La mia Professoressa
16 Giugno 2015Pietro Ratto
Ho frequentato il Liceo scientifico Galileo Ferraris di Torino, da ragazzo. Mia madre aveva scelto il Galfer perché passava per uno degli istituti più “duri” della città. La logica delle madri di trent’anni fa, come si può notare, era letteralmente capovolta rispetto a quella dei genitori di adesso.
Ho affrontato quegli anni di studio con un mix di senso del dovere, timore reverenziale nei confronti dei docenti, sano orgoglio nel constatare di riuscire a farcela, dopotutto. Alla fine del secondo anno ero ormai tranquillo, seduto sugli allori, con il diario imbottito di bei voti. Tra i quali spiccava, fulgido, un nove di matematica.
Dall’inizio della terza liceo, improvvisamente, tutto cambiò. La nuova insegnante di matematica, severissima e intransigente, cominciò a seminare il panico fin dalla sua comparsa. Il primo compito in classe fu una tragedia, pieno zeppo di formule mai viste, di problemi la cui soluzione pareva impossibile. Che la tipa si fosse sbagliata? Che avesse confuso le carte propinandoci una verifica adatta a una quarta? Qualcuno osò alzare la mano, facendo presente la cosa. La sconcertante risposta ci spinse nella più nera disperazione: “Quello che avete di fronte è esattamente il vostro compito. Non intendo umiliarvi chiedendovi ciò che già sapete. Dovete imparare a ragionare, confrontarvi con problemi sempre nuovi. Mai buttare il cervello all’ammasso, ragazzi”.
Risultato? Quattro e mezzo. Un quattro e mezzo da portare a casa, da far firmare a genitori increduli e viziati, abituati a sfilze di nove. Fu un disastro, puntualmente bissato – per giunta – da un identico voto riportato con la seconda verifica. Cominciò la processione delle mamme a colloquio, qualcuna si limitò a chiedere spiegazioni, qualcun’altra provò a fare la voce grossa. Nulla cambiò, però, nell’atteggiamento di quella terribile e risoluta donnina.
Ci credete? Fu Darwin a salvarmi. Il buon vecchio Darwin. Fu lui a prendere il controllo delle labbra dell’insegnante di Scienze, suggerendomi la chiave del problema. Adattamento! Chi si adatta al nuovo si salva, chi resta aggrappato al vecchio soccombe. Bisognava cambiare, bisognava lottare. “Non buttare il cervello all’ammasso, Pietro”, cominciai a dirmi.
Il compito in classe successivo ebbe il sapore di una battaglia campale. Mi presentai a scuola con un vagone di adrenalina, giurai a me stesso che avrei risolto qualsiasi problema mi avesse posato sul banco quella terribile, piccola donna. Lottai due ore col mio cervello viziato e presuntuoso. E ne uscii, portando a casa un sei e mezzo. Avevo imparato la lezione. Avevo vinto, riportando un successo tutto mio!
Recentemente ho incontrato per caso quella insegnante, che così tanto avevo creduto di odiare a sedici anni, e che con mille altre prove ci aveva perseguitati fino alla maturità. Ho rivisto la vecchietta che, come l’allenatore coi suoi atleti, davanti alla Commissione d’Esame aveva saputo schierare una ventina di lottatori dal cervello agile e pronto a tutto. L’ho riconosciuta in mezzo alla folla e l’ho abbracciata, come fosse una madre.
Grazie a quella terribile donna, da quell’anno in poi, ho continuato ad affrontare la vita sapendo che nulla è scontato, che non si è mai preparati di fronte ai veri problemi. Grazie a lei oggi so che l’unica arma che mi porto sempre dietro, e su cui posso continuamente fare affidamento, è il ragionamento. So che bisogna sempre lottare, e che bisogna farlo senza spaventarsi mai. Prender tempo, aprirsi al nuovo problema, studiarlo con attenzione, e poi… andare a segno!
In poche parole? Non buttare mai il cervello all’ammasso. E’ inutile: a quei tempi ci si fidava. Altro che trasparenza, altro che Patti educativi.. Non ce n’era mica bisogno! Noi studenti ci fidavamo del professore, certi che sapesse il fatto suo. Sotto sotto, pensavamo, se ci maltratta un pochino un motivo ci sarà. Un po’ come l’allenatore che strapazza il suo atleta, sì.. Ma per farne un campione.
Ci fidavamo, punto e basta. Si fidavano gli insegnanti, che non vivevano nell’ansia da ricorso. Si fidavano i genitori, che quando portavi a casa un votaccio sgridavano te, mica il professore. Non era ancora iniziata quella nefasta campagna diffamatoria nei confronti dei docenti i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. Certo, fidarsi troppo può risultar pericoloso. Ma questo mondo che è diventato tutta una corsa a fregarsi l’un l’altro, non è forse l’effetto di un’educazione che insegna proprio a non fidarsi di nessuno e che la truffa, ormai, la dà per scontata? Non è forse il risultato di una didattica che ha definitivamente abdicato alla sua funzione educativa in nome di un saper fare che altro non è se non un saper far soldi? In quale vortice senza fine siamo finiti, con tutto questo nostro non fidarci?
Non buttare mai il cervello all’ammasso… Tutti i giorni, a scuola, lotto per passare il testimone, convinto che questa sacra missione sia sempre più importante, al nostro tempo. Tutti i giorni, però, mi scontro con una didattica che impone a tutti i docenti uguali strategie, uguali metodologie, uguali criteri di valutazione… Come se i ragazzi dovessero avere a che fare con una persona sola. Una specie di gigantesca, onnipresente maestra, che cambia faccia ogni ora ma che risponde meccanicamente alle sollecitazioni sempre nello stesso prevedibile modo. Tutti i giorni mi aggiro in una scuola che semplifica il più possibile la vita ai ragazzi. Che sventola i loro diritti e tralascia ogni loro dovere. Che obbliga i docenti a fissare con precisione date e contenuti delle verifiche; che tutto lascia correre per evitare polemiche, ricorsi, perdite di tempo e denaro. Tutelare la serenità dei ragazzi. Non caricarli di lavoro, non traumatizzarli con domande difficili, non fissare più di una verifica al giorno… Nei corridoi vengo spesso rincorso da colleghe mammone, sempre aggiornate sui gravi problemi familiari di chi va a male a scuola, di chi va quindi aiutato. Ma il poverino ha i genitori divorziati…!
Cumuli di moduli per il recupero delle insufficienze, chilometri di griglie di valutazione, quintali di ore di riunioni di Dipartimento… Tutto con l’ipocrita pretesa di operare con oggettività, di attuare una valutazione asettica, standardizzata. Tutto per non turbare l’ebete serenità di questi bambinoni, per assicurare loro, in classe, quella vita facile così lontana da ciò che li aspetta realmente, fuori di qui. E per il quieto vivere di noi docenti-impiegati, naturalmente. Evitando il rischio che qualche genitore inviperito ci possa aggredire o denunciare per un quattro finito sul diario del suo bambino.
Nella mia mente, però, una convinzione resta. E la confesso volentieri, un po’ sottovoce…
Nessun insegnante mi ha mai voluto così bene come la mia terribile professoressa di matematica.
Dalla Bottega del Barbieri