La sinistra del PCI negli anni Sessanta
16 Maggio 2013Claudio Natoli
La nascita e lo sviluppo di una componente di sinistra all’interno del PCI nel corso degli anni ’60 affonda le sue prime radici nella crisi successiva al 1956. In precedenza una critica sotterranea da sinistra alla politica di Togliatti prima e dopo la rottura dell’unità antifascista del 1947 aveva avuto come punto di riferimento Pietro Secchia (inizialmente anche Longo) e l’apparato di quadri e di dirigenti che ruotavano attorno all’Ufficio di organizzazione e si era espressa, non già in una tendenza “insurrezionalista”, come è stato impropriamente scritto, bensì in una declinazione “operaista” del ruolo del partito e del suo rapporto con la società italiana, in una accentuazione del momento delle lotte di massa e della contrapposizione ai governi centristi piuttosto che di una più duttile ricerca delle alleanze, in una incondizionata adesione al “campo socialista” nonché all’ideologia dello “scontro frontale” tra i “due sistemi” tipica degli anni del Cominform. Tuttavia, una volta superata la fase più acuta della guerra fredda, questo orientamento, che peraltro non si era mai posto come un’alternativa alla strategia togliattiana, si era rivelato sempre più inadeguato ad affrontare sia le profonde trasformazioni che investivano la società italiana, sia i contraccolpi del processo di destalinizzazione nello stesso campo socialista.
Il biennio 1955-56 avrebbe costituto il punto di avvio di un processo di rinnovamento destinato a conoscere i suoi sviluppi più significativi nel corso degli anni ’60. Sul piano dell’organizzazione interna l’uscita di scena di Secchia comportò un primo rimescolamento nei gruppi dirigenti, con la valorizzazione della generazione formatasi tra la Resistenza e i primi anni del dopo-liberazione. Ma fu soprattutto sul piano sindacale, dopo la sconfitta alla Fiat, che si avviò una ricerca profondamente innovativa sul progresso tecnico per iniziativa di Di Vittorio e degli esponenti comunisti e socialisti più sensibili verso il “ritorno alla fabbrica”, la quale aveva trovato riscontro nella Sezione lavoro di massa del PCI in un Convegno promosso per iniziativa di Aldo Natoli alla fine di giugno del 1956. Si sarebbe dovuta attendere la pubblicazione del rapporto segreto di Kruschev, perché Togliatti prendesse l’iniziativa dell’intervista a “Nuovi argomenti”, con la prospettata correzione degli errori e dei crimini legati al “culto della personalità”, con l’evocazione del policentrismo, e soprattutto con il superamento dello Stato e del partito guida e il rilancio in chiave strategica della “via italiana” al socialismo. I fatti di Polonia e la tragedia ungherese, con l’allineamento incondizionato del PCI al “campo socialista”, avrebbero determinato tuttavia non solo l’accantonamento delle problematiche più innovative, ma anche una riaffermazione del centralismo democratico e della struttura gerarchica e centralizzata del PCI, nonché una delimitazione dei margini del confronto e del dissenso interno, con l’allontanamento o il distacco di voci critiche o di risorse intellettuali che si erano rivelate preziose ed una rinnovata fase di inerzia in quei campi in cui si era appena avviata una ricerca vitale e innovativa. Tutto ciò ebbe l’effetto di procrastinare di diversi anni la ripresa di una riflessione critica sull’URSS e di spostarla verso l’area socialista sia che si abbracciasse l’orizzonte socialdemocratico, sia che si prospettasse un ritorno a Marx (o a Gramsci) contrapposto all’ortodossia del marxismo- leninismo.
E’ innegabile tuttavia che l’VIII Congresso avrebbe posto le basi per la fuoriuscita del PCI dall’assedio e dall’isolamento e avrebbe aperto la strada a una rinnovata iniziativa nelle istituzioni e nella società italiana. Al centro di tale processo si collocarono allora la ripresa e l’arricchimento della “via italiana” e soprattutto l’assunzione della Costituzione repubblicana come punto di riferimento per un progresso “pacifico e democratico”, rispettoso delle istituzioni parlamentari e scandito da riforme strutturali che avrebbero dovuto trasformare la società e i tradizionali assetti del potere, spezzare il predominio del grande capitale monopolistico e creare le basi per l’avvento, in un’ampia cornice di alleanze politiche e sociali, alla direzione dello Stato delle classi lavoratrici. Nella visione di Togliatti si trattava di riprendere il cammino avviatosi con la Resistenza e con la nascita della Repubblica, bruscamente interrotto nel 1947 dalla rottura dell’unità antifascista da parte della DC, con il conseguente congelamento dei contenuti progressivi della Costituzione. Per la verità all’VIII Congresso (ma a ben vedere anche oltre) il concetto di riforme di struttura privilegiava, più che gli obiettivi che ci si proponeva di realizzare, le forme e la prospettiva politica in cui esse avrebbero dovuto inserirsi. Era qui evidente quella difficoltà a collegare la tutela dei diritti e degli interessi immediati dei lavoratori a obiettivi di riforme strutturali che aveva caratterizzato il grande ciclo di lotte difensive che il PCI aveva condotto nei primi anni ’50 e che erano state piuttosto intrecciate con le mobilitazioni di carattere politico generale sui temi della pace, della “legge truffa” o della difesa della Costituzione.
