La fortezza ritrovata
16 Maggio 2008Antonietta Mazzette
Da settimane nella città di Sassari è andata crescendo una sorta di fibrillazione collettiva perché, durante la risistemazione della pavimentazione di piazza Castello, sono stati ritrovati resti di due piani della fortezza aragonese abbattuta nel 1877 e che, di giorno in giorno, vengono annunciati entusiasticamente sempre più sorprendenti. Attorno a questi ritrovamenti si è acceso un interessante dibattito ‘popolare’ che ha coinvolto studiosi e numerosi cittadini, avviato sulle pagine de La Nuova Sardegna e di cui si avvertono i suoni attorno alla piazza in questione e nei diversi ritrovi (per lo più di consumo) del centro storico. Ovviamente non mancano i pareri degli scettici e degli espliciti devastatori: vi è stato chi ha chiesto che il tutto venisse ricoperto e che la si finisse con tutto questo clamore. A parte alcune dichiarazioni un po’ grottesche, finalmente si è avviata una concreta riflessione collettiva sulla città e sul suo passato, seppure per ora limitata ad una minima porzione urbana. In relazione a questi ritrovamenti in progress, affronto quattro tipi di problemi:
il primo riguarda i luoghi e le modalità della discussione sul che fare del “castello ritrovato”. Pongo un primo interrogativo. Se La Nuova non avesse aperto le sue pagine alla cittadinanza, in quali altre sedi sarebbe stato possibile esprimere la propria opinione? Mi pare di poter affermare che la città manchi di luoghi di confronto aperti alla collettività, dove discutere sulle sue trasformazioni urbane, maturare progetti di interesse generale e sottoporli al confronto democratico. Questo dovrebbe essere un compito primario dell’amministrazione locale, al quale essa in parte assolve formalmente quando assume scelte eccezionali quali il piano regolatore; ma dovrebbe essere anche una finalità delle sedi primarie della politica (partiti), della cultura (università e formazione più in generale), dell’economia (attraverso ad esempio le associazioni di categoria e sindacali). La sede del giornale può essere un buon sostituto? Solo parzialmente, sia perché la scelta di partecipare per iscritto è di per sé selettiva sia perché è limitato il numero di coloro, almeno rispetto alla popolazione complessivamente intesa, che hanno capacità tecniche di accesso. Basti pensare che la maggior parte delle opinioni dei cittadini pervengono per sms e per e-mail, il che significa che diverse fasce di popolazione, anzitutto quelle anziane, sono escluse dal dibattito, il quale, più che un confronto, appare la sovrapposizione di singoli pareri che non possono avere alcuna incidenza sui reali processi decisionali.
Il secondo punto riguarda i contenuti del dibattito che, a distanza di settimane dai primi ritrovamenti, continuano ad essere limitati all’oggetto in questione. Pongo dunque questo interrogativo. Senza voler sottovalutare il valore culturale di questi ritrovamenti, che in qualche misura stanno mettendo in discussione la memoria urbana collettiva e alcune certezze sedimentate nel tempo, è sufficiente questo recupero per iniziare a riqualificare il centro storico? Sì, a condizione che la riflessione non si limiti a piazza Castello. Perché isolarla dal tessuto circostante non solo è sbagliato dal punto di vista urbanistico, ma soprattutto è la perdita dell’occasione di coinvolgere attivamente un insieme di attori sociali, culturali ed economici in un complessivo progetto di riqualificazione di una parte importante del centro storico, sotto i profili dell’abitazione, delle attività produttive e dell’intrattenimento. Coinvolgimento che va costruito subito, a prescindere dall’entità reale dei ritrovamenti, perché i tempi e le procedure della partecipazione sono molto più complessi dei ritrovamenti archeologici, in termini di finanziamenti e di idee progettuali, di peso degli interessi generali su quelli particolari e viceversa, e così via. A mio avviso, la riflessione ‘sul che fare’ si dovrebbe estendere a tutta quell’area ‘racchiusa’, per così dire, dalle piazze d’Italia, Tola, Università e dall’area antistante porta S. Antonio; all’interno delle quali c’è un variegato, e per questo interessante, patrimonio architettonico – si pensi ai diffusi segni settecenteschi e ottocenteschi presenti in corso Vittorio Emanuele con tracce dei secoli precedenti -, e un tessuto sociale altrettanto interessante, perché composito sotto il profilo generazionale, sociale ed etnico.
La terza questione riguarda la viabilità urbana, giacché è evidente che questi ritrovamenti pongono numerosi problemi al traffico di questa (e non solo) parte della città. La risoluzione del problema di dove far scorrere il traffico automobilistico, visto che i ritrovamenti si stanno estendendo da via Politeama verso la piazza, non può essere solo di tipo tecnico e limitata all’area in questione, ma abbisognerebbe di una chiara scelta politico-culturale finalizzata, finalmente, a pedonalizzare il centro storico, offrendo ovviamente delle soluzioni a chi vi risiede e lavora. Invece, il problema di ridurre il traffico automobilistico e adottare soluzioni eco-sostenibili a Sassari continua ad essere una ragione di forte conflitto non tanto da parte della popolazione astrattamente intesa, quanto da parte di alcune categorie economiche e che in città sono tra quelle che hanno più voce, in primis i commercianti. Pongo un terzo interrogativo. La città di Sassari può continuare ad ignorare le direttive dell’Unione Europea, a partire dalla Carta di Aalborg che data 1994 e che, al punto 1.9, tratta specificamente di Modelli sostenibili di mobilità urbana, sottolineando che «…È divenuto ormai un imperativo per una città sostenibile ridurre la mobilità forzata e smettere di promuovere e sostenere l’uso superfluo di veicoli a motore….»?
