La Germania non crede più nel progetto europeo
16 Maggio 2016Gianfranco Sabattini
Da tempo si assiste al crescere della disaffezione da parte di molti popoli europei dall’Europa. Inizialmente lo scetticismo e le critiche, e a volte anche le proposte di una fuoriuscita dall’Unione, erano proprie dei movimenti populisti di destra; ciò che preoccupa, ora, è che il populismo scettico nei confronti dell’Europa alligni anche a sinistra, sino a spingere alcuni a parlare, soprattutto con riferimento alla Germania, di “nazional-populismo di sinistra”.
Di recente, Angelo Bolaffi, docente di Filosofia politica presso l’Università La Sapienza di Roma, direttore dell’Istituto italiano di Cultura di Berlino e noto germanista, ha pubblicato su “la Repubblica” un significativo articolo, (“La deriva antieuropea dei ‘nipotini’ di Habermas”), nel quale commenta l’ultima battaglia teorica e filosofica di Jürgen Habermas, da sempre impegnato, dentro e fuori della Germania, a difendere l’Europa dal crescente scetticismo, ma, a differenza del tempo passato – afferma Bolaffi – oggi gli avversari di Habermas non sono pensatori di destra o sostenitori di una Germana ‘neoguglielmina’, ma intellettuali, sociologi e giuristi formatisi paradossalmente alla sua scuola, divenuti “radicalmente ostili dal punto di vista teorico come da quello politico alla prospettiva europeista”
Notoriamente, di fronte alla crisi dell’euro e alle crescenti difficoltà del progetto europeo, Jürgen Habermas è sempre stato impegnato nell’elaborare nuove proposte per il rilancio del futuro dell’Unione Europea: per uscire dal vicolo cieco nel quale il processo di unificazione politica si è “incagliato”, le classi politiche europee, secondo Habermas, dovrebbero riprendere con coraggio il cammino europeista interrotto negli ultimi anni, coinvolgendo le opinioni pubbliche in un grande dibattito sul futuro costituzionale dell’Europa, nel quale prevalgono le opinioni dei popoli europei, non la confusione e i pregiudizi di chi cerca di impedire il compiersi del disegno, sfruttando populisticamente la paura del cambiamento.
Da anni, ormai, le classi politiche europee si occupano soprattutto della gestione quotidiana della crisi; è positivo perciò, che il filosofo e sociologo più significativo del momento continui a prospettare che l’Europa non è la causa della crisi, ma che, al contrario, può rappresentare la soluzione. Una politica pragmatica, legata alle esigenze quotidiane reali, come quella prevalsa negli ultimi anni, è importante; ma senza obiettivi e idee, essa è destinata a sicuro fallimento. Occorre, secondo Habermas, che alla corrente “realpolitik” siano associate nuove idee convincenti intorno al modello di Unione europea che si desidera realizzare. Egli, al riguardo, ne offre alcune, che però suscitano una “lite in famiglia”, causata soprattutto dalla ”provocazione” che il filosofo ha lanciato nel corso della conferenza tenuta alla Sorbona nel 2104, il cui testo porta il titolo “Philosophy and the Future of Europe”.
In occasione della conferenza, Habermas ha affrontato, tra i molti, il tema del come sia possibile pervenire ad un processo decisionale comune in Europa, in assenza di un popolo europeo; in altri termini, come sia possibile superare “la contraddizione posta a fondamento del funzionamento istituzionale dell’edificio europeo”, causata dal permanere, secondo Bolaffi, di una “sovranità bicefala”: da un lato, gli Stati nazionali e i loro governi dei quali è espressione il Consiglio europeo; dall’altra, i cittadini degli Stati componenti l’Unione, rappresentati dal Parlamento di Strasburgo. La persistenza della “doppia sovranità” fa sì che gli “Stati nazionali, gelosi della loro sovranità, privilegino processi decisionali intergovernativi, mentre la sovranità dei popoli è invece tendenzialmente federalista”. Secondo Habermas, la contraddizione potrebbe essere superata con la realizzazione di una democrazia transnazionale, attraverso l’esercizio di un “doppio potere sovrano”: quello dei cittadini dei singoli Stati e quello dei cittadini dell’Unione.
In tal modo, sarebbe garantita la continuità degli Stati nazionali, quali garanti dei livelli di giustizia e libertà raggiunti in ognuno di essi, evitando per questa via la gerarchizzazione propria dello Stato Federale; si tratterebbe di un federalismo corretto che terrebbe “conto delle specificità storico-culturali dell’Europa”. Contro questa ipotesi si sono schierati, tra i tanti, Wolfgang Streeck, Fritz W. Scharpf e Clauss Offe, tutti intellettuali e sociologi schierati a sinistra; delle loro critiche, secondo Bolaffi, occorrerà tener conto se “davvero si è convinti che per costruire un’Europa unita non basti tesserne le lodi”, anche se – osserva Bolaffi – è difficile sottrarsi alla sensazione che i “nipotini di Habermas” stiano combattendo una battaglia di retroguardia, soprattutto contro l’ipotesi che l’Unione rappresenti il “Cavallo di Troia” della vittoria del neoliberismo e della globalizzazione, “a discapito degli Stati nazionali e dei sistemi di Welfare”.