Un secondo aspetto della “via italiana” al socialismo fu costituito dal nesso inscindibile tra nazionale e internazionale. Ma anche su questo terreno gli elementi di continuità nella storia del PCI si intrecciavano con processi nuovi di indubbia rilevanza. Per T. il XX Congresso del PCUS rappresentava un punto di non ritorno per il movimento comunista. Ciò significava la fine dello Stato guida e dell’unicità del modello sovietico, nonché il riconoscimento dell’autonomia di ciascun partito e della specificità delle vie nazionali (anche pacifiche e parlamentari) al socialismo e segnatamente della “via italiana”. Non per questo sarebbe venuta meno la funzione essenziale sul piano mondiale che l’URSS, i paesi socialisti e il movimento comunista internazionale erano chiamati a svolgere: all’opposto, la fase successiva al XX Congresso si sarebbe configurata per T. nei termini di una rinnovata capacità espansiva del “sistema mondiale” del socialismo sul piano sia della correzione degli errori e delle “distorsioni” legate al “culto della personalità”; sia della riattivazione della partecipazione democratica delle masse (pur all’interno del mantenimento del “ruolo dirigente” dei partiti comunisti al potere); sia infine sul piano della capacità di garantire una illimitata crescita economica, del progresso tecnologico, del benessere e dello sviluppo culturale e civile, sino a raggiungere e superare nel giro di pochi anni i centri nevralgici del capitalismo. La coesistenza e la competizione pacifica tra i due sistemi avrebbero costituito lo scenario in cui si sarebbe affermata la “superiorità” del campo socialista nel confronto con il capitalismo, incapace, negli Usa come anche in Europa, di sviluppare i meccanismi stessi dell’accumulazione, minato dal crollo degli imperi coloniali e dall’attrazione esercitata dall’URSS sui movimenti di liberazione nazionale, sempre più dominato da oligarchie che soffocavano le aspettative di progresso dei popoli e gli stessi spazi della democrazia politica.
Emergevano qui due limiti della cultura politica di Togliatti anche dopo il 1956: e cioè da una parte, l’assenza di una approfondita riflessione critica sulla natura sociale dell’URSS (la cui sostanza socialista non sarebbe stata intaccata dagli errori e dai crimini di Stalin), dall’altra i ritardi e i vuoti di analisi sulle nuove forme della democrazia rappresentativa nell’Europa occidentale, sui processi di arricchimento della democrazia all’insegna del riconoscimento dei diritti sociali e del lavoro organizzato nell’ambito del Welfare, nonché della riattivazione dei meccanismi egemonici legati alla crescita economica, all’allargamento dei consumi di massa, all’affermarsi della concertazione tra le parti sociali di cui erano protagoniste le socialdemocrazie. In riferimento alla situazione italiana, ciò comportava da parte del PCI una persistente sottolineatura delle condizioni di “arretratezza” e di stagnazione del capitalismo italiano, della sua incapacità di promuovere uno sviluppo economico che attenuasse le condizioni di miseria e di supersfruttamento delle masse lavoratrici, dell’indisponibilità delle forze di governo a promuovere riforme atte a superare gli storici squilibri del paese, laddove invece l’impetuosa crescita economica, l’irrompere di una moderna società industriale e le tensioni sociali vecchie e nuove che sorgevano sollecitavano nei settori più sensibili della cultura laica e socialista ma anche nel mondo cattolico una spinta verso una politica di riforme e di programmazione.
Per converso Togliatti mostrò una viva attenzione verso le tendenze a un quadro politico più aperto che emergevano soprattutto dalle forze laiche e socialiste. Nessuna delle proposte di riforme formulate in questi anni dal PCI usciva peraltro dall’ambito dell’elaborazione in corso tra le forze che intendevano promuovere il centrosinistra ed era evidente l’intento, più che di imprimere il proprio segno, di non estraniarsi dal processo che si stava aprendo.
L’inizio degli anni ’60 segnò in Italia il punto culminante del “miracolo economico”, ma anche e soprattutto l’avvento di una moderna società industriale, l’affermarsi di stili di vita legati all’estendersi, sia pur graduale, dei consumi di massa, il diffondersi di nuovi modelli culturali sempre meno subordinati ai valori dalla famiglia patriarcale e del tradizionalismo cattolico. Tutto ciò si inserì in un contesto sociale tutt’altro che pacificato. L’impetuosa ripresa delle lotte operaie, le rinnovate forme unitarie dell’azione sindacale, ma anche le spinte di base verso la contrattazione nei diversi ambiti dell’organizzazione del lavoro segnarono l’inizio di un lungo ciclo di conflittualità di classe destinato a sfociare nell’”autunno caldo” e ad andare ben oltre la soglia degli anni ’60. Un secondo fattore altrettanto importante fu la nuova soggettività espressa dalle nuove generazioni. L’evento più emblematico dello “spirito del tempo” fu la sollevazione popolare che accompagnò e seguì i fatti di Genova del luglio 1960, che videro come protagonisti proprio quei giovani con le magliette a strisce che sono stati immortalati nelle immagini delle manifestazioni e degli scontri di quei giorni. Si trattava di un nuovo antifascismo non più rivolto all’indietro verso un passato non di rado ritualizzato, quanto piuttosto, come ha scritto Vittorio Foa, fortemente connotato da una affermazione di identità rivolta alla riappropriazione del proprio futuro. Per comprendere l’accelerazione del processo che avrebbe portato alla nascita del centro-sinistra, la ricchezza del dibattito politico e culturale che, in particolare nel corso del 1961-62, ne costituì il retroterra è essenziale fare riferimento allo spostamento dei rapporti di forza che si stava determinando nel paese reale. Ed è in questa luce che va inquadrato l’ampio respiro del confronto sui temi della programmazione e delle riforme, sull’intervento dello Stato per il superamento del divario tra i consumi pubblici e privati e per la creazione dei poli di sviluppo nel Meridione. L’ottica privilegiata dal PCI non fu tuttavia il confronto programmatico interno al centro-sinistra, bensì la lotta al monopolio politico della DC e il ritorno a una libera dialettica tra le forze democratiche e popolari. Al centro dell’attenzione continuava ad essere il tema delle alleanze, piuttosto che l’approfondimento dei contenuti su cui costruirle.
