La politica al primo posto
16 Settembre 2012Lilli Pruna
Ho letto tre volte l’intervento di Francesco Pigliaru e Alessandro Lanza su La Nuova Sardegna del 31 agosto. Non è che non l’abbia capito la prima volta, è che continuo a chiedermi come possa il pensiero economico guidare il mondo. Mi scuso in anticipo con gli autori: sono profondamente in disaccordo con il contenuto del loro articolo, soprattutto con le domande che pone e con le risposte che dà. Una domanda e una risposta, in particolare, mi sembrano deboli (anche sotto il profilo economico) e quasi immorali. La domanda è questa: “provate a immaginare cosa sarebbe successo se i soldi spesi per il carbone del Sulcis fossero stati attribuiti non all’impresa ma ai lavoratori”.
Il primo commento che si deve fare è che una larga parte delle ingenti risorse spese per la Carbosulcis sono andate proprio ai lavoratori, avendo coperto i costi di centinaia di stipendi per anni e avendo pagato il lavoro svolto da ditte esterne, che operano per lo più nel territorio del Sulcis, nell’ambito del movimento terra, delle manutenzioni meccaniche, della vendita e noleggio di macchinari industriali, delle mense aziendali, degli indumenti e attrezzature da lavoro, delle pulizie e altro ancora. E’ questo che fa l’industria: crea e distribuisce lavoro. Dunque una larga fetta del denaro speso è servita proprio a pagare i lavoratori: il carbone infatti è gratis, ciò che costa è estrarlo e questo lo fanno i minatori, utilizzando potenti escavatrici (ne ricordo una, parecchi anni fa, proprio nella miniera della Carbosulcis: era un mostro tecnologico di straordinaria bellezza, nel suo genere).
Il secondo commento alla stessa domanda potrebbe venire da una serie quasi infinita di domande analoghe: perché non provare a immaginare che cosa sarebbe successo se fossero andati ai lavoratori i soldi spesi per costruire in trent’anni il porto canale di Cagliari, o i soldi spesi per fare un aeroporto a Oristano e i soldi che intendono spendere per rilevare quello di Tortolì, o i soldi spesi per tutte le imprese di ogni tipo che hanno chiuso i battenti, o i soldi sprecati per finanziare enti e progetti inutili… e se l’intero bilancio regionale fosse semplicemente distribuito al milione e seicentomila abitanti della Sardegna e ognuno pensasse per sé? Una domanda inquietante, mi pare.
Il terzo commento alla stessa domanda impone di smontare la finzione retorica su cui è impostata. E’ una finzione volgare, in senso letterale, cioè rivolta al volgo, il popolo, ma a partire dalla sua pancia, a cui tutti (a quanto pare proprio tutti) trovano più conveniente rivolgersi: che significato può avere, se non quello di stuzzicare la pancia del popolo, immaginare che i soldi pubblici possano essere “attribuiti” direttamente ai cittadini, non per lavorare ma in cambio di niente? La cassa integrazione guadagni a zero ore, che possiamo adottare come esempio di un tipo di trasferimento di denaro ai lavoratori che vengono sospesi dalla loro attività, non si può certo considerare una condizione desiderabile – neanche se l’indennità fosse più consistente – né più produttiva di un lavoro in miniera o in una qualsiasi altra industria, né più adatta a creare in un territorio competenze professionali e uno sviluppo sociale ed economico. Ovunque si sono creati bacini di cassintegrati a lungo termine (anche più di vent’anni), e magari prepensionamenti di massa utilizzati come ammortizzatori sociali, è cresciuto il lavoro nero e la concorrenza sleale alle piccole imprese artigiane locali, sono aumentati i bar e gli avventori abituali, le lavoratrici espulse sono tornate a fare le casalinghe, le professionalità si sono in larga parte disperse e le comunità si sono impoverite da tutti i punti di vista. La risposta che gli autori danno alla loro domanda non mi sembra quindi accettabile: “Potenzialmente, ogni lavoratore avrebbe avuto a disposizione una dote iniziale di un miliardo di lire, avrebbe potuto godere per vent’anni di una rendita mensile di circa 1.400 euro, e a fine periodo il capitale iniziale sarebbe rimasto invariato”. Uno scenario da lotteria del tipo “turisti per sempre”: chi non resterebbe ammaliato da questa visione, in un territorio con disoccupazione endemica a due cifre? Ma che senso ha un ragionamento di questo tipo? Sarebbe come dire che siccome il sistema sanitario è troppo costoso e pieno di sprechi e inefficienze è meglio dare una somma di denaro a ogni cittadino e dirgli di arrangiarsi e curarsi come vuole (o come può). Vorrebbe dire che un territorio fondato su rendite e capitali individuali sarebbe stato meglio di un territorio che con l’industria mineraria ha costruito una identità e una cultura produttiva e ha creato una comunità di destino, come la definirebbe Gallino, cioè una classe operaia in una regione che non ha avuto altra working class. Un destino difficile e travagliato, certo, ma non perché quel lavoro non valesse la pena di essere fatto e non avesse ragioni: perché la classe politica regionale e nazionale non è stata all’altezza del progetto industriale per l’utilizzo del carbone, mentre è riuscita a cancellare la classe operaia in tutta l’isola. Capiremo tra non molto che cosa significherà per questa società fragile e individualista il venir meno di una forte identità collettiva.
