La clinica degli orrori e l’ideologia della violenza
16 Febbraio 2016Roberto Loddo
Da oggi assisteremo al solito balletto di dichiarazioni da parte di primari, dirigenti medici e operatori della salute. Ci spiegheranno che a Decimomannu c’erano delle mele marce e che nelle loro strutture, invece, sono bravissimi perché non hanno mai maltrattato nessuno, non hanno mai legato nessuno e soprattutto non hanno mai visto nulla. Sono sempre gli altri che maltrattano i propri ospiti. Nessuno sa nulla e nessuno sembra conoscere quello che fanno gli altri, dal modo di lavorare del proprio collega al metodo di gestione della RSA della propria città. Il silenzio sembra essere l’unica forma di appartenenza alle tante “strutture protette”.
Picchiare e umiliare le persone affidate in cura non riguarda soltanto i luoghi in cui è stato tradito il percorso riabilitativo terapeutico delle persone, come la struttura di Decimomannu. Anche in altre istituzioni totali vengono praticati trattamenti inumani e degradanti come la contenzione, una pratica assimilabile alla tortura. Decimomannu non è un eccezione, ma sono tantissimi i luoghi in cui la funzione principale è quella di ammassare in silenzio corpi senza dignità.
Ogni tanto l’opinione pubblica si scandalizza perché scopre l’esistenza di una clinica degli orrori che sembra spuntare dal nulla. Ma questi luoghi di sopraffazione e queste pratiche di violenza non nascono per una banale casualità. Questi luoghi vivono all’interno di un sistema che gli permette di crescere e moltiplicarsi. Luoghi che sopravvivono grazie all’ideologia dominante del mercato delle strutture protette. Un’ideologia mette al primo posto il mercato della salute e non la salute delle persone, e che serve a giustificare l’utilizzo della violenza e dell’isolamento sulle persone non più utili alla nostra società, persone che non producono più, che non consumano più e che non funzionano più.
La violenza che abbiamo visto grazie alle immagini dalle telecamere nascoste dalle forze dell’ordine è presente in tutte le istituzioni totali in cui sono rinchiuse le persone anziane, le persone disabili, le persone tossicodipendenti, le persone che stanno nei centri di identificazione e di espulsione. Dalle REMS (i luoghi che hanno sostituito i vecchi OPG), ai reparti psichiatrici delle carceri, fino ad arrivare ai servizi psichiatrici di diagnosi e di cura la violenza delle porte chiuse e della contenzione è pratica comune. La contenzione meccanica consiste nell’imprigionare gli arti della persona al fine di limitarne i movimenti, e la modalità più comune è quella di legare con delle fascette polsi e caviglie ai quattro angoli dal letto, la contenzione, come affermato da Valentina Calderone dell’associazione A Buon Diritto, è la moderna crocifissione.
Le persone non hanno solo il diritto di conoscere i video delle telecamere nascoste. Le persone hanno il diritto di conoscere e di essere informate su cosa può accadere quando si entra in una situazione di fragilità e sofferenza, quando una persona è indebolita nelle sue relazioni sociali, nella sua autonomia, quando vive un’esperienza di sofferenza. Condivido il pensiero della presidente della Conferenza Basaglia, la conferenza permanente per la salute mentale nel mondo Giovanna De Giudice, quando afferma che: “I cittadini e le cittadine devono sapere che le persone quanto più avrebbero bisogno di accoglienza, vicinanza e di ascolto, rischiano un trattamento inumano e degradante quale quello della contenzione. C’è bisogno di informare perché tutte le persone sappiano che questa non è una condizione eccezionale ma può succedere a ciascuno di noi. Perché invecchiamo, perché siamo in una situazione di crisi e di sofferenza, perché possiamo arrivare in una istituzione per disabili”.