Nel corso del 1961 emerse nondimeno una questione ineludibile: e cioè la necessità di approfondire le profonde trasformazioni che investivano la società italiana, ma anche di una rinnovata riflessione sui paradigmi teorici, i comportamenti politici, le strutture organizzative e gli stessi referenti sociali su cui il PCI aveva fondato il proprio radicamento nel paese nel primo quindicennio repubblicano. Il “miracolo economico” non poteva più essere interpretato soltanto all’insegna dei paradigmi tradizionali della “espansione monopolistica”, degli extraprofitti parassitari, dell’aggravamento degli squilibri, del supersfruttamento e della miseria delle classi lavoratrici, della storica “arretratezza” del capitalismo italiano. Oltretutto, dal luglio 1960, era emersa una inedita soggettività e autonomia dei nuovi attori sociali (a cominciare dagli operai non qualificati o di recente immigrazione e dal protagonismo dei giovani) rispetto alle forze politiche organizzate, non escluso il PCI.
Un importante banco di prova fu costituito dalla II Conferenza degli operai comunisti, che si svolse a Milano il 5-7 maggio 1961. Fu qui che T. prese atto che per la prima volta nella storia nazionale la borghesia italiana era “riuscita a raggiungere livelli di competitività internazionale”. Ma al tempo stesso T. segnalava che proprio nel momento del suo massimo grado di sviluppo la borghesia italiana vedeva levarsi “davanti a sé qui in Italia, il proprio antagonista storico, il proletariato industriale, con la propria organizzazione sindacale e con le proprie organizzazioni politiche”. Il fatto determinante era la qualità nuova delle lotte, che in parte riguardavano la difesa dei livelli di esistenza delle classi lavoratrici, ma in misura anche maggiore tendevano a modificare profondamente i rapporti di potere nella fabbrica capitalistica e, attraverso l’azione dei partiti politici della classe operaia, a “investire tutti i problemi della vita nazionale”.
Ma era a questo punto che si aprivano delicati problemi relativi alla compatibilità tra spinte di base, conflittualità di fabbrica, iniziativa sindacale e politica generale del PCI. Togliatti ammoniva che sarebbe stato un errore considerare la rinascita del movimento sindacale come “qualcosa di separato dal complesso della situazione politica del paese”, metteva in guardia contro possibili “fughe in avanti”, richiamava il tema delle nazionalizzazioni come terreno favorevole per lo sviluppo della “lotta politica, parlamentare, democratica, e in cui le lotte sindacali possono dare impulso all’avanzata di tutto il movimento operaio verso profonde trasformazioni strutturali”. Ed a distanza di qualche mese salutava bensì “l’inizio di una ripresa operaia” ed affermava che a partire dalla fabbrica si poneva “il tema centrale per una svolta a sinistra, che è di controllare, limitare e rompere il potere privilegiato del grande capitale monopolistico”, ma ammoniva anche che la classe operaia e le sue organizzazioni dovevano evitare “esasperazioni estremiste”. Nella tendenza a costruire pretese “isole di socialismo” si rischiava di distruggere l’intera strategia del movimento operaio, così come nella tentazione a contrapporre alla politica del PCI una alternativa puramente operaia, o socialista, emergeva il pericolo di isolare “il proletariato e le sue avanguardie dalle masse della popolazione lavoratrice e dal ceto medio, in un paese dove il proletariato è anche numericamente ancora debole, in un paese dove sono in folla i problemi di semplice progresso democratico e civile che attendono ancora di venire risolti”. Era qui evidente la polemica con Raniero Panzieri, la rivista “Quaderni rossi” e le correnti sindacali più innovative e avanzate della CGIL, che sostenevano la centralità del conflitto di fabbrica come soggetto principale per un rinnovamento generale della società italiana. Per T. il tema più attuale restava invece la centralità del PCI nel creare le condizioni per una alternativa di sviluppo democratico conforme ai principi della Costituzione, ma soprattutto la necessità “di una stretta unione e collaborazione delle “forze democratiche e popolari”.
