La nakba. Dalla catastrofe, al ritorno

16 Maggio 2016
nakba 66 ans
Omar Suboh

La nakba, la catastrofe per il popolo palestinese, è l’espressione canonica utilizzata, stando alle parole di David Ben Gurion, per indicare «il trasferimento forzato» dei civili palestinesi dalle proprie case e dai propri villaggi per far posto alla nascita dello stato di Israele, il 14 maggio del 1948.

Ovvero, l’espulsione sistematica e l’uccisione pianificata della popolazione autoctona della Palestina storica. La sua pulizia etnica. In quella data centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti ad abbandonare la propria terra per sfuggire all’avanzata dell’esercito sionista e dei suoi gruppi paramilitari. Ben 750.000 furono da lì a poco considerati come apolidi, finendo per ammassarsi nei campi profughi sparsi per l’intera Palestina e nei paesi vicini, tra cui il Libano.

In realtà le operazioni contro i civili palestinesi non si esauriscono ai mesi precedenti la fondazione dello stato di Israele. Nel 1947 l’organizzazione paramilitare sionista Haganà condusse vaste operazioni contro i villaggi palestinesi, penso al villaggio di 500 abitanti di Deir Ayyub, il quale appena inaugurata la costruzione di una nuova scuola (51 era il numero dei suoi studenti), furono sorpresi dall’invasione di venti soldati ebrei che spararono contro le case degli abitanti, sino alla sua completa evacuazione e distruzione nell’aprile del 1948.

Khissas, piccolo villaggio abitato da alcune centinaia di musulmani e da cento cristiani, che convivevano pacificamente tra di loro, vennero attaccati il 18 dicembre del 1947. Persero la vita quindici persone, tra le quali cinque bambini. La politica di Ben Gurion, alla guida del movimento sionista, fu determinante a imprimere una svolta alle operazioni di pulizia etnica contro i palestinesi. Furono seguiti due diversi piani per acquisire il controllo della Palestina: l’occupazione militare da una parte, dall’altra quella “legale”, attraverso il consenso della comunità internazionale, come ben documentato nel libro Palestina ai Palestinesi di Fabio Beltrame (Prospettiva Edizioni).

All’indomani della votazione alle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 per il piano di spartizione della Palestina storica, che sostanzialmente consegnava al futuro stato israeliano oltre il 56% della Palestina, e il restante allo stato “arabo” secondo la risoluzione numero 181, l’Haganà decide di compiere una indicativa “dimostrazione di forza”: vennero simultaneamente effettuati decine di attacchi contro le città e i villaggi ubicati nelle zone assegnate dal Piano di Spartizione allo Stato Ebraico. Dall’11 dicembre del 1947, oltre gli attacchi ai villaggi citati in precedenza, venne colpito il villaggio di Qazaza (940 abitanti). Moriranno 5 bambini.

Le incursioni si allargano, il 30 dicembre è la volta di Haifa: una squadra dell’Irgun Zvai Leumi, ennesima organizzazione paramilitare sionista, capeggiata da Menachem Begin (futuro primo ministro israeliano), lancia degli ordigni contro un gruppo di palestinesi nella raffineria di petrolio causando 7 morti e 41 feriti. Nel massacro alla raffineria non rimasero uccisi solo palestinesi, di cui i morti furono complessivamente 41, ma la stessa sorte colpì anche 19 operai ebrei. Il 5 gennaio 1948 è già in atto l’operazione per ottenere la separazione tra una Gerusalemme Ovest, tutta ebraica, e una Gerusalemme Est araba.

L’impazienza di Ben Gurion di sferrare un attacco più duro trova riscontro nei suoi diari, dove è possibile leggere della soddisfazione che si trova ora entrando a Gerusalemme, una città che «non è mai stata così ebraica come lo è oggi» dai tempi dei Romani. Inoltre, prosegue nei diari, «in molti quartieri arabi nella zona ovest non si vede più un solo arabo[…] e ciò che è avvenuto a Gerusalemme e a Haifa può accadere anche in ampie zone del paese». E’ quello che avverrà.

