La sinistra in Italia e in Sardegna
1 Giugno 2017Massimo Dadea
La dannazione storica che tormenta la sinistra si chiama “scissione”. Ancora una volta sembra riemergere il vecchio vizio di dividere l’atomo. Da quasi un secolo la sinistra si attorciglia intorno all’antica contrapposizione tra riformisti e massimalisti: una “coazione a ripetere” che la condanna, specie nei momenti topici, alla frantumazione, all’inazione. Eppure di sinistra ce n’é una: quella che sta dalla parte dei più deboli, degli emarginati, dei senza lavoro, quella che difende la Costituzione. Oggi l’arcano che sembra dividere le diverse anime – MDP, SI, Campo Progressista, Possibile – gira intorno ad un nome, Matteo Renzi: no all’Io renziano, ma anche no a uniti si, ma senza Matteo. Qualcuno, molto pragmaticamente, afferma che non sia necessario dilaniarsi intorno a questo quesito, basta convenire che lo schieramento da costruire sia un centro-sinistra di governo, e che il PD possa degnamente rappresentare il centro. Ma evidentemente il problema non è solo quello di un insieme di partiti e di movimenti che si mettono insieme per vincere le elezioni. Per governare l’Italia ci vuole un “Progetto”. Di fronte ai nuovi e ai vecchi populismi, all’odio razzista e xenofobo, alle politiche neoliberiste che fanno diventare i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, bisognerebbe mettere da parte le divisioni e impegnarsi a costruire un “Progetto” condiviso, capace di modificare, in profondità, la realtà politica, sociale, economica e culturale, del nostro Paese. Questo e niente altro deve essere l’elemento coagulante o divisivo intorno a cui costruire una sinistra unita e di governo. Nella nostra isola è ancora più complicato. La sinistra deve prendere atto che si è oramai logorato il patto costituzionale che lega la Sardegna allo Stato italiano. La società sarda è percorsa da un bisogno, sia pure generico ed indistinto, di autogoverno e di autodeterminazione. L’idea che i sardi possano prendere nella loro mani le sorti del proprio destino è più diffusa di quanto si creda. Di fronte a questi bisogni, la risposta non può essere la stanca riproposizione della Autonomia Speciale, o di quel che rimane di essa. L’Autonomia è finita e con essa è finito il patto Costituzionale che lega la Sardegna allo Stato italiano. Quel patto è stato disatteso e disconosciuto per primo da uno dei contraenti, lo Stato italiano. Ma una parte importante di responsabilità è da ricercarsi nell’incapacità, nella inconcludenza e nella sudditanza della classe politica dirigente sarda, che non è stata capace di utilizzare a pieno tutte le potenzialità dello Statuto d’Autonomia. La verità è che l’Autonomia è nata zoppa, minata da un peccato originale che ne ha condizionato le potenzialità: è stata concepita come una mera rivendicazione economico sociale finalizzata a colmare una arretratezza antica. Da qui l’articolo 13 dello Statuto e il relativo Piano di Rinascita. Quella che si è affermata è un’Autonomia “illusoria”: l’illusione di un riscatto concepito soltanto in termini economici – affidato in gran parte all’industria petrolchimica e al consumo e alla rapina del territorio – e non una Autonomia che giustificava la sua specialità sulla identità e sulla soggettività politica e culturale di un popolo che prima di essere italiano è sardo. Prendere atto della fine dell’Autonomia è il primo passo per intraprendere strade nuove ed originali. L’ obbiettivo che deve porsi una sinistra sarda, moderna, autonoma, in sintonia con la parte più avanzata della società sarda, è la costruzione di una alleanza che metta insieme, intorno ad una “Idea” precisa di Sardegna, ad un grande progetto di cambiamento, tutti quei movimenti, anche di ispirazione indipendentista, che guardano con senso di responsabilità e di realismo a quel bisogno di autodeterminazione e di autogoverno che sempre più prepotentemente viene da una parte consistente del popolo sardo.