Emergeva già qui in controluce un nodo fondamentale che, negli anni ’60 e ’70, il PCI di Togliatti e quello dei suoi successori si sarebbe rivelato incapace di sciogliere: e cioè l’alternativa tra continuità nella tradizione e rinnovamento della cultura politica del partito, tra primato della politica delle alleanze all’interno delle istituzioni e del quadro politico tradizionale e trasformazione dal basso della società e autonomia e soggettività dei nuovi protagonisti sociali. Ma proprio a questo punto riemergeva un altro nodo irrisolto della strategia togliattiana, e cioè il ruolo del PCI nel movimento comunista internazionale. Nell’autunno 1961, dopo una lunga fase di “diplomatizzazione” nei rapporti con il PCUS, Togliatti tornò a manifestare una convinta e rinnovata fiducia nelle capacità espansive dell’URSS e del movimento comunista internazionale (simboleggiate dal volo nello spazio di Gagarin). Nell’ottobre 1961, dalla tribuna del XXII Congresso, T. aveva coniugato la rivendicazione dell’originalità della “via italiana” con il legame più stretto “col movimento operaio di tutti i paesi”, aveva ascritto al patrimonio del PCI i successi del campo socialista e il suo continuo rafforzamento, aveva definito il programmato passaggio al comunismo in URSS “un salto qualitativo in avanti di tutto il nostro movimento” e definito il nuovo programma del PCUS “un documento fondamentale del pensiero marxista” e la via che indicava come “la sola via giusta, la sola che garantisce la vittoria alla causa dell’emancipazione degli uomini da ogni sfruttamento, da ogni oppressione e servitù”. Al ritorno in Italia, a distanza di pochi giorni, T. svolse al CC del PCI una relazione dai toni marcatamente apologetici sul XXII Congresso, celebrando la nascita di una “nuova umanità” e spingendosi sino a criticare la rinnovata denuncia da parte di Kruschev dei crimini di Stalin. Ha scritto Aldo Agosti che proprio in questa fase di profondi mutamenti della vita politica italiana e internazionale sarebbe emerso in piena luce “il ruolo sempre più frenante del ‘legame di ferro’ con l’URSS sulla strategia politica di Togliatti”. Ed è noto come proprio al CC del novembre 1961 si determinasse per la prima volta, in una inedita convergenza tra destra e sinistra, una divaricazione tra T. e una parte dello stesso gruppo dirigente del PCI proprio sui temi della resa dei conti con lo stalinismo (ma implicitamente sui caratteri e il ruolo dell’URSS nel momento presente) e anche sull’eventuale superamento della struttura organizzativa del partito basata sul “centralismo democratico”. E’ noto anche che la discussione si concluse con un documento che conteneva indubbie aperture verso le istanze rinnovatrici, anche se, di fronte alle aspre reazioni del PCUS sarebbe spettato a Togliatti e Longo rassicurare i vertici sovietici contro possibili eccessi che potessero urtare la suscettibilità dei partiti fratelli.
Quando, all’inizio del 1962, con il Congresso di Napoli della DC si aprì la strada alla formazione del primo governo di centro-sinistra, Togliatti non mancò di sottolineare l’ambivalenza della situazione che si apriva, e cioè la possibilità che si verificasse un’operazione “trasformistica” volta a un inserimento subalterno del PSI nell’area governativa, o all’opposto l’avvio di “una svolta a sinistra nella politica nazionale”. In ogni caso era stato considerato prematuro formulare un programma di governo e si era prospettato piuttosto un inserimento del partito nel dibattito sulle proposte avanzate dalle altre forze del centro-sinistra accettando di battersi sul terreno nuovo e più avanzato che si apriva. I mesi che seguirono furono forse i più importanti sia per l’intera esperienza di governo del centro-sinistra, sia per i successivi sviluppi della politica del PCI nel corso degli anni ’60. Nel giro di breve tempo il governo Fanfani varò la Commissione per la programmazione economica, la nazionalizzazione dell’energia elettrica e infine la riforma per la scuola media unica. L’impatto iniziale e il clima nuovo di “aspettative crescenti” che accompagnò questi provvedimenti segnarono una forte discontinuità rispetto al quadro politico-istituzionale che aveva dominato il decennio precedente. Anche per quanto riguarda il PCI, il 1962 fu caratterizzato dall’aprirsi di una inedita dialettica interna, che, a partire dal giudizio sul centro-sinistra, investiva l’intera strategia del partito e la sua collocazione nella società italiana. Di tale realtà fu espressione il Convegno dell’Istituto Gramsci che si svolse a Roma nel mese di marzo e che vide contrapporsi le posizioni di Giorgio Amendola e quelle di Bruno Trentin e di Vittorio Foa, che qui rappresentarono la componente della CGIL più aperta al rinnovamento e alla centralità delle lotte di fabbrica. Per Amendola le trasformazioni in atto nella società italiana non comportavano un mutamento sostanziale del tradizionale modello di sviluppo del capitalismo italiano, né esigevano un linea politica profondamente diversa. L’espansione monopolistica implicava semmai un rinnovato impegno per costruire un movimento generale capace di unire i settori avanzati e quelli più arretrati della società italiana, di allargare la sfera delle alleanze ai contadini, ai ceti medi e ai piccoli imprenditori, aprire la strada a possibili convergenze unitarie sul piano parlamentare, a nuove maggioranze di governo e a sia pur limitati provvedimenti di riforma nel senso di uno sviluppo democratico. L’ambito delle convergenze politiche e istituzionali perseguibili si configurava in tale contesto come prioritario rispetto all’organicità e ai contenuti delle progettate riforme. E in ogni caso tutto ciò non solo non attenuava, ma, se possibile, accentuava il ruolo di direzione e di mediazione politica del PCI rispetto ai movimenti rivendicativi e alle lotte sociali. All’opposto Trentin e Foa, e più accentuatamente altri dirigenti più giovani come Lucio Magri, sottolineavano in convergenza con Ingrao le capacità espansive del neocapitalismo sia sul piano del superamento dei tradizionali squilibri, sia su quello della crescita economica e della predisposizione di moderni strumenti di integrazione di ampi settori della società, e, più che il graduale superamento della rottura del 1947, privilegiavano la prospettiva di un mutamento dei rapporti di forza nel vivo della società italiana che avesse al centro la nuova qualità delle lotte della classe operaia e il controllo operaio nelle fabbriche, la rottura dell’unità politica dei cattolici e l’affermazione di un “nuovo modello di sviluppo” che aprisse la strada a una profonda trasformazione dello Stato e della società. Più che il primato del partito auspicato da Amendola, tutto ciò implicava un pieno recupero dell’autonomia del sindacato, della soggettività dei movimenti sociali e delle iniziative di base, che si andavano sviluppando anche al di fuori dell’area del PCI.
