La tutela degli eroi
16 Maggio 2007di Marcello Madau
La questione delle ‘nazionalità’ proibite produce innovazioni, aggregazioni, sensibilità politiche importanti e singolari falsificazioni: anche in Sardegna, attraverso la costruzione della memoria culturale, si stanno configurando rilevanti aspetti di invenzione della tradizione e forzature ideologiche dei sistemi simbolici costruiti sul passato, in particolare sui monumenti dell’archeologia e sul patrimonio demo-antropologico (con il quale non di rado l’archeologia si fonde).
Il corto circuito fra Lumi e maturare del capitalismo della rivoluzione industriale produsse in Europa, all’ombra del Grand Tour, una serie strepitosa di falsi (rispetto a Canti di Ossian, kilt degli scozzesi e druidi biancovestiti a Stonehenge la Sardegna non si fece trovare impreparata, e rispose con fantastici bronzetti supposti nuragici, le Carte d’Arborea e personaggi come Gialeto e Antonio da Tharros); il quadro si rinnova, con maggiore potenza, nell’attuale meccanismo del mercato globale e del nuovo viaggio, dilatato nella sfera planetaria e nel cyberspazio, con rilevante produzione di profitto tramite le rappresentazioni dello spettacolo.
L’attuale globalizzazione costruisce più che annullare le identità, ponendole al bivio fra l’individuazione di elementi reali e la costruzione di prodotti consoni alla nuova domanda di selvaggio, arcaico e tipico emergente dal mercato del tempo libero. Stretto il legame di tale opzione con la tutela: il fatto che un autogoverno del territorio si orienti verso ipotesi chiuse o aperte all’alterità sarà in stretta relazione con una lettura della storia e del suo bene comune (la straordinaria e irripetibile serie di monumenti e paesaggi) che ne allarghino o restringano sfera pubblica e attori. Le competenze vanno allargate, non separate o trasferite.
Di fronte ai ‘non luoghi’, luoghi così forti, densi, precisi, pieni di storia e scarsi di antropizzazione come quelli sardi ci regalano forti emozioni e valori alti di qualità della vita la cui difesa è centrale; c’è una visione esclusivistica che non ne coglie il senso e la forza, col rischio evidente di consegnare le identità nazionali a chi controlla, dai non luoghi, il mercato del tempo libero, della valorizzazione dell’arcaico e del tradizionale, dove si afferma non tanto l’oggetto più veritiero, ma quello più attraente e redditizio; o, comunque, quello più famoso e di pregio (si veda, ad esempio, l’idea del Ministro Rutelli sui grandi eventi nazionali delle tradizioni popolari, mentre si latita ancora su un vero sistema di tutela dei beni demoantropologici).
Nella costruzione della memoria culturale è fondamentale il ruolo dell’archeologia, a maggior ragione in Sardegna, dove non è quasi possibile pensare di separare il paesaggio dal nuraghe, emblema non casuale nella stessa fulminante vignetta di Vauro da noi pubblicata nel primo numero.
Il periodo nuragico (1500-509 a.C.) è simbolo dell’indipendenza perduta, testimonianza contrappresentistica di sardi antichi e potenti, resistenti prima e dopo, shardana che invasero l’Egitto dei Faraoni, da ultimo pure atlantidei. Nella diversità che si connota come originaria purezza emergono l’aggressione all’alterità, la supervalutazione di se stessi (“quando voi romani avevate le capanne sul Palatino, noi avevamo i nuraghi”), la ‘razzizzazione’ verso l’esterno. Ad esempio, alla fase storica di quei sardi che in qualche modo si omologarono in età ellenistica alle comunità puniche della Sardegna, formando una koinè di rilievo ed evidenza culturale, viene attribuita da uno storico neo-nazionalista come Francesco Cesare Casula una “cultura sardo-punica «bastarda e poco edificante»”.Ora per allora. E’ possibile pensare diversamente questa ‘antica stirpe’? Definirne i valori nella purezza oppure in un profilo più meticcio? Articolarne almeno gli elementi?
La cultura nuragica non appare così univoca come pretende la mitopoiesi identitaria. I principi nuragici che conosciamo dai magnifici bronzetti a cera persa negli stili di Abini ed Uta, e dalle statue colossali del Sinis, sembrano integrarsi ai colonizzatori fenici (molti andarono a morire nei cimiteri delle città semitiche e non più nelle classiche sepolture nuragiche, come suggeriscono gli scavi di Bithia e Tharros) o trovarono nuova fortuna nell’Etruria Mineraria. Le botteghe artistiche erano consce dei linguaggi internazionali dell’arte geometrica e orientalizzante. Gli eroi militari nuragici negoziarono a loro modo terre, coste e miniere in favore dei viaggiatori vicino-orientali, forse partecipando assieme a loro alla costruzione del nuovo e rivoluzionario progetto urbano che non poterono fare, pur avvicinandosi ad esso, da soli.