l quarto ordine di problemi riguarda la necessità culturale che la città di Sassari si riconcili con i propri passati. Qualche anno fa durante le lezioni di sociologia urbana, uno studente di Siniscola disse “chissà come sarebbe stata più interessante questa città se avesse conservato il suo castello” ed io aggiunsi “e anche se avesse conservato il suo patrimonio di manufatti ottocenteschi e liberty”, ahimé in buona parte abbattuto quasi nella sua totalità appena qualche decennio fa e certamente non per ragioni di rivincita contro l’oppressore. Abbandono le analisi contro-fattuali – che possono essere sì delle ottime esercitazioni per un corso universitario, ma poco utili sul piano delle scelte politiche -, e pongo un quarto interrogativo. Possiamo ragionare senza finzioni sulla bruttezza di questa città e su come invece potrebbe diventare bella? Non assegno alle parole ‘bello’ e ‘brutto’ solo un valore estetico, ma le associo ad altri termini, quali cura e attenzione, e, di contro, sciatteria e degrado. Credo che anche Sassari possa diventare una città bella, risanando e riqualificando il suo patrimonio storico-architettonico, certo, ma anche curandosi degli spazi pubblici e privati, e ciò può avvenire soltanto se ogni singolo cittadino si sente attivamente responsabile e coinvolto in un progetto comune. Per esplicitare il mio pensiero, mi limito ad un solo esempio. L’amministrazione locale sta risistemando molte strade del centro storico – devo dire con molta attenzione -, riportando alla luce ciottolato e lastroni di granito. Ebbene, finiti i lavori già nei giorni seguenti al ripristino dominano incontrastati sporcizia e degrado che non vanno attribuiti all’ente pubblico, bensì a tutti quei cittadini che nel loro transitare o lavorare non si preoccupano di tenere puliti i loro spazi pubblici. Eppure, se imparassimo ad acquisire il bello come valore, Sassari potrebbe persino uscire dal torpore che la attraversa ormai da molti decenni.
In conclusione, abbiamo scoperto che anche Sassari può avere una sua identità, ed il castello ritrovato (o meglio alcuni suoi pezzi) è certamente parte propulsiva di questa scoperta, più che per le sue pietre, per l’orizzonte di idee che si è aperto seppure limitatamente sulle pagine di un quotidiano. Il passo successivo dovrebbe essere quello di spostare questo dibattito nelle sedi preposte alle decisioni, magari mettendo in pratica tutti quei buoni propositi contenuti nel piano strategico di cui ci si è fin troppo rapidamente dimenticati.
19 Maggio 2008 alle 20:32
Passare accanto a quegli scavi è proprio un’emozione: quelle pietre sono parti del nostro castello. Ora posso vederlo, finalmente! Dopo aver letto molti aneddoti sui libri o aver visto immagini e rappresentazioni dei suoi interni … ora lo vedo!
Pensare che sotto i nostri piedi giace ancora molta parte della nostra storia mi emoziona ancora di più, perché penso che si tratti di un’occasione che la nostra città vuole offrirci per riappropriarci di una parte del nostro passato!
Non si tratta più solo di aver ritrovato un pezzo di muro … ci sono ormai diversi ambienti che stanno tornando alla luce e sono davvero curiosa di sapere fino a che punto arriveranno le ricerche e quali altre sorprese ci aspettano.
Sono orgogliosa di questi ritrovamenti: non tutto è andato perduto, parte della nostra storia che finora è sopravvissuta timidamente nelle mura di Corso Trinità fra un vaso di gerani e un panno steso finalmente potrà riacquistare la giusta importanza e non essere più svenduta e snaturata!
Mi rendo conto che sarà difficile fare i conti con reperti che giacciono al di sotto dei nostri piedi … ma è forse questo un motivo valido per non provare a pensare ai modi possibili per ridurre questo dislivello? Ma soprattutto, chi siamo noi per negare a chi verrà in futuro di fruire del proprio passato?
Oggi subiamo le decisioni dei nostri predecessori, non commettiamo lo stesso errore e impariamo a conservare, adesso!
20 Maggio 2008 alle 15:59
Hai perfettamente ragione a sollevare i tuoi interrogativi, e a porre innanzitutto il problema dei ‘luoghi’ della discussione. Intanto è una buona pratica democratica discutere di polis, e risolvere la grave carenza di luoghi in tal senso. Mi auguro anche che i luoghi coincidano non solo con tribune (digitali o edificate) ma anche con le azioni, come quelle che sembrano risvegliarsi, di artisti e gruppi di artisti. Una discussione più ampia potrà migliorare, o sperare di farlo, i luoghi della decisione.
E’ anche necessario esaminare ed eventualmente discutere i luoghi della decisione. Essi non appaiono adeguati, assieme ai processi formativi, ad una società dinamicamente democratica, soprattutto nel campo della cultura.
Siccome si parla di archeologia, da questo punto di vista non credo ad esempio che l’accordo progettuale con le istituzioni della tutela, oltre alle approvazioni di competenza, sia il modo migliore di operare: è bene dividere, per ovvie ragioni democratiche, chi progetta da chi approva. Non credo neppure che le professioni – e tutta la società civile dei saperi – esistano solo in quanto dimensione istituzionale. La questione della professione dell’archeologo tarda non casualmente ad essere risolta ed inserita nella normativa, come notato anche di recente su Eddyburg da Maria Pia Guermandi http://eddyburg.it/article/articleview/10932/1/158. C’è il sospetto di alcune resistenze santuariali: nei luoghi (assai discutibili) della decisione.