La memoria di Bettina
1 Luglio 2013Silvana Bartoli
Bettina Brentano nasce a Francoforte il 4 aprile 1785. Il padre è un ricchissimo commerciante di origini italiane, con interessi a Milano, Tremezzo e Novara, dove nel 1780 acquista un pied-à-terre, Casa Brentani appunto.
Rimasta orfana, Bettina viene accolta dalla nonna a Offenbach dove riceve un’educazione cosmopolita. S’interessa alla rivolta dei tessitori della Slesia, legge la rivista Atheanaeum e la Princesse de Clèves, tradotta da Sophie Mereau che diventerà sua cognata.
Nel 1806 muore suicida Karoline von Günderode, l’amica amatissima alla quale dedicherà un romanzo.
Cinque anni dopo sposa Achim von Arnim, hanno quattro figli e tre figlie. Alla nascita del primo, i fratelli Grimm dedicano alla neo-mamma le Fiabe che stanno pubblicando. Lei apprezza anche il libro appena uscito di Mme de Staël, De l’Allemagne e si avvicina al socialismo utopistico di Saint-Simon; frequenta il salotto di Rahel Levin Varnhagen e la assisterà durante la lunga malattia.
Nel 1831 a Berlino scoppia il colera: mentre amici e parenti abbandonano la città rifugiandosi nelle ville di campagna, Bettina ritiene sia un dovere dei più fortunati soccorrere i miseri e si occupa di portare abiti e medicine nel quartiere più colpito.
Nello stesso anno viene annientata l’insurrezione polacca e Bettina difende i diritti degli insorti. Rimasta vedova inizia a pubblicare tutte le opere del marito; l’anno dopo muore Goethe che aveva incontrato per la prima volta nel 1807 ma che conosceva bene da quando era innamorato di sua madre e amico di sua nonna; a queste perdite si aggiunge la morte di un figlio, annegato a diciotto anni.
I fratelli Grimm vengono licenziati dall’insegnamento perché rifiutano di dichiararsi “servi del re”; Bettina intercede presso il sovrano e riesce a farli reintegrare; l’anno dopo, sarà sempre lei a scrivere una lettera in difesa del direttore d’opera Gaspare Spontini accusato di lesa maestà.
Nel 1845 pubblica un libro denuncia sulle condizioni dei poveri berlinesi; pubblica un appello sui giornali per avere altro materiale utile alla sua inchiesta e viene accusata di essere una cospiratrice.
L’esercito prussiano annienta brutalmente la rivolta per il pane; il 21 aprile 1847 a Berlino la popolazione saccheggia mercati e negozi per rubare le patate che costano troppo; Bettina difende i poveri e il 21 agosto viene processata e condannata a due mesi di prigione.
Marzo 1848: rivoluzione a Berlino; il re è costretto a inchinarsi davanti ai morti sulle barricate e Bettina descrive il contributo del proletariato alla lotta.
Continua a raccontare le condizioni dei lavoratori nelle campagne e nelle tessiture.
Muore nel 1859, dopo la pubblicazione, in 11 volumi, di tutte le sue opere complete: aveva trovato anche il tempo di curare le lettere di Goethe per il quale aveva provato un’ammirazione tale che la spingeva a voler lasciare il meglio del loro rapporto, ripulirlo di tutte le scorie che la distanza, di età e di sensibilità, poteva avervi depositato.
Ho voluto ripercorrere, il più velocemente possibile, la biografia di Bettina densa di avvenimenti, di impegni, di dolori: le passioni politiche e letterarie l’hanno aiutata ogni volta a uscire dal lutto, eppure uno scrittore del nostro tempo parla di lei come di un’eccentrica romantica, un’eterna bambina dissennata che aveva in mente solo la gloria e si innamorò di Goethe per garantirsi un po’ di immortalità.
