La scuola di Renzi: la versione degli studenti
16 Ottobre 2014Valeria Piasentà
‘La grande bellezza siamo noi’: con questo slogan sono iniziate le manifestazioni studentesche di ottobre. E’ bastata una prima lettura delle linee guida sulla scuola proposte dal governo per provocare le proteste di docenti, studenti medi e universitari. Perché questa pseudo-riforma nasconde tendenze repressive e autoritarie, camuffate sotto le forme furbette di un linguaggio e disegnetti accattivanti. Non è sfuggito agli studenti l’intento profondamente antidemocratico, patrimonio ideologico dei conservatori e oggi trasmigrato nella cultura dei politici di un governo che si autodefinisce innovatore. Come abbiamo motivato nei precedenti articoli sulla scuola di Renzi, anche gli studenti hanno colto il segno più dittatoriale e arrogante de La buona scuola, e che riguarda la figura docente: «la riforma del governo Renzi darebbe un eccessivo potere ai presidi, ai quali spetterebbe il compito di decidere quali sono i docenti meritevoli di ricevere uno stipendio più alto e quali no», incrementando le pratiche più diffuse nel nostro Paese: corruzione e familismo amorale. Nella manifestazione del 10 ottobre, i liceali romani hanno dichiarato: «La proposta sulla scuola del premier non è altro che un sistema che punta a favorire la privatizzazione… il progetto di Renzi porta avanti la linea di demolire la democrazia nella scuola. Se passa questa riforma gli insegnanti saranno sotto mira e sotto assedio dei presidi e diventeranno solo i cani da guardia degli studenti. Noi una scuola gerarchica non la vogliamo». Secondo gli organizzatori, varie associazioni studentesche, le attuali politiche prevedono una riforma della scuola in senso aziendalistico, che non tocca i temi cruciali «non aggredisce i veri problemi del sistema dell’istruzione nel nostro Paese e, anzi, ne crea di nuovi… aumenterà la precarietà senza garantire nessuna tutela» (G. Succimarra, portavoce Unione degli Universitari). «La Buona Scuola che ci propone il governo non è quella che vogliono gli studenti. Diritto allo studio, didattica veramente innovativa, riforma dei cicli, innalzamento dell’obbligo scolastico, rappresentanza degli studenti negli organi collegiali scolastici, riforma dell’alternanza scuola-lavoro che non sia solo un precoce inserimento nel mondo del lavoro: dove sono tutte queste cose?» (Comunicato UdS). Agli studenti che hanno protestato in 60 città italiane, non è sfuggita la continuità con le politiche della berlusconiana Gelmini, i cui guasti culturali profondi si evidenziano proprio ora, con l’ingresso all’università degli studenti ‘riformati’ sotto il suo ministero. E ancora dal comunicato dell’Unione degli Studenti medi estrapoliamo una delle critiche più pesanti all’azione del governo, che riguarda l’assenza di risorse a sostegno del diritto allo studio. Specie dei giovani meritevoli ma privi di risorse famigliari: e sarebbe questo l’unico atto veramente meritocratico atteso da governanti progressisti, da un Pd che al Parlamento europeo siede nel Gruppo dei Socialisti e Democratici. E forse anche per questi ideali ha ricevuto tanti voti alle passate elezioni, perché propugni una scuola inclusiva che educhi al pensiero critico. Come riportava un cartello alle manifestazioni di universitari venezuelani, a Caracas (tutto il mondo è paese, e i padroni son padroni ovunque…): ‘Educare, non addomesticare’. Invece: «Siamo stanchi di promesse e di interventi minimi che non cambiano le condizioni materiali degli studenti che devono far fronte a costi sempre più esosi per poter studiare», quando la classe dirigente e quella al governo tendono a incrementare l’attuale «modello sociale ed economico fondato sulla precarietà, sulle basse competenze e sui salari da fame». Infatti, il ministro Giannini promette che, dopo la riforma della scuola, interverrà su università e ricerca con tagli lineari: per la ricerca (secondo Il sole 24 ore) corrisponderà a un taglio di 400 milioni, su un totale di 1 miliardo e 500 milioni sottratto dell’intero comparto universitario, parte di questi recuperati dall’erogazione di borse di studio, e dalla progressione legislativa che sta conducendo le nostre università verso la privatizzazione (vedi la quota premiale per ateneo, legata a valutazioni quantitative che penalizzerebbero i fuori corso quindi gli studenti-lavoratori, regolata dal Fondo di finanziamento ordinario del governo Letta).
Bisogna fermarli. Perché – come evidenziano gli studenti – investire in cultura, istruzione e ricerca, significa investire sul futuro. E’ così che si sono risollevate le economie di Paesi che la crisi economica globale aveva messo in ginocchio. Come quella che nel ’90 ridusse la Finlandia al collasso finanziario, un Paese ora diventato il modello internazionale della buona scuola. E come è arrivato questo piccolo Stato al primato educativo ce lo spiega Sahlberg, nel saggio Il modello Finlandia. Eguaglianza ed eccellenza in Un’altra scuola è possibile: laica, repubblicana, egualitaria, di eccellenza, MicroMega, 6/2014. In grande sintesi, il sistema finlandese ha saputo rinnovarsi in cinque passi: 1) innalzando contemporaneamente i livelli di inclusività ed equità si è raggiunta la qualità: «Il sistema scolastico equo è il risultato di un’attenzione sistematica alla giustizia sociale»; attualmente in Finlandia si diploma il 95% della popolazione. 2) assenza di riforme a ispirazione mercantile: «I test standardizzati che equiparano gli individui a medie statistiche, la competizione che fa sì che gli studenti più deboli rimangano indietro, e la retribuzione degli insegnanti legata al merito, sono tutti elementi che mettono a repentaglio gli sforzi delle scuole di andare verso una maggiore equità». 3) non esistono scuole private, l’istruzione è pubblica: di tutti per tutti. Invece il nostro Renzi nel 2013 a Bologna, in occasione del referendum sul finanziamento pubblico alle scuole private, si era espresso a favore del privato. 4) il riordino radicale dei cicli ha reso autonome le discipline dal risultato complessivo annuale, così da prevenire l’insuccesso scolastico. 5) la formazione dei docenti, che dura da 5 a oltre 7 anni dopo il diploma nella materia principale, «deve essere sostenuta da conoscenze scientifiche e focalizzata sulle tipologie di ragionamento e le abilità cognitive proprie della ricerca», e oltre agli approfondimenti pedagogici «gli insegnanti finlandesi apprendono a progettare, condurre e presentare ricerche originali su aspetti pratici e teorici dell’istruzione».
La buona scuola finlandese è l’esatto contrario della ‘buona scuola’ di Renzi.
‘La grande bellezza siamo noi’, dichiarano perciò gli studenti italiani fotografandosi in flashmob coi loro striscioni creativi, davanti ai monumenti di un Paese che vive sulle glorie del passato, segnato dalle sue architetture e dal suo paesaggio antropizzato che crolla giorno dopo giorno, sotto il governo di una classe dirigente mai all’altezza del suo ruolo.
(3. continua)