La nazionalizzazione dell’energia elettrica, portata a compimento dal governo Fanfani nell’estate 1962, costituì il primo banco di prova per la politica del PCI nei confronti del centro-sinistra. La direzione del PCI decise da esprimere un voto favorevole, malgrado nel corso dell’iter parlamentare la DC fosse riuscita ad imporre un ingente risarcimento finanziario erogato direttamente alle società elettriche e a cancellare ogni forma di partecipazione dei lavoratori del settore e di controllo sulla gestione del nuovo ente da parte del Parlamento, nonché degli organi della programmazione economica. La questione era stata al centro di un acceso confronto in Commissione parlamentare, dove Aldo Natoli, referente per il PCI, si era scontrato con l’orientamento più accomodante di Riccardo Lombardi, con cui avevano convenuto anche Longo e Napolitano. La vicenda rimane emblematica in riferimento all’intera strategia delle riforme di struttura e alla questione della loro compatibilità con la politica del PCI nei confronti del centro-sinistra. Porre al primo posto la politica delle alleanze e l’allargamento della maggioranza significava, infatti, affidare la politica delle riforme alla via parlamentare e alla ricerca di un accordo con la DC e le forze moderate. Inoltre la prospettiva delle riforme dall’alto e il primato della mediazione politica costituivano una oggettiva remora a colpire gruppi di potere in grado di organizzare una contromobilitazione politica e di influenzare le scelte della DC e degli altri partiti di governo. Quanto di lì a poco sarebbe avvenuto con l’affossamento della progettata riforma urbanistica ne avrebbe costituito una chiara conferma.
Gli ultimi mesi del 1962, con la riforma della scuola media dell’obbligo, rappresentarono insieme l’adempimento delle priorità stabilite dal programma di centro-sinistra e la sua brusca battuta d’arresto. Per parte sua il PCI passò dalla polemica contro l’arresto del programma riformatore, alla denuncia del carattere restauratore del governo Moro, della rinnovata affermazione del predominio e del sistema di potere democristiano, della rafforzata preclusione anticomunista e del tentativo di inglobare il PSI in una svolta neomoderata della vita. In particolare il PCI espresse un categorico rifiuto verso la progettata politica dei redditi, che, nelle condizioni date, si sarebbe risolta in una mera compressione dei livelli salariali. Tuttavia, l’asse attorno a cui ruotò la politica del partito fu non già la liquidazione del centro-sinistra, bensì il suo rilancio sulla base dell’inserimento del PCI nel campo governativo come unica base possibile per il rinnovamento economico e politico della società italiana.
L’aspetto più innovativo dell’elaborazione dell’ultimo Togliatti fu invece un altro. In questo stesso biennio un nuovo grave e ineludibile assillo si collocò al centro dei suoi pensieri, e cioè la minaccia di una rottura del movimento comunista internazionale a seguito del radicalizzarsi dello scontro cino-sovietico. Nel confronto polemico con il PC cinese Togliatti sottolineò soprattutto il pericolo di un arretramento del movimento comunista alla fase precedente il XX Congresso in riferimento sia alla “coesistenza pacifica” , sia all’autoriforma interna dell’URSS e dei paesi socialisti, sia al riconoscimento delle “vie nazionali” e alla fine dello Stato e del partito guida. Respinse anche fermamente le accuse di “revisionismo” rivolte al PCI ed anzi sottolineò con la massima enfasi il nesso inscindibile tra democrazia e socialismo alla base della “via italiana”. E’ significativo tuttavia che l’ultimo T. tracciasse un quadro generale del movimento comunista singolarmente privo di note trionfalistiche e dominato piuttosto dal pericolo incombente di una scissione, la cui principale responsabilità veniva fatta risalire ai comunisti cinesi ma che egli riteneva essenziale scongiurare, sino a confutare la proposta del PCUS di convocare una nuova Conferenza dei partiti comunisti il cui esito sarebbe stato quello di renderla irreversibile. In particolare egli espresse pubblicamente l’esigenza di restaurare pienamente in URSS e nel movimento comunista il “concetto di democrazia socialista”. In precedenza, in un editoriale su “Rinascita” dedicato alla rottura con la Jugoslavia del 1948, T. aveva lamentato l’assimilazione delle “democrazie popolari” all’unicità del modello sovietico e la riduzione “a un problema di terminologia” del “più grande tema storico che i nostri tempi hanno posto al movimento operaio”, e cioè la “ricerca di nuove vie di avanzata verso il socialismo”. Emergevano qui chiaramente quegli stessi interrogativi sulla “riformabilità” dell’URSS e del movimento comunista che sarebbero stati di lì a poco consegnati al Memoriale di Jalta.