Nel suo diario affermava «il bisogno di una reazione forte e brutale», perché «se accusiamo una famiglia, dobbiamo colpire tutti senza pietà, comprese le donne e i bambini». Di fronte a quello che Ben Gurion definiva come “secondo Olocausto” per le vittime ebraiche, e alcuni poeti nazionali identificavano come un nuovo conflitto contro i nazisti, ma rappresentati questa volta dagli arabi, nel febbraio del ’48 l’operazione subisce un incremento attraverso il supporto derivato dall’acquisto di nuovi armi, che consentirono di estendere le operazioni via terra.

Dal 13 febbraio vennero selezionate alcune case di Giaffa e fatte saltare in aria con le persone al loro interno. Il 15 febbraio venne attaccato il villaggio di Qisarya, con una popolazione di 1500 abitanti: fu il primo villaggio a essere completamente sgombrato. Nella stessa data, un terzo villaggio viene colpito: è il villaggio di Sa’sa. L’Haganà fa saltare con la dinamite 20 case e uccide 60 abitanti, la cui maggioranza sono bambini. Al posto del villaggio sorgerà il kibbutz Sassa. Le incursioni procedono senza sosta: il 2 marzo la popolazione palestinese di al-Manara è costretta ad abbandonare il villaggio, vengono distrutte abitazioni, vengono uccisi i suoi abitanti.

Il villaggio vicino di Nasri al-Din verrà completamente distrutto: dei 90 abitanti riescono a fuggire in 40, gli altri vengono ammazzati e tutte le case fatte saltare in aria con la dinamite. E’ l’anticamera della catastrofe. Il preludio all’Apocalisse. Il massacro di Deir Yassin, alle porte di Gerusalemme, compiuto il 9 aprile 1948 è brutale. Le squadre dell’Irgun di Begin e della Banda Stern di Yitzhak Shamir, entrano all’alba attaccando il villaggio e assassinando i suoi abitanti, donne e bambini non fa differenza.

Rastrellamenti casa per casa, decine di cadaveri gettati nel pozzo della piazza vicino. 250 le vittime. I pochi superstiti catturati, 25 persona tra anziani e bambini, caricati su 3 camion e condotti in una marcia trionfale per le strade dei quartieri ebraici, alla periferia ovest di Gerusalemme. Verranno uccisi poco dopo. E’ l’occupazione di Deir Yassin: oggi “è un elegante sobborgo di Gerusalemme, abitato esclusivamente da ebrei”. Sopravvive una testimonianza indicativa di quel massacro, è di Fahmi Zidan, allora bambino. Racconta di come la sua famiglia venne messa in fila contro il muro dai soldati: vennero uccisi tutti.

Come ben documentato nella voluminosa raccolta Palestina. Pulizia etnica e resistenza (Zambon editore), uscita nella raccolta “crimini contro l’umanità”, la caduta di Haifa, ai fini della ricostruzione storica della progressiva avanzata sionista e dell’uso del terrorismo, non solo praticato attraverso l’uso di armamenti mai visti prima (penso a un particolare mortaio chiamato Davidka, lanciava proiettili da 60 libbre, con alte percentuali di esplosivo) ma attraverso l’uso della guerra psicologica contro la popolazione civile. Nel caso della caduta di Haifa, si racconta di come l’esercito applicasse sistemi per diffondere panico indotto nella popolazione, attraverso delle jeep munite di altoparlanti che trasmettevano registrazioni di “suoni terrificanti”, di grida, lamenti, pianti ecc. L’effetto determinante per creare ulteriore agitazione, fu trasmesso dalle recenti notizie provenienti da Deir Yassin, e in seguito all’attentato presso la raffineria di Haifa, la tensione veniva alimentata quotidianamente.

