La Palestina non è scomparsa
16 Maggio 2016Anna Maria Brancato
Sono passati 68 anni dalla Nakba palestinese, eppure ancora risulta difficile commemorare l’evento come qualcosa di pienamente concluso e appartenente al passato. La Nakba per i palestinesi è, infatti, vita quotidiana.
Non è sicuramente questa la sede per elencare le continue demolizioni di abitazioni, le confische dei terreni, i continui bombardamenti su Gaza, le detenzioni arbitrarie anche di minori, le violazioni dei più elementari diritti alla vita, le esecuzioni sommarie ai check point, le centinaia di vittime del massacro che continua ininterrottamente da ottobre 2015 fino a oggi…
Ecco, forse non è il caso di elencare tutto ciò, ma è esattamente questo a fornirci la misura di come la Nakba (o catastrofe, in arabo) sia tutt’oggi in corso.
Dopo 68 anni è lecito quindi domandarsi che senso abbia commemorare questa giornata, se nulla è cambiato ed è necessario rivestire la Nakba di sempre nuovi e più profondi significati, prima di tutto storici.
Ricordare la Nakba oggi è reclamare il Diritto al Ritorno. È la rivendicazione dei milioni di rifugiati palestinesi sparsi per il mondo, che tra il 1947–48 sono stati cacciati dalle loro case e ospitati dai paesi limitrofi in campi profughi improvvisati con tende e mezzi di fortuna. Quegli stessi profughi che hanno dovuto accettare la cronicizzazione di una sistemazione che credevano e speravano temporanea.
I campi presenti in Libano, Siria, Giordania rappresentano la testimonianza vivente della catastrofe.
Se infatti la Nakba, come alcuni sostengono, non fosse mai avvenuta, non ci sarebbero neanche milioni di profughi che, inascoltati, continuano a battersi per il loro diritto al ritorno.
Il 15 maggio è anche la giornata dei “rifugiati interni”, alcuni diventati cittadini israeliani di serie B; altri che continuano a vivere nei campi profughi all’interno dei Territori Occupati. Tutti comunque vittime di quell’imbroglio legale noto come “Legge dei Presenti Assenti”, emanato dal governo israeliano nei primi anni ’50 che proibisce ai palestinesi di reclamare la proprietà su un immobile o un appezzamento di terra in quanto considerati “proprietari assenti” al momento della costituzione dello stato d’Israele. La Legge dei Presenti Assenti mira a privare i palestinesi che sono riusciti a rimanere all’interno dei confini israeliani dopo il 1948 di qualsiasi diritto di residenza e cittadinanza.
Nakba oggi vuol dire anche capacità del popolo palestinese di affermare la propria esistenza e la propria presenza come mezzo principale di resistere e scardinare il progetto sionista finalizzato alla cancellazione fisica e storica del popolo palestinese.
Per dirla con le parole di Edward Said “La Palestina non è scomparsa, malgrado gli sforzi di Israele. La nostra stessa esistenza ha sconfitto l’impresa sionista, finalizzata a eliminarci completamente”.
Penso, però, che la Nakba, considerata nel suo essere storia viva, racchiuda un ulteriore significato, importante se lo si contestualizza in una visione più generale delle numerose “catastrofi” che colpiscono alcuni paesi arabi nell’area del vicino oriente.
La Nakba e la questione palestinese diventano un modello paradigmatico per analizzare nuove dinamiche imperialiste post- coloniali a cui sono soggetti numerosi popoli. È emblematica a proposito la similitudine tra apartheid israeliana e il regime d’occupazione marocchino sul Sahara occidentale e sul popolo Saharawi; dirette sono le conseguenze delle mire imperialistiche sulla Siria e sul popolo siriano, che vede tra le sue vittime tantissimi palestinesi ( diventati così “rifugiati due volte”) e non si può non pensare ai curdi, che ancora lottano per vedere riconosciuto il pieno diritto all’autodeterminazione.
O ancora Israele e il suo “Muro dell’Apartheid”, assunti sempre più spesso come modello di sicurezza globale, basti pensare ai muri anti-migranti che provano ancora una volta a dividere l’Europa.
Ecco che la Palestina e la sua Nakba danno voce a tutte queste situazioni e l’apartheid israeliana diviene l’archetipo per analizzare criticamente le nuove occupazioni e le nuove strategie di propaganda, finalizzate poi a portare avanti la ben nota “guerra al terrorismo”.
Commemorare la Nakba dei popoli oppressi, dunque, è anche farsi un esame di coscienza e prendere atto della decadenza della società in cui viviamo, che non riesce più distinguere la giustizia dall’ingiustizia. Una società che rifiuta di approfondire le cause storiche degli eventi attuali, fermandosi spesso all’apparenza e all’indignazione e che identifica dei “nemici pubblici” su cui riversare le proprie ansie private e le proprie paure per dirla con Bauman. Una società che classifica vittime e carnefici in base a una scala di valori acquisita, probabilmente, a livello inconscio al momento della caduta del muro di Berlino: le vittime dalla nostra parte della cortina valgono di più delle altre e se i carnefici siamo “noi” siamo giustificati.
Un’impostazione mentale tipicamente orientalista, nel senso in cui Said lo intendeva, da cui ancora non si è stati capaci di discostarsi.
È significativo che la giornata del 15 maggio coincida con la “Giornata dell’Indipendenza israeliana”. Uno stato, fino a quel momento mai esistito, celebra una giornata dell’indipendenza come qualsiasi altro stato liberatosi dal giogo coloniale alla fine della Seconda Guerra Mondiale, senza però essere mai stato colonizzato.
Per la storia e la storiografia sionista filo-israeliana, tutto ciò che succede in Palestina è completamente disconnesso dalla Nakba e degli eventi del 1948 che, anzi, vengono continuamente negati. Ma la stessa politica sionista, finalizzata a impedire il ritorno dei profughi palestinesi, indica chiaramente che le autorità israeliane sono ben consapevoli di aver attuato per anni una pulizia etnica in pieno stile e che consentire il ritorno dei profughi significherebbe ammettere le proprie responsabilità nella creazione del problema, rimettendosi al giudizio di una comunità internazionale che, almeno nei fatti, ha finora appoggiato l’operato israeliano.
È proprio questa mancanza di consapevolezza storica da parte delle generazioni israeliane a offrire una solida base per le politiche d’apartheid, sempre più destrorse, dei governi che si sono succeduti fino ad oggi in Israele e che si sono impegnati per far fallire tutte le tappe del “processo di pace”, soggiogando ed egemonizzando una classe dirigente palestinese, sempre più preoccupata a salvaguardare i propri privilegi borghesi e staccata dal resto della popolazione.
Concludo con le parole di Said, una frase che non mi stanco di ripetere e che, purtroppo, ci lascia intuire che il cammino verso l’autodeterminazione del popolo palestinese è ancora molto lunga:
“Quale mondo è mai quello nel quale nessuno fiata se un intero popolo viene dichiarato giuridicamente assente, anche se poi contro di esso si muovono interi eserciti, si cerca di cancellare il suo nome e per “provare” la sua non esistenza si arriva perfino a falsificare la storia”