L’arresto di Khaled El Qaisi e il destino della nostra democrazia
13 Settembre 2023[Aldo Lotta]
In questi giorni su varie testate giornalistiche italiane e sui social media viene espresso stupore e preoccupazione per l’arresto da parte della polizia israeliana del cittadino italiano Khaled El Qaisi.
L’arresto è avvenuto il 31 agosto, mentre Al Qaisi attraversava il valico di Allenby con moglie e figlio di 4 anni diretto ad Amman, dopo aver trascorso le vacanze con la propria famiglia a Betlemme
Kalhed, di origini palestinesi, è traduttore, studente del corso di laurea triennale in Lingue e civiltà orientali dell’Università La Sapienza di Roma e impegnato nel Centro di Documentazione Palestinese, di cui è uno dei fondatori.
Il periodico di informazione politica internazionale Pagine Esteri rivela che l’avvocato della famiglia di Khaled giudica la situazione detentiva di El Qaisi una “violazione dei diritti umani”. Infatti, come dichiarato dal legale e riportato sulla stessa rivista, Khaled “non ha potuto fino ad oggi incontrare il suo avvocato, non conosce gli atti su cui si basa il fermo e viene sottoposto a continui interrogatori senza la presenza di un legale… Ciò in “totale spregio dei diritti di civiltà giuridica operati dalla legislazione israeliana. La violazione, cioè, delle tutele riconosciute in Italia, in Europa e nelle istituzioni delle Nazioni Unite, la cui osservanza consente di definire un processo equo e un arresto non arbitrario”.
Episodio che sarebbe inspiegabile sulla base dell’incrollabile assunto politico e mediatico occidentale secondo cui Israele è una democrazia (anzi, l’unica democrazia in medio oriente), ma che nella realtà dei fatti si ascrive, purtroppo, alla normalità e regolarità di una prassi dispotica e violenta da parte di uno Stato oppressivo, colonialista e di dichiarata apartheid. Ricordiamo che in effetti dal luglio 2018 Israele è per legge uno Stato-Nazione degli Ebrei. Legge fondamentale, che avrebbe un valore costituzionale se nel paese esistesse una costituzione.
Ricordiamo anche che Francesca Albanese, Relatrice Speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967, nel suo report del giugno 2023, sottolinea che Israele utilizza in modo diffuso e sistematico l’arbitraria privazione della libertà – esercitata in varie forme, dalla detenzione amministrativa a quella preventiva – nei confronti dei palestinesi quale strumento di dominio e oppressione, trattandosi di un fenomeno strutturale.
Sulla base del fatto che l’Italia, di cui Khaled, ripetiamo, ha la piena cittadinanza, riserva da decenni nei confronti di Israele un atteggiamento di totale e incondizionato appoggio e di stretta alleanza commerciale-militare (e complicità nel garantirgli l’immunità sul piano del diritto internazionale), credo sia utile soffermarsi su importanti, assodate realtà:
L’IMEU, dalla cui fonte online del 06 marzo ho tratto il breve memorandum che segue, è una ONG con sede negli Stati Uniti la cui finalità è fornire ai giornalisti un rapido accesso alle informazioni sulla Palestina e sui palestinesi, nonché a fonti esperte, sia negli Stati Uniti che in Medio Oriente.
Le sette leggi più razziste in Israele
1. La legge ebraica sullo Stato-nazione
Una delle leggi fondamentali quasi costituzionali di Israele. Afferma che il diritto all’autodeterminazione in Israele e nei territori palestinesi occupati “è unico per il popolo ebraico” e promuove la segregazione razziale e la discriminazione contro i palestinesi negli alloggi richiedendo allo stato di promuovere lo “sviluppo dell’insediamento ebraico come valore nazionale “.
2. La legge del “ritorno”
Dà agli ebrei di tutto il mondo il diritto di immigrare in Israele e nei territori palestinesi occupati e ricevere automaticamente la cittadinanza israeliana. Allo stesso tempo, Israele nega ai palestinesi nativi che sono stati espulsi durante e dopo l’istituzione di Israele il diritto di tornare in patria perché non sono ebrei e tratta i cittadini palestinesi dello stato, che rappresentano più del 20% della popolazione israeliana come cittadini di seconda classe.
3. La legge sui comitati di ammissione
Autorizza centinaia di piccole città a istituire “comitati di ammissione” per respingere le domande di palestinesi, persone LGBTQ e altri ritenuti indesiderabili sulla base di criteri come “inadeguatezza alla vita sociale della comunità… o al tessuto sociale e culturale della città“.