La morte improvvisa di Togliatti venne a cadere in un momento estremamente delicato della situazione italiana e internazionale. Il secondo governo Moro, nato sotto la minaccia del Piano Solo, segnava la fase di definitiva involuzione del centro-sinistra e dell’inserimento subalterno del PSI nel sistema di potere DC, dello svuotamento dei progetti di riforma e dell’esautoramento dei loro esponenti più rappresentativi ( da Lombardi a Giolitti). Di lì a qualche mese, la destituzione di Kruschev avrebbe segnato la chiusura delle riforme interne e l’inizio della stagnazione brezneviana, la rottura definitiva con i cinesi e la riaffermazione della centralità dell’URSS nel “campo socialista”, con tutte le ricadute negative sui processi di rinnovamento nei paesi dell’est europeo. L’assunzione della segreteria del PCI da parte di Longo fu caratterizzata nell’immediato da una forte affermazione di autonomia da parte del PCI, con la pubblicazione del Memoriale di Jalta, ma anche per una linea di continuità nella politica italiana sia sul piano della denuncia delle spinte restauratrici del governo Moro, sia su quello di un auspicato spostamento a sinistra degli equilibri interni alla DC e di un’azione unitaria verso il PSI volta a scongiurane la “socialdemocratizzazione”. Proprio quest’ultimo era l’obiettivo politico della proposta lanciata da Giorgio Amendola di dar vita in Italia a un grande partito unico del movimento operaio, che avrebbe dovuto trarre le conseguenze sia dell’asserito fallimento delle esperienze socialdemocratiche, sia della non realizzata egemonia dei PC nei paesi occidentali, e segnatamente dell’incapacità del PSI e del PCI di avviare in Italia un processo di transizione al socialismo. Il programma del nuovo partito avrebbe dovuto prefigurare un polo alternativo alla riunificazione tra i socialisti e il partito saragatiano, senza escludere apporti di tipo liberldemocratico. E’ bene precisare che la proposta di Amendola evitava ogni approfondimento storico e teorico sulla storia del socialismo e del comunismo nel ‘900, sull’URSS e sui paesi socialisti, suonava più come un accantonamento che non come l’avvio di una approfondita riflessione critica e autocritica. Inoltre essa fu percepita come una sorta di azzeramento della storia e della tradizione del PCI e suscitò vaste critiche e prese di distanza variamente motivate (Natoli, Pintor e Terracini espressero voto contrario al CC del dicembre 1964), non ultima quella dello stesso Longo. La proposta di partito unico venne riformulata e ripresa al CC dell’aprile 1965, con una netta delimitazione nei confronti della socialdemocrazia, ma anche la nuova declinazione avrebbe suscitato un’ampia area di dissenso da punti di vista di sinistra (Natoli e Pintor, Garavini, Milani, Occhetto), nonché da parte di intellettuali rilievo (come Luporini e Gerratana) e di rappresentanti della generazione dei fondatori del PCI. Ciò che tuttavia emergeva sotterraneamente era la ripresa di un confronto, destinato a divenire sempre più aspro, sulla crisi del centro-sinistra e sui suoi possibili esiti. Se pressoché unanime era la valutazione sulla battuta d’arresto e sul “fallimento” di quella esperienza, emergevano giudizi profondamente diversi sulle lezioni che il PCI avrebbe dovuto derivarne: e cioè se il PCI dovesse operare per un governo che si proponesse di realizzare alcuni provvedimenti anche limitati di riforma nel quadro del superamento della “pregiudiziale anticomunista” e nella prospettiva di una futura “nuova maggioranza”, o se invece non dovesse privilegiare il proprio ruolo di soggetto autonomo attraverso sia il rilancio di una programma organico di “riforme di struttura”, sia un’azione volta a modificare gli equilibri di potere nel vivo della società. Due temi assumevano in questo ambito un ruolo centrale: e cioè da una parte, la lotta per un nuovo modello di sviluppo che ponesse al centro il ruolo propulsivo delle politiche pubbliche sugli investimenti e sui consumi sociali, nel quadro di una politica di piano e della crescita di una democrazia diffusa; dall’altra, il rapporto tra le lotte operaie, le nuove forme di contrattazione e di controllo direttamente nelle fabbriche, la politica della riforme e l’allargamento della partecipazione democratica. Su questo terreno si sarebbe determinata una convergenza tra dirigenti sindacali da anni impegnati nel rinnovamento della CGIL come Trentin e Garavini, esponenti da tempo segnalatisi per una lettura critica del neocapitalismo e delle profonde trasformazioni in corso nella società italiana, nonché per la sottolineatura dei pericoli derivanti da un primato della politica rispetto ai contenuti riformatori nel centro-sinistra (Natoli, Pintor, Rossanda, Magri), dirigenti di salda formazione economica come Luciano Barca, intellettuali eterodossi come Cesare Luporini, gli stessi leader della FGCI Occhetto e Petruccioli, tutti facenti riferimento a vario titolo alle posizioni espresse al vertice del PCI da Pietro Ingrao. Il recupero delle tematiche del controllo operaio come parte integrante del rilancio di una politica di programmazione democratica e la sensibilità verso la formazione di nuovi organismi unitari di base direttamente nelle fabbriche erano parte integrante di una prospettiva che vedeva nel PSIUP e nella sinistra del PSI, nei gruppi del dissenso cattolico gli interlocutori privilegiati per la formazione di un nuovo blocco sociale alternativo ai governi di centro-sinistra.
Le divergenze emersero in piena luce in occasione della preparazione e dello svolgimento della III Conferenza operaia di Genova, dove la relazione di Luciano Barca rivendicò apertamente il nesso tra programmazione democratica, diritti di cittadinanza in fabbrica e contrattazione di tutti gli ambiti della prestazione lavorativa. A queste tesi si contrappose la critica di Amendola, Alicata, Napolitano e Pajetta, motivata con la priorità da attribuirsi alle mere rivendicazioni salariali, con il pericolo di privilegiare solo le situazioni più avanzate, con il rivendicato primato di una politica delle alleanze fondata sulle più vaste convergenze e con il rifiuto di ogni contenuto anticapitalistico della programmazione. Per parte loro i massimi dirigenti della CGIL Agostino Novella e Luciano Lama si schierarono a difesa delle moderazione delle piattaforme contrattuali, della divisione di ruoli tra partito e sindacato, delle esigenze di mediazione nella Confederazione e della sua struttura organizzativa e istituzionale. Più complessa appare la posizione di Longo, che per l’intero arco della sua segreteria avrebbe coniugato una maggiore disponibilità al dialogo con le componenti di sinistra, coraggiose scelte rinnovatrici (l’apertura al movimento degli studenti nel ’68, il sostegno alla Primavera di Praga e la condanna dell’intervento sovietico) e un forte attaccamento alle tradizioni anche più lontane della storia del PCI.
