La notte della Luna
16 Luglio 2009Sante Maurizi
Due frasi incorniciano l’epopea dello sbarco sulla Luna, il 20 luglio di quarant’anni fa. Ancora ci si chiede se quella del comandante Neil Armstrong ballonzolante sulla superficie lunare («un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità») fosse improvvisata o studiata a tavolino dagli esperti comunicatori della Nasa. L’altra è tratta da un discorso del presidente Kennedy al Congresso: «Sono convinto che questa nazione debba impegnarsi per riuscire, entro la fine del decennio, a fare atterrare un uomo sulla Luna e a riportarlo indenne a terra». Era il maggio del 1961, e a guardare le date non solo ci si stupisce di come gli Usa riuscirono a onorare le promesse del «più sopravvalutato presidente del novecento», per dirla con lo storico Hobsbawm. Ci si rende conto di come lo spazio sia stato il campo di battaglia più spettacolare della guerra fredda.
Le umiliazioni inflitte dai sovietici a partire dal primo satellite, lo Sputnik, messo in orbita nel 1957, si erano succedute fino al primo volo umano nello spazio, quello di Gagarin del 12 aprile 1961: solo cinque giorni prima del disastroso sbarco nella baia dei Porci a Cuba di una forza paramilitare di 1500 esuli appoggiati dalla Cia con l’obiettivo di rovesciare Fidel Castro. L’operazione di respingimento – 234 fra morti e dispersi nel fronte controrivoluzionario – aveva screditato l’amministrazione Usa e avviato un’escalation culminata nell’ottobre 1962 nell’installazione delle testate nucleari russe nell’isola caraibica.
E missili e tecnologia militare sarebbero stati alla base del programma Apollo, dio protettore delle colonie e dei pionieri, e acronimo di America’s Program for Orbital and Lunar Landing Operations. Gli astronauti selezionati erano tutti piloti collaudatori, quasi tutti militari. Dodici di essi avrebbero passeggiato sulla luna collocandovi targhe commemorative che parlavano di pace e umanità mentre i loro colleghi sganciavano napalm sui bambini vietnamiti. Miserie umane, logiche imperialiste, audacia e ragion di stato che trovarono sintesi nel deus ex machina del programma spaziale: Wernher Von Braun, ufficiale delle SS, ideatore dei missili V2 sganciati su Londra e costruiti sottoterra da migliaia di prigionieri tenuti in schiavitù. Il programma sarebbe costato alla fine tre vite umane – gli astronauti dell’Apollo I carbonizzati sulla rampa di lancio nel gennaio 1967 – e ventiquattro miliardi di dollari dell’epoca (cento odierni), con la Nasa che avrebbe assorbito fino al 5 per cento del bilancio federale. Facendo un po’ di calcoli, ciascun americano per un decennio ha pagato tredici dollari l’anno per lo spettacolo della realizzazione di un sogno millenario. Mettendola così, non è andata poi tanto male pensando ai 57 mila americani morti e ai 156 miliardi di dollari sull’altro fronte tutto terreno della competizione con l’Urss: la guerra persa in Vietnam. Ma c’è anche una terza frase che getta ulteriore luce sulla missione lunare: «Non so se lei si sia spaventato, ma io sì, quando ho visto le fotografie della Terra scattate dalla Luna». Così Martin Heidegger nel 1966 in una famosa intervista a Der Spiegel (pubblicata postuma nel 1976) dopo che una delle sonde lanciate per verificare il luogo adatto allo sbarco sulla luna scattò la prima foto della terra vista dallo spazio. Vero è che quell’immagine di finitudine e le centinaia seguenti modificarono per sempre la percezione di noi stessi: la sensibilità ecologica è cominciata quando ci è apparsa la Terra da lontano, piccola e indifesa nel buio nero del cosmo. Al netto della retorica della frontiera, della determinazione della nazione-guida, degli scopi militari, dei benefici che ci si affannò ad elencare (migliori comunicazioni, migliori previsioni meteorologiche, miniaturizzazione, nuovi materiali) quella di quarant’anni fa fu un’avventura che emozionò il mondo intero in quella diretta che inaugurò l’era dell’homo televisivus planetario. Per la lunga notte della televisione italiana, oltre 25 ore di trasmissione, venne messo su un palinsesto fantastico di film, commenti e collegamenti via satellite che condensava in una notte immaginazione e realtà riepilogando una fase nella quale tutto pareva possibile. Più che l’inizio di un nuova era, il progetto Apollo fu la fine di una corsa iniziata nell’800 e concretizzatasi nel secondo dopoguerra: la velocità era il totem universale, il design industriale prediligeva le forme affusolate, l’aerodinamica faceva parte della quotidianità. I fumetti, la narrativa, il cinema di fantascienza avevano preparato il campo per tre lustri. Con «2001: Odissea nello spazio» Arthur Clarke e Kubrick avevano inoculato inquietudini ben più profonde di quelle riportare sui titoli dei giornali in quel luglio ’69 (i microbi invaderanno la Terra?). I pronostici catastrofici per l’esito della missione si sprecavano: probabilità di successo fra il 50 e il 30 per cento, con un altro 30 per cento di imponderabile. Cifre generose, a leggere oggi quei dati: il calcolatore di bordo del modulo lunare aveva una memoria di 36 k. La sala computer di Houston, quella che controllava la missione da terra, aveva la capacità di calcolo di un telefono cellulare. Il dato che però impressiona maggiormente è l’età dei protagonisti. Il direttore di missione, Gene Krantz, aveva trentacinque anni. La sua squadra, quelle decine di volti incollati ai monitor di Houston che vedevamo durante la diretta, aveva un’età media di ventisei anni. «Tutto quello di cui avevamo bisogno per andare sulla Luna – scrisse Krantz anni dopo – dovevamo crearlo: vedere questa gioia creativa è stato un portento». Jack Schmitt, ultimo a mettere piede sulla Luna con l’Apollo 17, unico scienziato (geologo) dei dodici moonwalker spiegò quella che a noi vegliardi dell’Occidente pare oggi una follia: «la maggioranza dei ventiduenni disseminati nel programma era appena uscita dalle facoltà di ingegneria ed era estremamente fantasiosa. Non sapevano come fallire, non avevano abbastanza esperienza per conoscere il fallimento, così non se ne preoccupavano».Il progetto Apollo terminò quando la capsula della missione numero 17 ammarò, come le altre, nell’Oceano Pacifico. Era il 17 dicembre 1972. Stava montando lo scandalo Watergate, la crisi petrolifera era dietro l’angolo, e l’America e il mondo avevano altro a cui pensare.