La Carbosulcis è nata per sfruttare una risorsa locale certa e abbondante – un giacimento carbonifero molto esteso – in un contesto in cui si è potuto disporre di una tradizione e una cultura mineraria maturata in più di un secolo di attività estrattive. E’ l’unico ambito produttivo e l’unico territorio in Sardegna in cui è stato creato un meccanismo virtuoso tra istruzione, formazione professionale e produzione industriale – come nelle regioni della Terza Italia – attraverso l’Istituto Minerario di Iglesias e la formazione dei tecnici nei cantieri minerari dell’isola, che sono state scuole professionali di altissimo livello. Non è accettabile che si liquidi il progetto Carbosulcis come se fosse stato un capriccio irragionevole, la decisione insensata presa in un periodo in cui c’erano soldi da buttare. Nel mondo si utilizza più carbone che mai (“purtroppo”, si dovrebbe aggiungere con ottime ragioni, e purtroppo si usa anche il petrolio e il nucleare e abbiamo pale che girano ovunque). C’è il carbone dietro l’imponente crescita economica della Cina e dell’India. C’è carbone e ci sono minatori che lo estraggono in tutti i continenti: solo in Cina i minatori di carbone sono più di 5 milioni, in India poco meno, nel resto del mondo il doppio. Le riserve di carbone sono sepolte nel sottosuolo di oltre 70 paesi: questa distribuzione geopolitica, più ampia e differenziata rispetto al petrolio, contribuisce a farne una risorsa strategica. Sono infatti decine di migliaia le miniere di carbone in attività: ce ne sono in quasi tutto il nord e sud America (Alaska, Canada, Stati Uniti, Messico, Colombia, Cile, Perù, Brasile, Argentina, Venezuela), in buona parte dell’Africa, in moltissimi paesi dell’Europa (non li elenco: sono 26), in quasi tutta l’Asia (in primo luogo in Cina, il principale produttore e utilizzatore di carbone al mondo, in India e in molti altri), in Australia e in Nuova Zelanda. Il progetto Carbosulcis si collocava in questo quadro mondiale, non in una realtà locale virtuale in cui ci si era inventati il gioco inutile e costoso di scavare sottoterra. Questo per dire che le basi tecniche del progetto erano solide e gli obiettivi erano economicamente validi, tanto più che in quella zona si è bruciato carbone estero ininterrottamente fino a oggi. Non è la “scarsa qualità” del carbone Sulcis ad avere reso poco conveniente il suo utilizzo (senza entrare troppo nel merito, basta dire che ha un potere energetico che lo fa classificare industrialmente come carbone sub-bitumnoso del gruppo inferiore degli hard coal, utilizzati per la gassificazione): è l’inerzia della politica, la sua incompetenza e irresponsabilità che hanno fatto saltare tutti i tempi del progetto Carbosulcis e con i tempi è saltata la stessa ragionevolezza del progetto. Oggi, certo, le condizioni sono molto diverse e avverse da tanti punti di vista, mentre la classe politica che governa la Regione è ancora più pavida e incompetente.