Per tutta una prima fase, nel corso del 1965, non mancarono da parte di Longo aperture alle istanze della sinistra del PCI e colpi di freno alle sortite più spregiudicate di Giorgio Amendola. Tuttavia, nel momento in cui si aprì la fase preparatoria dell’XI Congresso e mano a mano che si inaspriva il confronto tra le diverse componenti, il segretario si spostò decisamente dalla parte dei sostenitori della continuità piuttosto che del rinnovamento. Nella sua riflessione retrospettiva Ingrao ha interpretato tale atteggiamento come una reazione difensiva di Longo a presunte, anche se ingiustificate, voci di “successione”. Da un esame più ravvicinato delle fonti, emerge tuttavia un quadro più complesso. Anzitutto va rilevato l’attacco frontale da parte della destra del PCI all’intera strategia delle riforme di struttura e il rifiuto del concetto stesso di nuovo modello di sviluppo, definito non solo astratto e irrealistico, ma come una vera e propria deviazione rispetto all’intera eredità di Gramsci e di Togliatti. E’ significativo che entrambi i termini sarebbero stati nei fatti cancellati dal lessico del PCI dopo l’XI Congresso. Ma vi è di più: nel corso del dibattito precongressuale erano emerse due nuove questioni che potevano rappresentare una profonda soluzione di continuità con la tradizione togliattiana. La prima era la critica a una concezione statica della “coesistenza pacifica” come difesa dello status quo nel mondo bipolare, con la conseguente marginalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale nei paesi del Terzo mondo. Nella primavera 1965 Aldo Natoli aveva partecipato a una delegazione del PCI nel Vietnam del nord, che aveva avuto anche incontri con i massimi dirigenti sovietici e cinesi, ricevendone una percezione esaltante del “nuovo internazionalismo” di cui erano portatori i comunisti vietnamiti, ma anche una valutazione molto critica dei condizionamenti e della cautele della politica estera dell’URSS. Ma vi è un secondo non meno delicato ambito di riflessione: un altro tema ricorrente del confronto precongressuale e congressuale fu da una parte la richiesta di una pubblicità del dibattito nel gruppo dirigente del PCI e dall’altra l’accusa di frazionismo e di posizioni “cinesizzanti” nei confronti degli esponenti della sinistra. La pubblicità del dibattito era motivata da Ingrao con l’esigenza di rendere consapevoli i quadri e i militanti del PCI dei processi di formazione delle decisioni e delle posizioni a confronto, al fine di sviluppare una partecipazione attiva dell’intero corpo del partito all’elaborazione della linea politica. Sebbene ciò non implicasse la formazione di correnti, nondimeno ciò significava la necessità di modificare la struttura gerarchica e centralizzata del PCI e gli stessi parametri del centralismo democratico. Nell’un caso e nell’altro si trattava di limiti che si sarebbero rivelati invalicabili.
Tutto ciò può contribuire a spiegare il carattere di vera e propria “resa dei conti” che assunse l’XI Congresso, la riaffermazione della continuità della tradizione del partito e l’accentuazione di una declinazione politicistica delle alleanze e della auspicata “nuova maggioranza” rispetto al rapporto con i movimenti reali e agli obiettivi generali di rinnovamento dello Stato e della società italiana e alla collocazione del PCI nel movimento comunista internazionale. E di qui anche lo spostamento a destra negli equilibri interni al gruppo dirigente, l’isolamento e l’emarginazione degli esponenti della sinistra negli organi decisionali e negli incarichi di partito. In una prospettiva di più lunga durata fu un passaggio cruciale nella storia del PCI. Il PCI sarebbe giunto largamente impreparato all’appuntamento del 1968-69 e dei primi anni ’70. In particolare si sarebbe determinata una crescente sfasatura tra presenza nelle istituzioni e progettualità riformatrice, tra la sfera della politica e quella della società, tra primato del partito e soggettività dei nuovi movimenti sociali (anche se il PCI ne sarebbe stato il beneficiario sul piano elettorale). Il processo di rinnovamento dopo la crisi del 1956, per certi aspetti tutt’altro che irrilevante, rimase incompiuto e l’iniziativa sarebbe passata gradualmente ad altri soggetti sociali e culturali (a cominciare dal sindacato).
