La zona di interesse: un tuffo al cuore occidentale
7 Marzo 2024Un fotogramma del film
[Aldo Lotta]
Premetto di avere molte difficoltà ad esprimere a parole quello che provo in relazione alle vicende della Palestina, proprio per rispetto al grado di indicibilità della sofferenza provata da chi sta subendo un tale massacro, ma non posso non cogliere, e cercare di condividere, un messaggio che un regista sta trasmettendo a noi tutti attraverso quell’ineguagliabile strumento di percezione del mondo e dell’umanità che è l’arte.
In questi giorni è in programmazione nelle sale cinematografiche un film prodigioso, destinato a essere ricordato come un vero capolavoro: La zona di interesse, di Jonathan Glazer. Il regista espone al nostro sguardo le sequenze di oscenamente idilliaca quotidianità, insieme alla sua famiglia, di Rudolf Hoss, comandante in capo del campo di Auschwitz. Le scene si svolgono appena fuori dal lager, in una lussuosa villetta con tanto di prosperoso giardino, separata dal campo di concentramento da un muro sormontato da filo spinato.
Senza voler indulgere nella trama, per altro agghiacciante nella sua esibita ordinarietà, vorrei sottolineare un potente e disperato richiamo, non tanto recondito nel film, al nostro essere-qui-ora. Non siamo in fondo noi occidentali delle persone che vivono la propria quotidianità sfiorando quel terrificante gelido muro, politico e mediatico, che ci separa dal vero e proprio inferno che è Gaza, campo di concentramento, mattatoio, cimitero a cielo aperto? Una Auschwitz odierna, che come allora non sembra turbare le coscienze di molti di noi.
Il famoso antropologo e docente di studi post-coloniali Ian Chambers afferma che Gaza (e la Palestina) è il cuore nero delI’occidente coloniale. In tale prospettiva l’occultamento e la falsificazione dei fatti offerti dai media sono un perfetto, efficace strumento al servizio del potere, al fine di distruggere impunemente la vita di un intero popolo: da almeno 75 anni i palestinesi vivono nella quasi assoluta invisibilità, subendo un genocidio per lunghi periodi sotto traccia e oggi, dopo essere stati sottoposti alla tradizionale strategia della disumanizzazione vivono, appena al di là del muro, un progressivo anonimo annientamento. E la Palestina, culla di civiltà millenarie di inestimabile valore culturale ed esistenziale per tutte le genti del Mediterraneo, sta diventando definitivamente invivibile (naturalmente per i palestinesi).
Non è sorprendente che recentissimamente un aviere americano si sia immolato dandosi alle fiamme davanti all’ambasciata israeliana a Washington. Il suo gesto costituisce uno di quegli atti estremi (che si spera sempre non diventino esempi per altri) attraverso cui coscienze particolarmente sensibili cercano di inviare al mondo una propria disperata richiesta che è sempre quella di distruggere il muro di indifferenza e complicità di fatto col potere che consente la realizzazione dell’inferno sulla terra.
Le ultime parole di Aaron Bushnell, questo il nome del militare, sono state “Palestina libera”. “Non voglio più essere complice del genocidio. Sto per compiere un atto estremo di protesta, ma rispetto a quello che sta provando la gente in Palestina per mano dei suoi colonizzatori non è affatto estremo. È ciò che la nostra classe dirigente ha deciso sia normale. Palestina libera,” ha detto in un video girato mentre camminava davanti all’ambasciata.
Ma mentre in passato episodi analoghi, come nel caso del cecoslovacco Jan Palach o del tunisino Mohamed Bouazizi, hanno giustamente ispirato la percezione e celebrazione nei protagonisti di gesti così estremi il desiderio eroico della libertà e democrazia, riguardo alla vicenda di Aaron i politici e la stampa si sono affrettati a ricercare nel suo passato momenti oscuri, per poi poterne sancire, secondo un comodo cliché, lo stigma di deviazione etico-professionale e mentale.
In realtà le parole su cui dovremmo umilmente soffermarci, sono: “quello che sta provando la gente in Palestina”. Infatti, diversamente dalla situazione del film e del periodo storico in cui si svolgono le sue vicende, sento che il nostro muro è trasparente. I fatti (non le “notizie”) si svolgono sotto i nostri occhi, sempre che li si voglia vedere, ascoltare. Mentre non ho ancora concluso di scrivere le mie riflessioni apprendo da una delle tante fonti facilmente fruibili che a Rafah una folla che si accalcava davanti un ospedale è stata colpita da uno dei tanti bombardamenti israeliani. Tra le tantissime vittime una donna ha perso il marito e i suoi due gemelli di pochi mesi, avuti (sento dalla sua voce) dopo 11 anni di tentativi e cure per il concepimento.
Ma riprendendo le parole di Ian Chambers ciò che in questo magma distruttivo delle istanze etiche e giuridiche sembra potersi finalmente intravedere è “una crescente divergenza pubblica all’interno della stessa società occidentale tra i sentimenti popolari e le istituzioni politiche che dovrebbero rappresentarli” e oggi specie in un Paese come il nostro, il cui regime è strettamente e ottusamente alleato e giuridicamente complice del genocidio di Israele, volersi battere pacificamente per il futuro della Palestina significa voler salvare non solo il futuro della nostra democrazia ma la dignità morale di chiunque ad essa si richiami.