La nostra pistola è la telecamera
1 Marzo 2014Gianfranca Fois
“La nostra pistola è la telecamera” afferma una ragazza di Hebron, Cisgiordania, che insieme a tanti altri giovani fa parte del gruppo “Giovani contro l’occupazione” ( YAS, Youth Against Settlement). Si tratta di un gruppo che pratica la lotta popolare per il diritto dei Palestinesi a vivere in pace, con dignità e giustizia. Si oppone, seguendo i principi della nonviolenza e della disobbedienza civile, agli insediamenti illegali di colonie israeliane in territorio palestinese e alle violenze, fisiche e verbali, dei coloni ebrei, in gran parte provenienti dall’Europa ma soprattutto dagli Stati Uniti, e dei militari dell’esercito israeliano.
I video, proiettati qualche giorno fa in un’aula del Dipartimento di scienze economiche, giuridiche e politiche dell’Università di Cagliari, sono la loro arma di denuncia e mostrano le immagini girate a Hebron in una qualsiasi giornata mettendo in luce così le violenze cui sono sottoposti gli abitanti della città.
Le telecamere e le macchine fotografiche sono disposte numerose e in modo vario, infatti spesso vengono sequestrate o distrutte, ma in questa maniera ne rimane sempre qualcuna che continua a filmare mentre diverse organizzazioni internazionali contribuiscono a comprarne sempre nuove perché venga testimoniato tutto ciò che avviene.
AssoPace Palestina è una di queste associazioni e ha organizzato in varie città italiane degli incontri in occasione della campagna mondiale “Open Shuhada Street”, un’iniziativa palestinese che mira alla riapertura di questa strada con l’istituzione di un giorno di solidarietà internazionale con i residenti palestinesi di Hebron (al-Khalil, in arabo). La campagna è iniziata nel 2010 a Hebron e le azioni di solidarietà si sono presto estese in tutto il mondo.
Shuhada Street è il nome della via principale del centro storico di Hebron, attualmente è chiusa al passaggio di persone e di veicoli palestinesi mentre gli Israeliani possono passare, il video ci mostra una delle rarissime eccezioni, sotto il controllo dei militari un’ambulanza palestinese riceve il permesso di soccorrere una donna ma, a causa delle lungaggini frapposte, la donna muore prima di poter arrivare in ospedale.
Non solo ma, ad esempio, chi vuole andare alla moschea per pregare deve fare un lungo giro di circa 20 chilometri anziché di due come accadeva prima.
Prima Shuhada Street era una via vivace e importante sia per il traffico pedonale che per quello commerciale sin quando il 25 febbraio 1994 il medico Baruch Goldstein, un colono ebreo proveniente da Brooklyn New York, entrò nella moschea di Hebron e si mise a sparare provocando 29 morti. La conseguenza di questo orrendo atto fu pagata dalle vittime, la città venne divisa in due, con massi di cemento, filo spinato, numerosi posti di blocco, 1800 attività commerciali furono chiuse (botteghe dell’oro, di fabbri ecc.), 1200 famiglie allontanate attraverso sfratti forzati. Inoltre in città vige la legge marziale e il coprifuoco, spesso, di notte, i soldati israeliani entrano in modo casuale nelle case per perquisirle e costringono le famiglie, anche con bambini, a uscire e aspettare all’aperto.
Indiscriminati e senza motivazioni sono gli arresti e tra gli arrestati anche bambini di 10-12 anni, anch’essi, bendati e ammanettati, vengono portati via.
I due Palestinesi presenti, Izzat Karaki e Jawad Abu Aisha (rappresentanti dello YAS di Hebron), raccontano attraverso il commento alle immagini dei due video la loro esperienza e quella dei loro concittadini, vediamo con i nostri occhi le grate che coprono Shuhada Street (molte costruite da Izzat che ha 24 anni e fa il fabbro) per evitare che la spazzatura, i mattoni e le pietre, che i coloni insediatisi sui piani più alti delle case lanciano sui cortili, possa colpire chi si trova sotto.
I coloni si stabiliscono spesso in luoghi elevati, oltre appunto ai piani più alti, nelle colline che circondano la città in modo da controllare meglio il territorio e, penso, pure per sottolineare anche visivamente chi ha il potere e chi deve invece sottomettersi.
Tornando allo YAS c’è da sottolineare che è un’organizzazione indipendente da partiti politici, collabora con associazioni simili di tutto il paese e anche con gruppi di Israeliani che lottano contro l’occupazione e contro il muro. Il muro infatti, la sua costruzione iniziò sotto il governo di Sharon con il pretesto di impedire l’ingresso di terroristi in Israele, in realtà ha sottratto il 65% di territorio e di risorse idriche ai Palestinesi.
Fra le azioni dello YAS c’è ad esempio la ristrutturazione di una casa abbandonata, situata vicino ad una colonia, che accoglie una scuola per l’infanzia. Spesso però i bambini che giocano all’aperto vengono disturbati dai militari che scelgono proprio quel luogo per le loro esercitazioni in armi, fra olivi centenari che in parte (32 per l’esattezza) sono stati bruciati dai coloni.
L’odio dei coloni si rivolge anche sui soldati europei, fra i quali sono presenti Italiani, mandati come forza di controllo. In effetti svolgono il loro lavoro in modo molto blando, ma costituiscono comunque per i coloni un sia pur piccolo deterrente ai loro atti violenti. Allo stesso modo sono odiati i così detti Internazionali, donne e uomini di varie parti del mondo che si recano in Palestina per aiutare e cercare di proteggere con la loro presenza i Palestinesi, ad esempio per impedire che i bambini che vanno a scuola, spesso seguendo un percorso più lungo del dovuto a causa dei numerosi checkpoint, vengano aggrediti, oppure per impedire che al momento della raccolta delle olive, importanti nella già scarsa economia palestinese, possano esserci atti di violenza o di distruzione.
Insomma la vita a Hebron, come nel resto della Palestina, è difficile, i Palestinesi di ogni età e sesso vengono sottoposti costantemente a soprusi, angherie e umiliazioni e, anche se non rispondono alle provocazioni degli Israeliani, sono loro ad essere arrestati.
Israele conduce una forsennata campagna stampa per imporre la sua “verità” e nascondere i suoi crimini, speriamo che le telecamere e le macchine fotografiche dei Palestinesi contribuiscano a smascherarli in tutto il mondo.
Termino con le parole dell’ebreo Moni Ovadia: Io sono solidale col popolo palestinese, proprio perché sono ebreo. E’ mio dovere di ebreo essere solidale con tutte le persone che soffrono a causa di ingiustizie……gli ebrei sono stati sterminati perché milioni di persone e i loro governanti girarono la testa dall’altra parte………Io ho giurato a me stesso che nei confronti di nessuno girerò la testa dall’altra parte; la violenza, il sopruso, la sopraffazione, l’ingiustizia, non hanno patria! Non hanno bandiere, non hanno appartenenze etniche.