Una delle conseguenze più pesanti dell’XI Congresso, fu la diaspora della sinistra del PCI. Ingrao vide profondamente ridimensionato il proprio peso nel gruppo dirigente del PCI e rinunciò al ruolo di punto di riferimento e di aggregazione per la variegata costellazione di coloro che ritenevano improrogabile un profondo rinnovamento della cultura e della struttura organizzativa del partito. Egli stesso fece la scelta di dedicarsi a un tema di decisiva rilevanza, e cioè alla questione dello Stato, ai rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia diffusa, tra istituzioni e società e ai nuovi compiti che in questo campo i comunisti avrebbero dovuto assolvere. Meno incisiva, tuttavia, sarà la sua azione di stimolo al rinnovamento politico-culturale e all’elaborazione della linea generale del PCI e più ancora sul piano delle scelte di volta in volta effettuate negli anni della segreteria di Longo e poi in quelli del “compromesso storico” e della “solidarietà nazionale”, una linea di tendenza che non poteva che accentuarsi a seguito della rottura con il futuro gruppo del Manifesto e dell’assunzione di alte cariche istituzionali. Altri quadri dirigenti vicini a Ingrao ripiegarono su posizioni meno “eterodosse” per confluire poi nella nuova maggioranza guidata da Enrico Berlinguer. Diverso fu il percorso di dirigenti sindacali come Trentin e Garavini, già protagonisti del “ritorno alla fabbrica” dei primi anni ’60: il grande ciclo delle lotte operaie del ’68-’69 li vide protagonisti del rinnovamento della CGIL e della costruzione del sindacato dei consigli, con tutte le ricadute sui processi unitari anche a livello confederale e nell’avvio di una strategia complessiva che tendeva a coniugare il controllo operaio nelle fabbriche e l’iniziativa per le riforme, in una prospettiva di allargamento della democrazia dalle istituzioni alla società. Ma altri furono gli interlocutori privilegiati dalla dirigenza del PCI.
Infine all’XI Congresso risale il percorso formativo del futuro gruppo del Manifesto. Privati di incarichi di responsabilità, Natoli Rossanda, Pintor e Magri ebbero viva la percezione che in Italia si era ormai di fronte al passaggio da una “guerra di posizione” e una “guerra di movimento” e quindi della necessità e urgenza di proseguire nell’impegno per un profondo rinnovamento della cultura politica del PCI, andando oltre le stesse problematiche sollevate all’XI Congresso. La nascita delle rivista è inseparabile dal grande sommovimento politico e sociale che in Italia e a livello internazionale caratterizzò l’intensa e irripetibile stagione del ’68. Una prima questione dirimente fu il superamento della distinzione tra base socialista e degenerazione del potere statale che aveva ispirato la critica togliattiana del “culto della personalità”, e l’impulso a un’analisi marxista dell’URSS e dei paesi dell’est nella prospettiva di una vera democrazia socialista e del rifiuto dello statalismo anche nel campo dell’economia. Una fonte di ispirazione in tal senso fu costituita dalla rivoluzione cinese, nonché da una rivisitazione antistalinista del pensiero di Mao e della rivoluzione culturale intesa in una valenza antiburocratica, di partecipazione diretta e di gestione dal basso della politica e dell’economia. Al di là di innegabili forzature ideologiche, tale lettura proponeva una critica al modello sovietico alternativa a quella dei gruppi filocinesi, che condannavano l’URSS sulla base dell’auspicato ritorno all’ortodossia marxista-leninista. Più in generale si sollecitava il PCI ad abbandonare il collatelarismo filosovietico e a farsi promotore di un “nuovo internazionalsimo” sviluppando rapporti autonomi con i partiti comunista vietnamita e cinese e con i movimenti di liberazione antimperialista, a mantenere viva la solidarietà politica con gli esponenti destituiti della Primavera di Praga, contrastando le risorgenti tendenze a una normalizzazione nei rapporti con il PCUS, dopo la stagione del sostegno al “nuovo corso” e della condanna dell’intervento del Patto di Varsavia.
Un secondo aspetto da sottolineare è l’attenzione privilegiata ai nuovi movimenti sociali (a cominciare dagli studenti) e alla nuova qualità delle lotte operaie, con la loro carica dirompente nei rapporti di potere in fabbrica e nello sviluppo delle esperienze e della democrazia di base, anche nei confronti dei vertici sindacali e della struttura tradizionale del sindacato. La sollecitazione al PCI a unificare e ad estendere le lotte operaie e le loro istanze di potere, superando le cautele politiche e le resistenze dei gruppi dirigenti delle Confederazioni, andava di pari passo con la richiesta di rovesciare la prospettiva di un inserimento del PCI nel centro-sinistra, costruendo un’alternativa anticapitalistica direttamente nel paese e commisurandovi la politica delle alleanze. Ed infine la scelta più dissacrante, e cioè quella di promuovere la pubblicità del dibattito dando vita ad una rivista autonoma e non autorizzata dagli organi dirigenti del partito. Si trattava di una sfida aperta al “centralismo democratico” riproponendo su un terreno anche più avanzato le istanze soffocate all’XI Congresso.
Certo, il limite maggiore dell’elaborazione della rivista fu il mancato rilancio della ricerca sul nuovo modello di sviluppo che aveva animato il confronto nel PCI alla metà degli anni ’60, per essere bruscamente accantonato dopo l’XI Congresso. All’opposto sembra aver largamente prevalso una tendenza a contrapporre a una politica delle riforme, giudicata comunque velleitaria e perdente, la crescita dei movimenti dal basso come unica possibile alternativa di potere. In definitiva, ciò che appare rimosso è il nesso tra la nuova qualità delle lotte operaie e l’irrompere dei nuovi movimenti sociali e il riaprirsi di una dialettica interna alle forze di governo e di un clima politico-sociale favorevole a una politica di riforme (si pensi alla riforma pensionistica, allo Statuto dei lavoratori, alle leggi sul divorzio e sull’ordinamento regionale) a cui le forze della sinistra avrebbero potuto imprimere il proprio segno. Ma a ben vedere, già in questa prima fase affiora nella rivista una diversificazione tra due diverse letture della realtà italiana e tra due prospettive politiche profondamente diverse. Si può ipotizzare che il fatto che abbia prevalso l’una piuttosto che l’altra tendenza non sia stato del tutto irrilevante per le successive vicende della sinistra italiana.