Colpisce negli attuali apparati identitari l’adesione ai segni di eroismo militare e unicità che rasentano il mito della purezza etnica, antiche indipendenze e nuove mitologie galvanizzate da un rosario irrefrenabile di scrittori etnicamente corretti, maschere, cicli poetici e balli tradizionali inventati. E oggi la memoria culturale doveva necessitare di nuova linfa per come l’ipotesi atlantidea ha subito trovato fortuna nel nazionalismo sardo e nella produzione di segni commerciali, come prontamente elaborato dalle nostre istituzioni nella Borsa Internazionale del Turismo tenutasi a Milano nel 2003.
Elementi sparsi, contradditori, meticci, vivissimi. Non lineari. I shardana attaccarono gli egiziani, furono guardie scelte del Faraone, ma scesero anche a fianco degli hittiti che dell’Egitto erano feroci avversari; i guerrieri nuragici si allearono ai fenici, e prima ancora ai micenei. E la costante resistenziale, che il grande archeologo Giovanni Lilliu immagina custodita ed elaborata per secoli e millenni, dopo la conquista cartaginese e quella romana, sino a noi, nelle montagne e negli altopiani a modo pastorale della Barbaria, se non può essere liquidata come un artefatto ideologico, va forse legata, più che ad aristocrazie nuragiche in realtà non resistenti, alle popolazioni indigene ad esse subalterne, che non erano committenza per bronzisti e scultori. Ai pelliti chiamati secoli dopo da Ampsicora alla ribellione contro i romani sul declinare della seconda guerra punica.
Ampsicora – uno degli eroi identitari più finanziato nelle celebrazioni dell’autonomia – era il maggiore fra i latifondisti, al servizio di Cartagine contro la Roma repubblicana, e forse nelle sue terre viveva a livello servile proprio qualche sardo pellita, poi sottoposto a coscrizione obbligatoria. La nostra lingua – compresa quella da poco ufficiale, di mezzo – è quella ricevuta dall’impero romano.
In una ricognizione archeologica nel sud della Sardegna incontrai un servo-pastore al quale chiesi dove si trovasse un sito di cui conoscevo il toponimo, ma che non riuscivo ad ubicare. Mi indicò luogo e percorrenza con grande precisione, corredando il contesto con altri toponimi locali. Era macedone, conosceva benissimo il territorio che lo campava e al quale dava il suo tempo vitale, insomma un vero sardo.
L’esposizione al Mediterraneo, pur lenta, di lunga durata e costante, indica che gli episodi più rilevanti della nostra identità nascono nelle relazioni con gli altri, sono meticci; la forza della cultura sarda è anche la capacità, volta per volta, di rigenerare l’apporto altrui. Siamo una terra fortunata dal punto di vista del paesaggio e dei beni culturali per l’inusitata serie di depositi e risorse; ora ce ne occupiamo di più, ma rischiamo di fare i servi passivi dell’industria culturale e della società dello spettacolo. Troppi segnali, in questo senso, anche nelle politiche regionali. Serve più dignità e maggiore consapevolezza scientifica.
La discussione sull’identità deve svilupparsi e, se necessario, inasprirsi. Il raffinato capitale e lavoro cognitivo che possediamo va messo al servizio, senza cedere in qualità scientifica, di una vera rinascita e dell’autogestione dei possibili modelli di sviluppo sostenibile, ponendo come conditio sine qua non la tutela ampia del paesaggio culturale, la sua gestione, il rifiuto della svendita. L’alternativa, a noi nota, è quella di fare, per nuovi padroni dei quali già si leggono i nomi prestigiosi, i nuovi precari del tempo libero.
23 Agosto 2007 alle 17:22
Commento numero 1:
reazione lenta e malposta dell’ideologia marxista all’affermazione, sia pure tortuosa, dell’identità sarda.
Commento numero 2:
“mercato del tempo libero”, “non-luoghi”, “globalizzazione selvaggia”
questo scritto mi sembra a metà tra un manifesto sovietico e una lettura svelta di un manuale di sociologia…
Commento numero 3:
stasera, per farti contento, intoniamo tutti in coro “voglio un nuraghe” al posto di “voglio una donna”, così le tue teorie saranno verificate.
23 Agosto 2007 alle 23:22
Al ragionamento si dovrebbe replicare con il ragionamento; ma non a tutti è consentito. Quando vi è unicamente voglia di aggredire e tranciare giudizi, peraltro maldestramente assortiti, l’unica risposta possibile è riservare, nell’apertura alla presenza, questo piccolo spazio per non sprecarne troppo.
6 Ottobre 2008 alle 17:41
Considerazioni acute degne di chi non si ferma alla superficie dei problemi, frase esemplare: “Serve più dignità e maggiore consapevolezza scientifica”.
La consapevolezza va anche supportata da un’apertura che interpreti la visione globale del proprio patrimonio culturale in senso positivo e ne conduca le sorti con giuste definizioni che ne configurino le vere caratteristiche innegabili di unicità e qualità.