L’Accabadora e la tragedia della guerra: il cinema come strumento di una cultura umanitaria
1 Maggio 2017Aldo Lotta
Le rovine di Cagliari nel 1943: uno scenario contingente ma tragicamente attuale e universale che evoca le immani conseguenze, materiali e psicologiche, della guerra. Tra le macerie della città, una donna trae coraggio dalle proprie fragilità per affrancarsi da un passato insostenibile e ritrovare attraverso la solidarietà e l’amore la consapevolezza di una propria originale, tenerissima, identità esistenziale.
Il cinema sa, a volte, riscoprirsi “lanterna magica”, per cogliere quanto di essenziale e inosservato è insito nell’universo umano. Enrico Pau, anche con il suo bellissimo L’Accabadora, esprime la sua natura di poeta-ricercatore e, varcando i confini dell’ovvio, del banale, trascende anche i confini del tempo. Con Pesi leggeri e Jimmy della collina il regista ci aveva condotti nella dimensione quotidiana e sofferta di una città, Cagliari, il cui inalienabile rapporto col mare permetteva un confortante sentimento di apertura alla ri-nascita e speranza, in grado di mitigare gli affanni dei protagonisti.
Con L’Accabadora Pau compie un viaggio a ritroso nel tempo, che aiuta a ri-trovarci in un momento sospeso, cruciale e drammatico della nostra storia e in particolare della storia della sua città, (delle vicende individuali dei suoi abitanti), in cui il mare non può più, scompare, come la speranza, dal nostro sguardo, nascosto dal fumo delle bombe: i bombardamenti massicci del 1943 fanno parte di quei ridimensionamenti bruschi che la storia infligge alle persone, per riporle davanti allo splendore della propria umanissima fragilità. La protagonista è significativamente una donna, che nella Cagliari martoriata di quei giorni immerge la propria struggente fragilità.
Annetta (bravissima e intensa Donatella Finocchiaro) giunge nel capoluogo alla ricerca della giovane nipote Tecla (una convincente, e promettente, Sara Serraiocco), fuggita dal paese. Nella sua personale Odissea nei meandri delle rovine fisiche e dell’anima della città, Annetta scoprirà, attraverso lo strazio, la paura, la fame, la disperazione, ma anche attraverso l’amore, la solidarietà, l’estrema pietà per l’altro, che il suo viaggio è, soprattutto, una fuga da una condizione personale, da un ruolo assegnatole da altri (“una fossa in cui sono stata seppellita”): quel “compito” supremo e terribile di “donare” la morte, così come si dona la vita, che non può che essere, nella antica controversa tradizione orale sarda, un “compito femminile”. Prigione troppo stretta e fardello troppo pesante per chiunque.
Il cambiamento “evolutivo” della protagonista, di cui è parte indissolubile la figura del medico che Annetta incontrerà tra le brande degli ospedali improvvisati (bellissima l’interpretazione senza doppiaggio di Barry Ward), è emblematico di un universo femminile che oggi come allora cerca, a volte anche solo inconsciamente, di liberare la propria individualità. Un film, dunque, con una intensa connotazione femminile. Ma anche dotato di uno sguardo attento sul valore salvifico dell’amore, nella sua valenza più ampia e profonda. E mentre, attraverso l’intenso rilievo impresso nei ruoli femminili sulla dimensione della donna custode della vita e della “pietas”, il regista richiama, come dolente contrasto, il vuoto di oggi di responsabilità civica e istituzionale riguardo il tema dell’eutanasia, egli, con rimandi quasi tolstoiani, ci inchioda di fronte alle atroci conseguenze della guerra, al di là di qualsiasi confine di spazio e di tempo.
Dunque, al di là delle contingenze storiche-geografiche, un appassionato (delicato e poetico) affresco su un’umanità che prova a ritrovare, nella sventura estrema della guerra, un orizzonte ampio, autentico e salvifico di valori: nulla può risultare più attuale e universale. L’Accabadora si situa nel ricco panorama di opere attuali e recenti che registi (ma anche scrittori) della nostra isola stanno regalando ad un pubblico quanto mai vasto, attento a suggestioni culturali che vadano oltre i canoni della tradizione, a favore dei significati universali. Ciò in coincidenza con uno straordinario processo in corso di lettura pubblica e diffusione capillare del pensiero di Antonio Gramsci.
Un pensiero il cui fulcro è proprio il concetto di cultura come strumento imprescindibile per qualsiasi progetto di crescita individuale e collettiva e che risulta oggi tra i più vivi e più studiati al mondo, specie tra i popoli che combattono contro la logica delle guerre e dello sfruttamento. Mentre l’odio di Gramsci per l’indifferenza ci invita a prendere parte per i diritti dell’uomo, specie di chi per vari motivi è maggiormente soggetto a violenze e oppressioni. Una cultura, quindi, generatrice di domanda valorizzabile, attraverso, soprattutto, il riconoscimento della sua universalità. La Dichiarazione di Friburgo, nata dal bisogno di valorizzare le istanze culturali per la loro capacità di abbattere i muri e i confini, stabilisce che ogni persona ha il diritto di scegliere e veder rispettata la propria identità culturale e che “nessuno può essere assimilato ad una comunità culturale contro la propria volontà”.
15 Maggio 2017 alle 20:20
Mio padre fu una delle 400 e più vittime dei bombardamenti su Cagliari. Il suo corpo fu trovato, assieme a tanti altri, sotto la macerie di un palazzo all’incrocio tra via Sonnino e via XX Settembre, colpito in pieno da una bomba, domenica 28 febbraio 1943. Debbo ringraziare Enrico Pau che mi ha mostrato, oggi, il luogo dove sono venuto alla luce, venti giorni dopo, e che conoscevo soltanto per il racconto, a mo’ di mantra, di mia madre. Racconto che mi suonava alquanto favolistico nell’infanzia e che nel tempo ho preferito trasformare in una potente riflessione sulle guerre e la loro natura.
Il rifugio di Pau (i sotterranei dell’ospedale San Giovanni di Dio?) dove si svolge una parte della narrazione, è stata la mia prima dimora.
Senza dubbio mi sono sentito solidale con Annetta, il cui ” destino” era l’esercizio di una pietà da molti, troppi, considerata crudele, seppur spesso richiesta per por fine a sofferenze inutili. Il prezzo di questa “odiosa” missione è la solitudine, spesso il rimorso, quasi certamente lo stigma degli ipocriti e la conseguente emarginazione sociale.
Le nostre guerre odierne, invece, quelle che ammazzano in quantità industriale e distruggono senza guardare in faccia le vittime, sempre dall’altro dei cieli. servono a portare democrazia, hanno fini umanitari e devastano semplicemente come effetto collaterale. Un film che tanti dovrebbero vedere, soprattutto i giovani. Perchè abbiamo tutti bisogno di restare umani.