La pace

15 Ottobre 2023

 AP Photo/Fatima Shbair, Gaza

[Luana Seddone]

C’erano una volta gli accordi segreti anglo-francesi (Sykes-Picot) del 1916 che prevedevano una spartizione tra le due nazioni europee dell’impero turco. La Francia avrebbe dovuto annettersi la Siria e il Libano, mentre l’Inghilterra avrebbe avuto l’Iraq, la Giordania e la Palestina.

Mentre era ancora in corso la rivolta araba, il premier inglese Balfour, nel 1917, dichiarava che l’Inghilterra avrebbe favorito la fondazione di una homeland ebraica in Palestina, cioè di una entità straniera in una parte di territorio non islamico, a titolo di riconoscimento per l’aiuto prestato alle forze dell’Intesa durante la Prima guerra mondiale. Si riconoscevano così le aspettative del movimento sionista mondiale, già espresse a fine Ottocento dagli stessi ebrei residenti in Europa, al fine di avere un proprio Stato in Palestina.

Alla fine degli anni Venti il paese più importante per gli inglesi era l’Iraq, dove vengono scoperti immensi giacimenti petroliferi nel territorio di Mossul, appartenente ai curdi, ai quali gli Stati europei non vollero mai riconoscere un proprio Stato indipendente. L’Iraq nel 1932 fu accettato come Stato indipendente dalla Società delle Nazioni, anche se l’influenza inglese rimarrà fino al 1958.

In Iran invece nel 1921 un militare nazionalista, Reza Khan, filoccidentale, prese il potere, inaugurando la dinastia Pahlevi, che durerà sino alla rivoluzione islamica di Khomeini del 1979.

Il mandato inglese sulla Transgiordania terminò nel 1946, ma quella era una zona prevalentemente desertica. Gli inglesi invece continuarono a dominare altri Stati arabi del Golfo Persico molto più importanti perché ricchi di petrolio: Oman, Kuwait, Qatar e Barhein.

La Francia rinunciò, certo non spontaneamente, al suo mandato sulla Siria nel 1943, in occasione di libere elezioni. Lo stesso fece, anche qui non senza usare la violenza, in Libano nel 1944.

Assai più complicata fu la situazione palestinese, a causa dell’arrivo in massa degli ebrei, che nel 1925 erano già 122.000 e che in seguito aumenteranno ancora di più a causa della politica antisemita del nazismo.

I primi scontri tra ebrei e palestinesi avvennero nel 1921 e la situazione rimase talmente tesa che gli inglesi pensarono nel 1937 di dividere la Palestina in due Stati autonomi, ma i confini scelti scontentavano tutti. Anche le successive proposte furono respinte.

Nel 1939, a fronte di una popolazione palestinese complessiva di 1.250.000 arabi, gli ebrei avevano già raggiunto il numero di 553.600.

Finita la Seconda guerra mondiale l’Inghilterra chiese all’Onu di risolvere la questione palestinese, il quale nel 1947 decise di istituire due Stati separati e di considerare Gerusalemme città internazionale, essendo qui presenti tre religioni.

Susan Abhulawa racconta di 60 anni di vagare senza patria, Israele si popola di ebrei, diventa una potenza e i palestinesi vagano, si spostano, vengono rinchiusi piano piano in una striscia, sono tanti, poveri, combattono come possono per liberarsi da quell’assedio, lanciano le pietre per difendersi dalle armi, sono musulmani.

Racconta di tre donne, Dalia, Amal e Sara, di tre generazioni differenti e tre diversi punti di vista. Dalia ha vissuto la sua terra durante gli anni migliori e ha visto il mutamento   dell’invasione, si è ritrovata sola e mutilata. Amal cresce con una Jenin ancora in piedi, sogna di laurearsi e trovare l’amore, sua madre, Dalia, è diventata un cadavere che respira perché qualcuno ha rubato il suo amato figlio Isma’il. Amal vede Jenin esplodere e perdere tutto, vede i massacri di sabra e shatila. Sara nasce in America ma si sente straniera, in lei c’è la Ghurba, c’è una nostalgia di tempi mai vissuti, ci sono le sensazioni e i racconti di sua madre Amal di un posto chiamato Palestina ma che tutti chiamano Israele. Lei percorre le strade di Jenin e dei posti limitrofi che sua mamma le ha cantato per tutta la vita e respira risentimento e sofferenza che caratterizzano quei luoghi subendo, sulla sua pelle, le tragedie di milioni di sfollati.