Per comprendere il clima generale restano esemplificativi in questo senso i diari di Ben Gurion, il quale annota il 1 maggio del 1948, come dal recente bombardamento del 22 aprile, dai 25-30 mila arabi nella città, ad Haifa, ne rimasero solo 6 mila. La conseguenza di questa enorme violenza, oltre le vittime citate, la “diaspora palestinese”, con il suo enorme flusso di profughi sparsi, la distruzione complessiva di 400 villaggi, fu che già prima del 15 maggio 1948, oltre la metà della popolazione palestinese era stata cacciata fuori dalla Palestina e le forze armate sioniste avevano occupato militarmente i territori di due dei tre settori assegnati dal Piano di Spartizione allo Stato Ebraico, attraverso la supervisione del governo britannico. Se come scrive Mahmoud Darwish «l’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante», oggi in Palestina l’arte rappresenta uno dei metodi migliori per Resistere.

Come documentato nel libro Buongiorno Palestina di Fiamma Arditi (Fazi Editore), la musica (“il rap come forma di resistenza all’occupazione” del rapper di Gaza Muhammad Mughrabi, o l’Edward Said National Conservatory of Music), la pittura (Khaled Hourani, pittore, nel 2011 riuscì a portare a Ramallah per l’esposizione l’opera Busto di donna di Picasso, o il pittore Mohammed Al Hawajri di Gaza e le sue esposizioni in giro per il mondo), il teatro (esemplare il caso del The Freedom Theatre del campo profughi di Jenin).

L’attore Ismail Khalidi ha riadattato il testo del grande scrittore palestinese Ghassan Kanafani, Ritorno ad Haifa. La vicenda narra della storia di una coppia di mezza età che successivamente alla guerra dei sei giorni del 1967, tornati ad Haifa, teatro della catastrofe palestinese, non avevano abbandonato solo la casa, ma anche un figlio appena nato, che fu adottato da una coppia di ebrei sopravvissuti all’Olocausto. La tensione del dramma esplode nel finale, quando la coppia scopre che il figlio abbandonato si è arruolato nell’esercito di Israele.

Kanafani è in grado di restituirci la sensibilità e la compassione di questo popolo straordinario, che di fronte alla tragedia si sforza di comprendere le ragioni dell’altro, di mettersi nei suoi panni, nonostante tutto. Vogliamo concludere così, con la speranza che un giorno il diritto al ritorno, possa essere restituito a tutti.

1 Commento a “La nakba. Dalla catastrofe, al ritorno”

  1. Franco Isman scrive:

    La mia posizione nei confronti dell’attuale situazione nei territori occupati della Cisgiordania è assolutamente a favore dei palestinesi, come ho espresso in una serie di articoli su arengario.net, anche a seguito di un viaggio con Assopace Palestina dello scorso agosto.
    Condivido anche gran parte dell’articolo ma sono molto critico che nella lunga esposizione, si accenni soltanto vagamente e in modo critico alla deliberazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite n. 182 che nel 1947 sanciva la costituzione su parte della Palestina storica (cioè senza considerare la Transgiordania) di uno stato arabo ed uno ebraico, approvata con 33 voti a favore (fra cui Stati Uniti e Unione Sovietica), 13 contrari e 10 astenuti.
    Nulla si dice del fatto che lo stesso giorno della proclamazione dello stato di Israele (14 maggio 1948) gli stati arabi, confinanti e non, Egitto, Transgiordania, Siria, Iraq e Libano attaccarono il neonato stato con l’espresso intento di buttare a mare gli ebrei; il segretario generale della Lega Araba Azzam Pasha aveva addirittura dichiarato: “Questa guerra sarà una guerra di sterminio, e avrà proporzioni tali che se ne parlerà come dei massacri mongoli sui crociati”. Ma Israele ebbe la meglio sugli eserciti arabi e nel 1949 si arrivò ad un armistizio.
    Se 750.000 sono stati i profughi palestinesi, praticamente cacciati dalle loro terre, quasi altrettanti furono gli ebrei espulsi dagli stati arabi.
    La storia non si fa con i se e con i ma, d’altra parte è indubitabile che se i palestinesi avessero accettato la decisione dell’ONU avrebbero avuto il loro stato fin dal 1948. E un po’ di obiettività sarebbe opportuna.

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