In Italia ci sono 750 mila persone che vivono nelle case di riposo e nelle RSA, le residenze sanitarie assistenziali. Le ricerche più aggiornate ci dicono che il 40 % di queste persone, i nostri nonni, sono vittime della pratica della contenzione e passano i loro giorni a guardare una finestra che forse non si aprirà mai. 85 mila persone, giovani con sofferenza mentale, sotto i 65 anni, vivono dentro una struttura protetta in cui, nella quasi totalità, si fa contenzione. 25 mila disabili gravi vivono dentro le strutture protette e una parte di queste pratica la contenzione. I bambini, i minori, soprattutto quelli con gravi disabilità, se finiscono nelle finte case famiglia o nelle piccole strutture protette sono molto spesso legati.
La nostra società può fare a meno di questi trattamenti inumani e di questi luoghi di segregazione. Sono tanti i luoghi in cui le persone fragili e con sofferenza vengono incontrate, accolte e accompagnate nel loro percorso di cura senza l’utilizzo di pratiche coercitive e violente. E sono tanti gli uomini e le donne che lavorano nella salute, in grado di opporsi e disubbidire, mantenendo competenza ed etica.
Immagine: Cesare Inzerillo, ritratto della follia
16 Febbraio 2016 alle 17:05
Le istituzioni totali… sono il subconscio culturale della nostra società. La zona oscura e profonda di una mentalità arcaica e obsoleta che non sa e non vuole cambiare. Un’immobilità sconsolante, inimmaginabile per chi vive in superficie, eppure così spietatamente illuminante per leggere il nostro quotidiano…
17 Febbraio 2016 alle 02:56
vorrei ci fosse l’obbligo delle telecamere sia nelle RSA, che negli asili o strutture a rischio abusi, non se ne può più, sappiamo tutto ma come possiamo fare per rendere le telecamere obbligatorie?
18 Febbraio 2016 alle 00:06
Come è stato possibile alla famiglia Randazzo ( in particolare al padre Bruno) costruire un impero nel campo socio-assistenziale che oggi abbraccia praticamente tutti i settori del disagio? Ovviamente con la politica e con il controllo del bacino elettorale pilotato dal regime delle assunzioni e (spesso) dalla disperazione delle famiglie non in grado di assistere i loro congiunti problematici. Nulla di nuovo sotto il sole: politica, affari, buonismo, strategia mediatica e, dulcis in fundo, differenziazione aziendale. Quando le istituzioni sono assenti (per il controllo) o conniventi (per le affinità ideologiche) e manca la democrazia partecipativa ( pubblico, privato, parti sociali), la proprietà può tranquillamente pensare al bene della famiglia e a continuare ad espandersi in tutti quei settori che garantiranno future entrate sicure (anche comprando mercati dismessi).
24 Febbraio 2016 alle 20:58
Sono parole, quelle di Roberto, che toccano con lacerante efficacia ferite che avremmo da tempo dovuto sanare. Un ulteriore sgomento nasce dalla constatazione che, per poter “sapere”, e intervenire, abbiamo ormai la necessità delle telecamere (vedi il caso Mastrogiovanni): dobbiamo diffidare degli operatori che si dovrebbero prendere cura delle nostre fragilità e, per questo, caduti in una condizione di disabilità, esporci all’occhio elettronico anche nelle situazioni più intime. E tutto perché, da sempre, nonostante Basaglia, la nostra società, non per nulla la stessa che non è in grado di riconoscere il reato di tortura, promuove fondamentalmente i diritti dei più biechi e spregiudicati nell’arte di accaparrare, commiserando, al massimo, i “più deboli”. L’assessore in un’intervista ha cercato goffamente di parlare di distinzioni tra “competenze”. In un tweet gli ho contrapposto la parola “responsabilità”, più consona al suo ruolo. Le grandi strutture di cura-clausura, col personale iper-sfruttato, hanno sempre ricevuto dai nostri rappresentanti politici ingenti finanziamenti, mentre sui piani regionali spiccava l’eleganza di dotte descrizioni sui vantaggi, anche economici, degli interventi a sostegno dei familiari e della realizzazione della case famiglia e dei gruppi appartamento. E’ forse necessario uno stravolgimento di questo nostro sistema politico, che consenta alle persone di poter salvaguardare i propri destini senza essere costretti all’uso delle telecamere.