La giornata della memoria, etica della responsabilità e indifferenza

1 Febbraio 2019
[Gianfranca Fois]

E ancora una volta il 27 gennaio, giornata della memoria, porta con sé dubbi, riflessioni, ricordi, memorie.

Nella nostra società, schiacciata ormai sul presente, diventa sempre più difficile coltivare la memoria anche del passato recente. Non stupisce perciò che, secondo una ricerca della Cnn fra settembre e ottobre 2018, un terzo dei cittadini di sette paesi europei sa poco o nulla della Shoah. Negli USA, secondo il New York Times, il 41% dei giovani nati all’inizio del 2000 ignora lo sterminio degli Ebrei ad opera del nazismo e addirittura il 66% non sa cosa sia Auschwitz.

Secondo un sondaggio IPSOS inoltre ben il 44% degli Italiani esprime ancor oggi idee antisemite. Il numero comprende sia antisemiti dichiarati sia persone che professano luoghi comuni della propaganda antisemita e che dimostrano chiaramente di non conoscere alcunchè della situazione degli Ebrei in Italia oggi e nel nostro passato storico. Ad esempio, il loro contributo al Risorgimento, alle guerre mondiali, alla Resistenza.

Quindi ha ragione Todorov, nella prefazione al libro di Primo Levi “I sommersi e i salvati”, quando parlando degli aguzzini, dei torturatori nazisti e dei loro complici ci dice che non sono mostri, sono esseri umani tristemente ordinari, uomini qualsiasi, trasformati soltanto dalle circostanze…Il motivo della loro decadenza non è la loro natura, è piuttosto l’essere stati educati male. E questa educazione è da intendere nel suo significato più ampio, quindi oltre la scuola, anche la famiglia, i media e le istituzioni.

E l’ignoranza, nel senso di non conoscere, produce i risultati di cui sopra. Perché in tutti questi anni troppo spesso il giorno della memoria ha significato ritualità insignificanti, spesso ridondanza in certi atteggiamenti di uomini politici ma non si è trattato di memoria. La memoria ha un senso se siamo in grado di interpretare quanto succede intorno a noi, se riusciamo a cogliere e a denunciare con forza le ingiustizie, il razzismo, gli atteggiamenti violenti e fascisti.

Non basta conoscere il male, ci dice Levi, e ricordarlo perché non si ripeta, bisogna anche indagarlo con la ragione per interpretarlo e coglierne i segnali nella nostra società. Questo compito che avrebbe potuto costituire una guida per i cittadini è stato invece in gran parte eluso dalla scuola, dalla famiglia, dai media, dalla politica. Anzi oggi assistiamo a discorsi di leader politici che riprendono quelli fascisti e nazisti e approfittano della mancanza di conoscenze e di consapevolezza critica di molti per istigare all’odio del diverso, alla criminalizzazione di pratiche di solidarietà, a scelte di parole ed espressioni che tendono a ridurre quelli che considerano gli avversari a cose, non più persone.

Ma anche i media e la cultura non sono senza colpe. Basti pensare ad esempio al processo di banalizzazione di Anna Frank, e del suo diario, e della foto del ragazzino catturato a Varsavia durante un rastrellamento nel ghetto. Banalizzazione con effetti consolatori e deresponsabilizzanti perché, come dice Levi, il ricordo più volte ripetuto può diventare stereotipo.

In questo quadro abbastanza fosco esistono però persone, gruppi, istituzioni che portano avanti percorsi di conoscenza e sensibilizzazione. A Cagliari ad esempio la facoltà di Studi Umanistici è impegnata da anni in un lavoro certosino, un work in progress l’ha definito il professor Natoli il maggior responsabile di questo lavoro, di approfondimento e discussione di un aspetto, di una componente dello sterminio, ogni anno diversi.

Quest’anno il tema è stato Il fascismo contro gli Ebrei e Le leggi razziali e la società italiana. Soprattutto il secondo tema è certamente di stretta attualità, atteggiamenti di indifferenza e apatia di ieri verso l’isolamento e lo sterminio degli Ebrei additati come inferiori, così come di oggi per le leggi, la violenza e i soprusi nei confronti dei migranti.

Le leggi razziali del 1938 non furono un momento improvviso nella nostra storia. Come è stato ricordato c’erano già state avvisaglie che avrebbero dovuto mettere in guardia ma non furono recepite. Ciò che comunque colpisce maggiormente è il fatto che, dopo la caduta del fascismo, l’indifferenza e la deresponsabilità continuarono anche da parte dello stato ancora per molti anni. Dura e sfiancante è stata la lotta degli Ebrei per cercare di tornare in possesso delle loro proprietà, delle loro case, dei posti di lavoro da cui erano stati cacciati e perché venisse loro riconosciuto lo status di perseguitati.

Certamente non ha aiutato il fatto che l’Italia non ha mai fatto i conti col proprio passato fascista, con la sua responsabilità nella persecuzione e sterminio degli Ebrei, a vari livelli, come istituzioni, come singoli cittadini, come persone comuni che con la loro attività soprattutto di burocrati, di impiegati hanno fatto in modo da rendere impossibile per gli Ebrei la vita in Italia e hanno organizzato o eseguito il loro invio nei campi di concentramento e di sterminio.

Insomma, non è successo quanto accaduto invece in Germania a partire soprattutto dagli anni sessanta col famoso processo Auschwitz allorché i tedeschi, pur tra diverse contraddizioni, hanno dovuto riconoscere le loro colpe. Il commediografo Peter Weiss scrisse allora L’Istruttoria, oratorio in undici canti, “nel quale non è passata una parola che non sia stata pronunciata nell’aula del Tribunale” di Francoforte dove si svolse il processo.

Il momento più alto di questa presa di coscienza è stato quando il primo ministro Brandt, che durante il nazismo si trovava in esilio all’estero a causa della sua avversione al regime, si è inginocchiato là dove sorgeva il ghetto di Varsavia e ha chiesto scusa a nome del popolo tedesco. Un’etica della responsabilità che l’Italia non conosce.

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