La conversione ecologica alla prova dei fatti

18 Gennaio 2022

[Guido Viale]

Il fallimento delle misure di contenimento del covid, tutte fondate sulle presunte virtù taumaturgiche di un vaccino, senza un vero potenziamento di ospedali, medicina territoriale, staff medico, formazione, aggiornamento, piani di prevenzione, distanziamento – cioè, più aule, insegnanti, trasporti, revisione degli orari urbani e quant’altro, tutte cose necessarie anche in vista dell’avanzare della crisi climatica – mette in luce la totale assenza della conversione ecologica dall’orizzonte delle politiche in tutti i paesi del mondo.

Un orizzonte ineludibile per qualsiasi misura venga presa, ma che esige innanzitutto una riduzione drastica dei consumi superflui. Ma è ora di cominciare a passare dalle enunciazioni di principio e dalle sperimentazioni di nicchia alle strutture che stanno al centro dell’organizzazione sociale e produttiva. Non ha senso calcolare il fabbisogno di energia, di mobilità, di ricettività, o di acciaio, cemento e tante altre materie prime – e meno che mai di petrolio, gas e carbone; o di acqua – in base alla proiezione dei consumi passati: così si va alla catastrofe: che ne imporrà una ben più drastica riduzione: e non per scelte fatte in modo programmato, ma per improvvisi crolli delle catene di fornitura, degli sbocchi di mercato, dell’agibilità di molti territori: per eventi metereologici estremi o per predazione ambientale o per la moltiplicazione di guerre e conflitti. Che ce ne faremo degli impianti a gas in costruzione o in progetto, se il gas cesserà di arrivare, o il suo prezzo o le sue emissioni saranno insostenibili? Ma, per fare un altro esempio significativo, che ce ne faremo delle automobili, se le loro fabbriche sottraggono materiali rari alla conversione energetica e i loro consumi sottraggono energia a produzioni indispensabili e agli usi quotidiani? E se, senza più un’auto a testa, gli investimenti evitati sul trasporto condiviso ci impediranno di muoverci e viaggiare?
Quello dell’auto sarà tra i primi settori a venir sottoposto alla prova dei fatti: come per il covid, si pensava che bastasse aspettare che passasse “la nottata” e poi il mercato avrebbe ripreso a “correre”. Ma non è così. L’auto come consumo di massa è in crisi: il costo di acquisto e mantenimento sta diventando inarrivabile per molti. Altri aspettano che arrivi l’auto elettrica. Ma congestione e inquinamento urbani sono ormai insostenibili e l’auto elettrica – se mai arriverà – non li elimina. Le materie rare per la produzione di massa di veicoli elettrici saranno per noi introvabili. Certo, la Cina ha già un grande parco elettrico, ma quella flotta viaggia ancora a carbone… In Italia – anello debole della filiera, stremato dalla sequenza Fiat-FCA-Stellantis – le fabbriche dell’automotive sembrano destinate a cadere una dopo l’altra come birilli. Resiste – anzi, si rafforza, con il varo del progetto Silk-Faw – solo il settore del lusso: prova evidente che il mondo di domani, anche se ridipinto con la transizione energetica, è riservato ai ricchi (e gli altri, a piedi!) e che quella transizione è fatta per loro e per i pochi lavoratori al servizio dei loro capricci (e gli altri, a casa! O sulla strada). Invocare incentivi per la conversione all’auto elettrica, come fanno i sindacati, è un regalo ai marchi, tutti esteri, in grado di avvantaggiarsene e a coloro che se la potranno permettere: come con il 110 per cento, riservato a chi ha una villetta o una seconda casa, escludendo chi vive in condomini dove mettere d’accordo tutti senza un intervento delle autorità locali è impossibile.
Che fare allora? Nell’assemblea della Gkn dedicata alla riconversione dell’impianto i rappresentanti dei lavoratori hanno sottolineato la necessità di puntare su un diverso modello di mobilità, pur consapevoli del fatto che la produzione di semiassi – la loro – non è che un frammento di una delle filiere più complesse e disperse del mondo. Ma la mobilità sostenibile non è fatta solo di impianti, forniture e mercati già pronti. Gli sbocchi dei veicoli adatti a una mobilità condivisa sono molto più ridotti – anche se essa richiede molto più personale per farla funzionare – ma rendono necessarie alleanze, accordi o addirittura associazioni di imprese con gli enti responsabili del trasporto urbano e periurbano di persone e merci. Obiettivo che si può prospettare solo allargando e moltiplicando quella convergenza tra lavoratori in lotta e cittadinanze, associazioni e amministrazioni locali su cui il collettivo della Gkn ha dimostrato di saper ben lavorare. E su cui le maestranze dell’impianto Enel di Torre Valdaliga – ma, certo, in un contesto meno complesso, e con un lavoro che risale più indietro nel tempo – sembrano aver conseguito un primo importante risultato. Ma la strada è ancora lunga e, senza lotte, iniziative e progetti “dal basso”, l’attesa di un piano nazionale di riconversione che venga dal Governo è pura illusione.

Dall’agenzia Pressenza

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