Ma veniamo all’alternativa prospettata dai due economisti. Che cosa avrebbero potuto fare centinaia di lavoratori del Sulcis con la “dote di un miliardo di lire”, invece che lavorare in miniera e nelle altre attività che l’industria mineraria ha alimentato? Provo a immaginare: avrebbero potuto costruire una casa per ogni figlio (viva l’edilizia: lì sì che i posti di lavoro sono produttivi!), avrebbero potuto investire in decine di strutture ricettive, alberghi e villaggi (viva il turismo: da lì sì che verrà lo sviluppo!) o avrebbero potuto avviare tante piccolissime imprese, una miriade di ditte individuali (viva l’autoimpiego: così emerge l’imprenditorialità che è in noi e si crea occupazione!). Quest’ultima possibilità si è realizzata diffusamente anche senza la dote miliardaria che sarebbe stata preferibile al lavoro in miniera: proprio dal Sulcis è partita nei mesi scorsi la protesta disperata delle partita IVA “rovinate da Equitalia”, delle centinaia di piccoli artigiani, liberi professionisti, allevatori e coltivatori con belle aziende agricole che non sono riusciti a salvare la loro occupazione e spesso neppure la propria casa. Quale sviluppo avrebbero mai potuto alimentare rendite e capitali individuali senza un progetto collettivo?
Le alternative serie alle grandi industrie in declino potevano essere progetti collettivi di lungo termine e di elevato livello tecnico: per cominciare, le bonifiche del territorio e l’insediamento del Parco scientifico e tecnologico a Monteponi invece che a Pula. Quali interessi (rendite e capitali) la classe politica regionale ha scelto di favorire invece che incoraggiare un nuovo sviluppo per il Sulcis?
16 Settembre 2012 alle 18:10
Mi sembra una ben argomentata risposta non solo all’articolo di Pigliaru e Lanza su La Nuova Sardegna, ma a quanti – sui quotidiani nazionali,alla radio e in TV , comuni cittadini (il volgo di cui parla Lilli Pruna), giornalisti – “economisti” compreso il gettonato Giavazzi – fanno questi calcoli – che comprensibili in comuni cittadini – non lo sono per chi dovrebbe conoscere la differenza tra lavoratore e “mantenuto”. I lavoratori del Sulcis ( ma in genere tutti i lavoratori) non stanno lottando così duramente per avere una rendita e starsene a “spasso”, ma perchè sanno che la loro dignità è badare alla loro vita, a quella della famiglia, alla crescita e dignità della comunità con il lavoro anche quando è faticoso e duro come quello di fabbrica.
18 Settembre 2012 alle 11:59
Tutto sacrosanto e condivisibile. Solo, credo che quella di Pigliaru e Lanza fosse una mera provocazione. Come ipotesi è del tutto assurda, per i motivi elencati ed anche per altri di natura culturale e sociale, oltre che economica. Una provocazione che appunto dovrebbe sollevare degli interrogativi sia sul pregresso, su quanto fatto dalla classe dominante sarda almeno negli ultimi sessant’anni, sia sul presente e sul futuro. Non lo dico tanto per difendere la posizione del prof. Pigliaru – dal quale mi divide una visione economica abbastanza diversa – ma per provare a contribuire a un processo di sintesi, anche in termini politici, delle idee e delle proposte che finalmente stanno nascendo sulle macerie di un’economia moribonda e di un disastro sociale senza molti precedenti (se non nel terribile XIX secolo).
19 Settembre 2012 alle 11:27
E’ chiaramente una provocazione quella di Pigliaru e Lanza.Chi non ha pensato almeno una volta “se avessimo distribuito i soldi agli abitanti della sardegna saremo diventati tutti ricchi”.
L’abbiamo pensato in tanti, era una semplificazione per dire che l’industrializzazione in sardegna era fallita.
E’ fallita dal sulcis a ottana si arriva poi a portotorres passando per macchiareddu e dal porto canale.
Parallelamente è fallita l’agricoltura e le piccole attivita industriali aritigianali e di servizi,e sul turismo si puo’ tranquillamente dire che sta seguendo a ruota la stessa sorte.
Ai sardi restano le macerie ,l’nquinamento ,le cartelle di equitalia,i ciarlatani ,gli strilloni (di sinistra)e,gli imbroglioni e qualche padroncino deluso.
Certo ci restano anche i dispenasatori di ricette quando non occuopano piu’ posti di comando.
La nostra isola assomiglia sempre di piu’ all”america latina di qualche decennio fa.
Quando è il padrone che fa politica e non la “buona”politica che la fa padrona ,questo è il risultato.
10 Ottobre 2012 alle 22:49
Lolli, mi scuso anch’io con te. Però davvero penso che tre letture non siano bastate. Nessuno ha proposto di regalare i soldi agli operai per non fargli fare nulla. Rileggi e vedrai che è così. Qualche volta i pregiudizi non aiutano. Mi dispiace.