4. Legge sulla proprietà degli assenti e legge sull’acquisizione di terreni
Permette al governo israeliano di espropriare terreni e altre proprietà appartenenti a palestinesi che sono stati cacciati dalle loro case durante la costituzione dello stato. È lo strumento principale utilizzato da Israele per sottrarre enormi quantità di terra e proprietà privata ai palestinesi che sono stati espulsi e a cui è stato negato il diritto al ritorno, compresi molti palestinesi sfollati interni.
5. Diritto fondiario israeliano
Un’altra delle leggi fondamentali quasi costituzionali di Israele. Prevede che la proprietà della terra demaniale possa essere trasferita solo tra il governo e agenzie quasi governative come il Jewish National Fund, che affitta solo terre agli ebrei. Il 93% della terra in Israele appartiene allo stato. Le politiche territoriali discriminatorie di Israele rendono estremamente difficile per i palestinesi con cittadinanza israeliana l’accesso alla terra per scopi residenziali, commerciali, agricoli o altro.
6. La legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele
Impedisce ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza che sono sposati con cittadini palestinesi di Israele di ottenere la residenza o lo status di cittadinanza, compresi quelli espulsi dalle città all’interno di quello che divenne Israele nel 1948. Costringe migliaia di cittadini palestinesi di Israele a lasciare il paese o vivere separati dai loro coniugi e dalle loro famiglie.
7. La legge della Nakba
Proibisce il finanziamento pubblico di istituzioni e organizzazioni coinvolte nella commemorazione della violenta espulsione di tre quarti dei palestinesi quando Israele fu istituito come stato a maggioranza ebraica nel 1948, noto ai palestinesi come “Nakba” (“disastro”).
Oltre le sette leggi riportate, ce ne sono naturalmente varie decine che confermano l’essenza razzista di uno Stato-d’eccezione (rispetto al diritto internazionale). Argomento che si può approfondire documentandosi attraverso la lettura dei recenti dettagliati rapporti e condanne morali da parte, tra le varie organizzazioni internazionali per i diritti, di Amnesty International o delle stesse Nazioni Unite, sulla presenza di due regimi giudiziari separati: uno, civile, per gli ebrei-israeliani, un altro, esclusivamente militare, per i palestinesi. Oppure sull’esistenza di due reti stradali separate: una, moderna e veloce, riservata agli uni e una secondaria, accidentata e tortuosa, per gli altri. O ancora, nell’ambito edilizio e socio-abitativo, sulla disparità delle procedure per l’ottenimento della licenza di costruzione di un’abitazione, rapide e senza intoppi per gli ebrei israeliani, quasi senza speranza di esito favorevole per i palestinesi.
Nell’ambito giudiziario, sempre attraverso le stesse fonti o, tra le altre, la ONG internazionale Human Right Watch, è facile poi approfondire il tema della abnorme procedura della detenzione amministrativa (come per il caso attuale del nostro Khaled, senza nessuna accusa ne possibilità di usufruire di una difesa legale e senza un termine certo della pena), condizione giuridica nella quale si trovano oggi almeno altri 1200 palestinesi. Oppure, delle distruzioni punitive delle abitazioni dei familiari di palestinesi arrestati in quanto sospetti “terroristi” o attivisti. O, ancora, delle enormi disparità di trattamento in ambito sanitario, con blocco dei medicinali e attrezzature sanitarie destinati a Gaza. Questa striscia di terra sotto assedio, estesa per 360 km², dove due milioni e 300 mila palestinesi vivono da quasi due decenni costretti in “una prigione a cielo aperto”, soprattutto un luogo unico e privilegiato dove i piloti, addestratisi, tra l’altro, a Capo Frasca in Sardegna, possono testare sul vivo la moderna micidiale tecnologia bellica israeliana prima che venga orgogliosamente esportata in tutto il mondo occidentale.
Richiami e approfondimenti oggi più che necessari, proprio alla luce del drammatico e vergognoso sopruso che ha colpito un nostro connazionale. E alla luce della paradossale stolida ammirazione da parte dei governi europei (in particolare, certo, quelli di estrema destra, tra cui si annovera il nostro) per le prassi anti-democratiche israeliane.
