D’altra parte, secoli di: “non sei, non puoi, non devi”, lasciano il segno sul DNA mitocondriale e oggi siamo inseguite da pubblicità che denunciano la vergogna delle rughe, l’obbrobrio delle piccole perdite e del loro possibile odore, che deve indurre a non salire in ascensore con altri (altri si badi bene, non altre: è solo in presenza di maschi che ci deve vergognare…).
Ma nessuno può obbligarci a comprare quei prodotti.
Solo la ribellione può tirarci fuori dal ruolo stabilito da altri per noi e aprirci il territorio dell’autonomia, per secoli proibito alle opere del femminile.
Lo studio del passato consente di leggere meglio il presente ed è inevitabile la constatazione che le donne lontane di cui ci arriva la voce, i cui gesti ci interessano, sono proprio le disobbedienti, le ribelli che hanno osato trasgredire il modello e la norma dominante. La loro voce ha varcato il muro del silenzio, le altre sono state seppellite dalla polvere del conformismo in cui si sono collocate per non turbare i contemporanei.