 Abulhawa crea una storia incredibile, sceglie un modo particolare di raccontare israeliani e palestinesi e lo fa lasciando il lettore senza fiato e con uno stupore che non ha eguali. Dalia perde Isma’il in mezzo alla folla, un soldato israeliano trova David, un figlio desiderato e mai arrivato, è quel bambino palestinese che sua mamma ha perso urlando tra la folla “ibni” e si è trasformato in un israeliano, in un ebreo, in un soldato riparatore che tortura palestinesi pensando che siano loro quelli nel torto. Dalia non saprà mai che in realtà suo figlio è vivo ma Amal, sua figlia, conoscerà David e ritroverà Isma’il e allo stesso tempo, i due opposti si congiungeranno fondendosi in un’unica anima.

C’erano una volta tutti coloro che non conoscono la causa palestinese, che non ricordano i massacri, i genocidi, le guerre e le sofferenze di questo popolo stretto nella striscia. Eppure, la parola pace ha un contenuto concreto, permette un accordo tra due contendenti, ristabilisce una tranquillità che è stata incrinata ma presuppone che sia il perdente a chiederla. I palestinesi non si sentono perdenti, gli israeliani vogliono il bellum iustum, come Augusto vogliono la pace delle armi e qualche spirito critico, come Tacito, potrà rilevare che questa pace porta con sé una limitazione della libertà di parola, o farà rilevare da un capo straniero che sotto questo nome pace si nasconde in realtà una politica espansiva e di spoliazione sistematica.

D’altro cantol’Eirene greca; l’ebraica shalom, l’araba sala’am, sono tutte idee che includono il concetto di pace con giustizia, quindi non solo l’assenza della violenza diretta ma anche di quella strutturale.

C’era una volta il secondo dopo guerra quando emersero e si affermarono studi che trovano nella pace il loro principale centro di interesse la peace research.

La pace è intesa come condizione complessa di benessere e di armonia, paragonabile, secondo Galtung, a uno stato di salute e di equilibrio, in cui i sistemi sociali possono funzionare per il superamento delle crisi conflittuali che inevitabilmente si manifestano.

Eppure, si assiste sempre più a un’escalation, un aumento di intensità e violenza. Il conflitto diventa più grande, il numero di attori tende ad aumentare, si sviluppano nuove issues e si investono risorse crescenti. Le strategie e gli strumenti introdotti conoscono a loro volta un crescendo di coercitività.

Si crea un meccanismo di azione-reazione: ci si trova in una sequenza di eventi di cui ognuno è causa dell’altro e viceversa, le percezioni diventano sempre più negative fino a raggiungere la de-umanizzazione, il conflitto viene considerato inevitabile.

Come dice Luois Kriesberg bisognerebbe ricercare la presenza di elementi non conflittuali nel conflitto, de-costruire le parti antagoniste in insieme mai totalmente omogenei, aprendo

la via a quelle riflessioni che invitano a ricercare all’interno di ogni gruppo i potenziali di pace, le cosiddette peace constituencies, cioè reti di persone, i loro rapporti, che possono corroborare l’azione pacificatrice di una parte terza o mettere in moto, in maniera autonoma, un processo di pacificazione.

Nella guerra l’annientamento per essere totale deve colpire anche l’aspetto morale per evitare tentativi di ripresa. La morte dell’anima e l’annientamento psicologico passano anche attraverso strumenti di violenza fisica (stupri, mutilazioni e torture), la volontà di annientamento del nemico non è più legata ad un concetto di costi e benefici, ma è un fine da perseguire.

Galtung per primo operò la distinzione tra pace negativa e pace positiva prendendo in prestito dalla medicina tale similitudine e dall’induismo due termini chiave: dukkha e sukha; il primo è uno stato negativo, di sofferenza di violenza/malattia mentre il secondo è uno stato di completa felicità di pace/salute al quale naturalmente il nostro organismo tende.

 L’unica possibilità sarà quella del gioco a somma positiva (win or win), in cui tutti gli attori guadagnano qualcosa. I risultati raggiunti tra le due parti in modo collaborativo porteranno ad una pace di maggiore durata e stabilità. Un proverbio ebraico dice: Una pace cattiva è meglio di una guerra buona.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI