L’agonia di HyC, in parole semplici
16 Aprile 2018[Marinella Lőrinczi]
In uno splendido pomeriggio di aprile siamo andate a camminare, con l’amica M. che abita a Poggio dei Pini (Capoterra), lungo la accidentata fascia di esondazione del torrente Rio S. Gerolamo, pavimentata con sabbia e ghiaino rosso ruggine, abbastanza scivolosa e infida. Tutt’intorno colline ricoperte di macchia mediterranea e di una fioritura primaverile incantevoli.
Ci affacciamo da una roccia e scorgiamo sotto di noi uno strano edificio abbandonato. Strano perché architettonicamente sofisticato, quasi a forma di granchio, rivestito di mattoni rossi interrotti da fasce bianche di travertino, in una sorta di bicromia romanica pisana rivisitata, e saldamente e autorevolmente recintato con grossi pali appuntiti piantati nello zoccolo di cemento. In seguito, documentandomi, verrò a sapere che la bella costruzione è stata progettata in uno studio romano.
Accanto all’edificio, in uno spiazzo che doveva servire da parcheggio, è cresciuto, sull’umido terriccio che si è accumulato sull’asfalto a macchie irregolari, un folto tappeto di piante basse rosse, una specie di piante grasse mescolate a chiazze di margheritine bianche. Non c’è designer di tappeti moderni che potesse inventare un disegno così affascinante. Giù a rotta di collo per vedere questa meraviglia da vicino. Troviamo l’ingresso che dà sulla tortuosa strada intercollinare che collega Capoterra con Poggio dei Pini. Il cancello è senza lucchetto, sulla recinzione nessun cartello. Entriamo sperando di non avere brutte sorprese, siringhe abbandonate e loro proprietari. Nulla di ciò, per il momento.
La stranezza dell’edificio si rivela pienamente nella sua labirintica complicazione, come l’interno di un cervello. Stiamo girando senza sapere in che direzione stiamo andando. Un susseguirsi surreale di vani destinati a uffici, di bagni con resti rotti di sanitari, di corridoi, di scale. Si esce, si rientra, si sale, si scende. Balconate tutt’intorno. L’intero tetto è a terrazze, in una c’è ancora il gazebo predisposto per qualche ricevimento o rinfresco. In un altro angolo è cresciuto un fico d’India spinosissimo. Al pian terreno, in una sorta di patio, c’è o è sopravvissuta una yucca, ben sviluppata. Da qualche parte vediamo un bancone da bar, con i due lavelli, qualche posata di plastica, ovviamente il frigo non c’è più. L’interno dell’edificio è completamente vandalizzato e demolito.
Sono rimasti i resti semidistrutti di qualche tavolo, di qualche sedia, di qualche computer di vecchissima generazione, di una fotocopiatrice, qualche lampadario penzola, altri sono caduti sul pavimento rompendosi. Lastre di metallo arrugginite a mucchi, dalla destinazione incomprensibile. Tubi dappertutto e corrugati a volontà (ne ho preso un pezzo come souvenir). Camminiamo sopra ante di porte o di armadi scardinate, in bilico su mucchi di detriti, cercando di non ferirci coi chiodi che sporgono, passiamo sopra finestre buttate per terra – quelle che non sono state portate via – dai vetri antisfondamento spaccati che ora scricchiolano sotto le nostre scarpe. Sentiamo delle voci, una signora e un signore stano compiendo la stessa nostra visita. La signora, passandoci accanto, dice “Io qui ci ho lavorato”. Vanno oltre in fretta, noi pure per la nostra strada, si fa per dire, ché non si sa dove porti.
Dopo un po’ ci rincontriamo, ci presentiamo, chiediamo alla signora A. che impressione le ha fatto quel che ha visto e lei si mette a piangere. Il marito è furibondo. Non capiamo fino in fondo finché non ci dicono che ci troviamo nella sede di quel che era la Hydrocontrol, un centro di ricerca e di formazione per il controllo dei sistemi idrici in Sardegna, roba di poco conto, nel quale la Regione ha investito centinaia di migliaia di euro, fallito o chiuso da una decina d’anni. Ci accompagnano, inciampando qua e là in qualche asse, in un vano dell’edificio che ci è sfuggito, strano perché è amplissimo. Probabilmente era diviso in studi con dei pannelli che non ci sono più. Tutto il pavimento è ricoperto di montagne carte, cartelle, classificatori pieni di documenti, atti di congressi in francese inglese e italiano, fasci di cartine idrogeologiche, corpose statistiche pluviometriche degli ultimi sessant’anni (fino al 1997) in vari punti dell’Europa, grandi cartine arrotolate di altre regioni e paesi, ancora in buone condizioni, qualche dischetto qua e là. Si può vedere solo questo, chissà cos’altro c’è sotto.
La scaffalatura e gli armadi sono scomparsi, chiaramente. In cambio la coibentazione del soffitto ci è caduta sopra. “Questa era la nostra biblioteca, il nostro archivio, qua ci sono le mie ricerche, i miei documenti, ci ho lavorato per quindici anni!”. Come mai non li hanno messi in salvo? Non oso chiederlo. Ci salutiamo. Stiamo andando via ma torneremo per fare foto. Ma prima facciamo un giro nel parco bellissimo, che ha sentieri lastricati e lampada basse (e distrutte) per illuminarli, e dove gli alberi hanno preso proporzioni maestose. Qua e là un po’ di immondizia portata da fuori, non troppa, tra cui un bel mucchio di gusci di ricci. Torniamo dopo una settimana. Nel frattempo mi sono documentata: ci erano venuti anche quelli di “Striscia la notizia”, invano. Questa volta la giornata è meno bella, ma pazienza. Mentre scattiamo le foto, sentiamo delle voci. Un gruppetto di adolescenti sta compiendo un giro di ricognizione. Ci sono venuti altre volte, conoscono bene il posto. Le due ragazze se ne vanno, rimane il giovanotto che ci fa da guida, perché sa che c’è anche uno scantinato basso, dove ci sono due brandine e un vecchio divano gonfiato dall’acqua dell’inondazione che aveva devastato buona parte della zona nel 2008, in più contenitori di plastica vuoti dalle forme inusuali, chissà cosa contenevano, altri macchinari abbandonati. Buio relativo, perché c’è un’altra apertura nella parte opposta dalla quale usciamo. Ci accompagna ancora per un pezzo, si chiacchiera, ora la gita è finita, e noi lo riaccompagniamo in macchina a Capoterra. Quando sarà più grande, ha intenzione di continuare gli studi in Scandinavia. Sta imparando da solo la lingua che gli servirà. Gli auguriamo buona fortuna.