Anzi, scrive Kundera, non era affatto innamorata, lo circuì perché solo nel raggio di luce del grand’uomo lei avrebbe potuto conquistare un pezzetto di gloria.
Che Bettina avesse sette (7 !) tra figli e figlie è cosa che Kundera non considera; che Bettina avesse affrontato un processo pubblico per difendere gli ultimi, è dettaglio irrilevante.
Per l’intellettuale Kundera lo scandalo è che una donna pensi e osi programmare una memoria futura anche per sé. Ed è talmente indispettito dal fatto che avesse delle ambizioni oltre il ricamo e la cucina, da fare a pezzi la vita di Bettina per concentrarsi solo su quei segmenti, non molti e non molto lunghi, dedicati a Goethe, il quale aveva l’imbarazzo della scelta tra le compagnie femminili: infatti, anche dopo aver sposato la rotonda Christiane, continuò a far vita da scapolo, genio e seduttore, senza porsi alcun problema.
Il ritratto velenoso tracciato da Kundera forse può essere spiegato leggendo quel che di Bettina dice Georg Simmel: la considera un’eccezione, come donna e come scrittrice. Non imitò gli uomini né si mise al loro servizio come musa, fu un’artista capace di indagare il “sentimento di estraneità a se stessi” ma non ebbe mai l’ambizione servile di scrivere come un uomo. Seppe usare magistralmente la retorica della debolezza presentandosi come una “bambina” per affacciarsi al mondo della cultura e della politica, tradizionalmente riserve di caccia maschili.
Ma Kundera la definisce un’ambiziosa schizzata che ha in mente solo di apparire. Per quanto nato nel XX secolo, egli sembra perfettamente allineato con Tucidide: il pregio maggiore di una donna è che di lei non si parli, né per cattive né per buone ragioni.
Non so quale sia la sua religione ma può essere arruolato ad honorem nella congrega dei mulieres taceant in ecclesia, le donne non parlino in pubblico: il sogno di tutti gli integralisti.
Abbiamo alle spalle secoli di uomini violenti osannati come leader volitivi e carismatici; di maniaci sessuali descritti come affascinanti seduttori; di isterici e ipocondriaci venerati come santi; tutti messi sull’altare dell’ammirazione, dovuta a prescindere.
Kundera, quando parla d’immortalità, riesce solo a usare la parola “uomo”, le donne non meritano memoria, e dall’alto del suo genio maschile trafigge la donna che nutriva l’ambizione di essere ricordata. Che orrore! Invece di accontentarsi di essere “la moglie di”, “la sorella di”.
Sembra di sentire la voce di quegli uomini di scienza che ancora per tutto il Seicento si chiedevano seriamente se le donne avessero un’anima, e non si può dire che fosse (sia) un meccanismo legato ad ambienti culturalmente deprivati. Quando smetteremo di prendere sul serio simili “maestri”?
È così naturale voler costruire, fin che si è a tempo, l’immagine di sé con la quale essere ricordati, ma questo deve valere solo al maschile; è impossibile perdonare a Bettina l’ambizione a superare i limiti del “femmineo sesso”: limiti alla cultura, all’istruzione, alla lettura, alla comprensione, alla scienza, alla partecipazione politica e religiosa, alla parola.
L’ambizione infatti è il peggior peccato in una donna perché la induce ad uscire dal “suo posto”, dal posto che altri hanno stabilito per lei.
Dispiace constatarlo ma per molti uomini il posto delle donne è ancora in bilico tra obbedienza e silenzio, e quel che è più grave è che molte donne si sentono gratificate dal ruolo di suddite concesso loro dall’onnipotente di turno: che abiti in Vaticano o ad Arcore non fa differenza.
1 Luglio 2013 alle 16:52
Non leggo romanzi e quindi non mi esprimo neanche sull’uomo Kundera che conosco soltanto perché abbondantemente citato dalla stampa quotidiana che leggo. Quanto scrive Silvana Bartoli però mi sembra attendibile e condivisibile