La condivisione di queste critiche in ampi settori del sindacalismo tedesco e del Partito socialdemocratico è la conferma della credenza, sempre più diffusa in Europa, che la Germania finga di volere l’unione Europea, ma che in realtà la stia lentamente rifiutando. Sebbene le critiche dei “nipotini di Habermas”, a parere di Bolaffi, siano una conferma della crisi politica della sinistra europea, in quanto solo “capace al massimo di funzionare da strumento di difesa corporativa di settori della classe operaia ma ormai non più in grado di produrre un effetto di egemonia sulla società perché non dispone più di una proposta universalistica di emancipazione”, resta comunque il fatto che le loro argomentazioni critiche nei confronti del progetto europeo vanno ad aggiungersi a quelle, ad esempio, di Heribert Dieter; questi, ricercatore presso l’Istituto tedesco per la politica e la sicurezza internazionale e “visiting professor” di Politica economica internazionale presso la “Zeppelin Universität di Friedrichshafen”. Dieter, in “La Germania dice ‘Europa’ ma ne pensa tante” (“Limes”, n. 3/2016), afferma che, nonostante le professioni di fede europeistica della Cancelliera Angela Mekel, le sue iniziative unilaterali in fatto di migranti, senza il coinvolgimento degli altri Paesi, hanno isolato la Germania, concorrendo ad indebolire l’Unione Europea.
In passato, Berlino poteva permettersi di chiamare all’osservanza dei Trattati comunitari tutti gli altri Paesi; ma ora, afferma Dieter, l’isolamento della Germania “nella crisi dei rifugiati rappresenta uno sviluppo grave e pericoloso”: la Germania ha dovuto infrangere le regole di fronte all’emergenza, percorrere una strada che altri governi europei hanno provato a battere per giustificare violazioni dei Trattati e Berlino ha sempre considerato illegittimi questi tentativi. Il risultato di rutti i recenti sviluppi dei problemi demografici ed economici hanno perciò indebolito notevolmente la credibilità della Germania e il suo possibile ruolo nella prosecuzione dell’attuazione del disegno europeo.
Inoltre, la Germania, sempre secondo Dieter, deve anche fronteggiare l’accusa di fare prevalere i suoi interessi nazionali sul bene comune, con l’assunto implicito da parte degli altri Paesi dell’Unione che la palma dell’egoismo e del disinteresse per le sorti dell’Europa spetti a Berlino. Questo “ritornello”, secondo l’economista tedesco, è sbagliato, in quanto il principale beneficiario dell’integrazione europea e dell’adozione della moneta unica non sarebbe la Germania; ciò sarebbe dimostrato dal fatto che il suo commercio con il resto del mondo è molto più solido di quello con gli altri Paesi dell’Eurozona.
Al riguardo, Dieter trascura, però, il fatto che quanto egli afferma risulta vero soprattutto per gli anni di crisi, mentre le previsioni per i prossimi anni a venire non appaiono così rosei come si vorrebbe fare credere. Se l’immaginario collettivo della Germania indulge ancora nel convincimento che l’integrazione delle economie a livello europeo abbia concorso ad arricchire la Germania, ciò è imputabile, secondo Dieter, alla circostanza che molti settori della società e dell’economia tedesca, che hanno tratto beneficio dall’euro, “sono riusciti a far passare i loro interessi come quelli dell’intera Germania”. La Germania, perciò, dovrebbe mettere in discussione l’utilità della moneta unica, in considerazione del fatto che le esportazioni extracomunitarie e le perdite finanziarie subite per effetto dell’esportazione dei capitali verso i Paesi importatori, perché potessero finanziare le loro importazioni di beni, non hanno reso più ricca la Germania, piuttosto l’hanno impoverita.
Molti Paesi critici del ruolo egemonico della Germania vorrebbero che l’Unione adottasse una politica economica comune. Secondo Dieter, sarebbe un grave errore; l’Europa, Germania inclusa, ha sempre beneficiato dell’eterogeneità delle politiche economiche nazionali, per cui l’idea di una politica economica comune è del tutto illusoria, perché fondata sul convincimento che, una volta adottata, sia possibile trovare un suo standard per ciascun Paese dell’Unione. La centralizzazione delle decisioni è sempre stata causa di fallimenti e lo sarebbe anche per l’Unione Europea; la sfida, secondo Dieter, è invece “far convivere cooperazione e diversità”. Le classi politiche europee, pertanto, dovrebbero trovare i modi per consentire ai singoli Paesi di conciliare le proprie politiche nazionali senza sacrificare il processo d’integrazione sul piano economico, nella certezza che, non sciogliendo questo “nodo”, l’Unione Europea non ha futuro; come dire, in termini ossimorici, che senza l’”unità nella diversità” delle singole realtà nazionali, non ha senso parlare di unificazione politica dell’Europa.
In conclusione, tenuto conto che, dopo le ultime elezioni, alle forze politiche tedesche si è aggiunto un partito euroscettico come “Alternative für Deutschland”, entrato nelle assemblee locali di molti länder tedeschi, e che l’euroscetticismo è portato avanti anche da “Die Linke”, legata a Oskar Lafontaine, e che infine contro il progetto europeo, sul piano economico, si sono schierati, oltre a Dieter, anche molti altri economisti tedeschi (Hans Werner Sinn, Cristoph Schmidt, Marcel Fratzscher, Jürgen Stark e altri), appare chiaro come il problema dell’unificazione europea sia per la Germania ormai quasi l’ultimo dei suoi pensieri.