E’ illuminante e allarmante, a tale proposito, riportare un recente episodio di cronaca politica nazionale: nel torrido cuore ferragostano di Roma si è svolto un “segretissimo” incontro, voluto da Biden, tra la ministra degli esteri libica e l’omologo israeliano. L’incontro, officiato dal nostro ministro degli esteri Tajani, puntava ad allargare alla Libia il patto di Abramo tra Israele e Paesi arabi ma è miseramente fallito in seguito all’improvvida pubblicità data su Haaretz dallo stesso governo israeliano. Come è noto, gli accordi di Abramo sono stati avviati a suo tempo da Trump in funzione di una “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e il mondo Arabo nel tentativo di creare in medio-oriente una vasta piattaforma in stretta connessione geo strategica militare e commerciale con gli Stati Uniti, con buona pace della soluzione della questione palestinese. Con il fine anzi di un drammatico colpo di spugna sulla prospettiva della mera sopravvivenza di una popolazione palestinese nella regione.
Il fatto mostra certo spunti grotteschi e farseschi se si riflette sull’acume diplomatico dei protagonisti (la ministra libica è dovuta fuggire in Turchia a causa dell’ira della popolazione libica e il nostro ha farfugliato un imbarazzante e imbarazzato «Beh, questi sono rapporti tra due Paesi stranieri» ). Ma, soprattutto, pone dei seri e preoccupanti interrogativi sul ruolo attuale della nostra dirigenza politica, sui residui di autonomia politica della nazione e sul destino stesso della nostra democrazia.
Tanto più che il governo italiano si trova in buona compagnia. Tra i partner estremisti desiderosi di ottenere un certificato israeliano di conformità figurano Ungheria, Polonia, Francia, Svezia e ora Romania. Infatti sul quotidiano Haaretz del 29 agosto si può leggere:
“..l’ambasciatore israeliano in Romania, accompagnato dal leader dei coloni Yossi Dagan, ha incontrato il segretario del partito Alleanza per l’Unità dei Rumeni, di estrema destra..che esalta il leader rumeno fascista del periodo della Seconda Guerra Mondiale Ion Antonescu, sotto il cui regime collaborazionista con il nazismo vennero uccisi 400.000 ebrei rumeni”.
Un sintomo di tale patologica fascinazione per il modello interpretativo israeliano di democrazia si ritrova in un incremento progressivo delle politiche securitarie da parte dei nostri governi. Provvedimenti, sempre per decreto legge, che vengono giustificati attraverso il light motive dell’”emergenza”. La strategica, tessitura di uno “stato di emergenza” senza fine giustifica infatti il ricorso governativo a misure eccezionali-permanenti con progressiva sospensione delle salvaguardie costituzionali e sottrazione ai doveri imposti dal diritto internazionale. Tra i tanti esempi, basti pensare, anche qui, alla pratica della detenzione amministrativa di fatto nei confronti dei migranti, al trattamento cui sono sottoposti dentro o fuori gli orribili CPR (qui l’ultimo agghiacciante report di Medici senza Frontiere). O al vergognoso deterioramento ormai pluridecennale del sistema carcerario, testimoniato da episodi di cronaca sempre più frequenti e inascoltati riguardanti i suicidi di detenute/i, sullo sfondo di trattamenti inumani e degradanti.
Ecco dunque perché la vergognosa vicenda dell’arresto di Khaled può e deve costituire un’occasione perché finalmente in Italia si squarci una coltre spessissima di omertà e indifferenza. Oggi nel nostro Paese la società civile comincia a dimostrare una maggiore consapevolezza e politicizzazione, con un crescente attivismo sociale pacifico espresso da movimenti per i diritti o da esponenti di istituzioni partitiche progressiste o sindacali. E’ possibile dunque e urgentissimo che una vasta piattaforma rappresentativa pretenda dai nostri rappresentanti politici un’inversione di scelta di campo, che comporti l’abbandono di modelli politici criminali e fascisti, in quanto fondati sullo sfruttamento ad oltranza di individui e ambiente, grazie a politiche coloniali, estrattiviste, razziste e francamente schiaviste.
Questo significherebbe semplicemente riportare la politica e la nazione negli alvei della legalità costituzionale e dell’osservanza delle leggi internazionali sui diritti umani. Richiamando fermamente e instancabilmente alla memoria dei più distratti che la nostra Costituzione e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo hanno visto la luce al termine della prima metà del secolo scorso per evitare che quanto era appena successo potesse un giorno ripetersi in forma e dimensioni non più rimediabili.