L’Autonomia differenziata? Si combatte con lo stato federale non con il neocentralismo statale
15 Marzo 2023[Francesco Casula]
Qualche decennio fa la Sinistra, sia pure timidamente, aveva fatto irruzione nei territori del federalismo e dintorni. Salvo ritrarsi subito.
Ed oggi si ripresenta con il suo volto abituale. unitarista e statoiatrico. L’occasione le è stata offerta dalla rivendicazione, da parte di due Regioni del Nord (Lombardia e Veneto), della cosiddetta Autonomia differenziata. Sia ben chiaro la rivendicazione nordista è da combattere: non ha niente a che fare con il federalismo e l’autonomia: semplicemente vuole accaparrarsi ulteriori poteri e risorse finanziarie statali a detrimento del Meridione e della Sardegna. Ma si respinge la pretesa nordista attaccando e non stando in difesa o, peggio evocando un unitarismo e neocentralismo antistorico e suicida.
Occorre infatti capire e conoscere, che al di là dell’ormai vuota e becera retorica sulle “magnifiche sorti e progressive” del cosiddetto Risorgimento, quel processo lungi dal realizzare “l’Unità”, ha creato due Italie: una ricca e una povera, una sviluppata e l’altra sottosviluppata: non a caso un intellettuale meridionalista come il calabrese Nicola Zitara, ha intitolato un suo saggio storico: ”Unità d’Italia: nascita di una colonia”.
Con immani disuguaglianze territoriali e divari, tutt’ora presenti e che anzi, nel tempo continuano ad aumentare, amplificando la forbice e il differenziale, non solo nello sviluppo economico (PIL) me nella cultura, nell’istruzione, nell’innovazione. Ebbene, a fronte ci ciò e della rivendicazione di “Autonomia differenziata” da parte delle due regioni del Nord occorre rispondere non in difesa dello status quo o, evocando e rifacendosi alla Costituzione della Repubblica “una e indivisibile”. E in Sardegna a un rachitico e impotente “Regionalismo” e “Autonomismo”: merce ormai inservibile e scaduta da decenni. Occorre andare in attacco, come Sardi intendo, rivendicando un nuovo Statuto speciale: quello attuale, da tempo oramai è fallito.
Nato nel lontano 1948, già depotenziato, debole e limitato – più simile a un gatto che a un leone, secondo la colorita espressione di Lussu – lo Statuto sardo in questi circa 75 anni di storia si è rivelato, sostanzialmente, un fallimento. Molte le cause. Ad iniziare da quella che lo storico Francesco Cesare Casula individua con nettezza scrivendo: “Nello Statuto sardo non c’è nessun preambolo che supporti le ragioni dell’essere, nessuna coscienza storica che giustifichi il perché dovremmo essere trattati diversamente dalle altre 19 regioni italiane. Esso apre con un desolante titolo l: «La Sardegna con le sue isole è costituita in regione autonoma fornita di personalità giuridica entro l’unità politica della Repubblica italiana, una e indivisibile, sulla base dei principi della Costituzione e secondo il presente statuto …» “.
In altre parole, secondo il nostro storico medievista “Lo Statuto sardo, difetta di un preambolo giustificativo nella contrattazione col governo centrale, ben presente nello Statuto catalano, che fonda la sua contrattazione sulla peculiarità nazionale promanante dall’ antico Principato di Catalogna. Ed è quanto purtroppo manca da noi. sebbene abbiamo più ragioni dei Catalani di rifarci alla storia per una rivendicazione autonomistica non solo speciale ma particolare”.
Ma se puranco i legislatori della Costituente e i padri della nostra Autonomia non avessero voluto tener conto di tutto ciò, almeno avrebbero dovuto partire, nella formulazione dello Statuto, da un dato difficilmente contestabile: essere la Sardegna una nazione, avendo una sua peculiare e specifica identità etno-storica-culturale-linguistica. In realtà i Costituenti che dotano la Sardegna di uno “Statuto speciale” questo lo sanno e lo riconoscono. Perché altrimenti uno Statuto speciale all’Isola? Per motivi economici? Ovvero per la povertà, l’arretratezza e il sottosviluppo? E come spiegare allora che non verrà concesso uno Statuto speciale a molte regioni italiane sicuramente allora più povere, arretrate e sottosviluppate? Come la Lucania o l’Abruzzo?
Il motivo economico – peraltro ben documentato dall’ articolo 13, che è la cartina di tornasole della scelta politica: “Lo Stato italiano col concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la Rinascita economica e sociale dell’Isola” è la foglia di fico per nascondere i veri motivi – storici-culturali-linguistici – che se riconosciuti formalmente, avrebbero dato vita a ben altro Statuto, a ben altri poteri della Regione, ad iniziare proprio dal versante culturale-linguistico, che non a caso sono del tutto assenti.
Occorre inoltre aggiungere che in questi 75 anni ha subito un processo di progressivo svuotamento e di compressione sia dall’esterno, cioè da parte dello Stato centrale, sia dall’interno, ovvero da parte delle forze politiche dirigenti sarde, che non sanno usare e, spesso, non vogliono utilizzare, gli stessi strumenti, possibilità e spazi che l’autonomia regionale offriva.
Basti pensare a questo proposito alla vicenda delle norme di attuazione, che avrebbero dovuto riempire di contenuti le astratte previsioni statutarie, stabilendo quali dovevano essere i poteri reali della Regione nelle materie attribuite alla sua competenza. Queste norme o vengono emanate tardi, o non vengono emanate per niente, o vengono emanate in modo eccezionalmente riduttivo. E comunque non vengono quasi mai realizzate. Ciò per constatare come le forze politiche sarde abbiano svilito la stessa limitata autonomia. statutariamente riconosciuta.
Non solo. Nato come Statuto speciale, oggi risulta dotato di meno poteri delle regioni a Statuto ordinario costituite nel ’70, e di fatto, rappresenta oramai un ostacolo alla realizzazione di una vera Autonomia, o peggio: serve solo come copertura alla gestione centralistica della Regione da parte dello Stato, di cui non ha scalfito per niente il centralismo. Paradossalmente lo ha perfino favorito, consentendo ai Sardi solo il succursalismo e l’amministrazione della propria dipendenza.
La Regione sarda di fatto, in questi 75 anni di storia, ha operato come mera struttura di decentramento e di articolazione burocratica dello Stato e come centro di raccordo e di mediazione fra gli interessi dei gruppi di potere locali e la rapina neocolonialista, soprattutto del Nord: esemplare in questo è la vicenda della industrializzazione petrolchimica.
Da tempo, perciò, possiamo ormai considerare consumato il suo fallimento storico contestuale a quello della cosiddetta Rinascita: ma fino ad oggi sono falliti miseramente anche i tentativi di un suo rilancio, prima attraverso la cosiddetta politica contestativa e rivendicazionistica della Regione nei confronti dello Stato degli anni ’70 e, più recentemente, nei decenni scorsi, attraverso una Commissione nominata ad hoc dal Consiglio Regionale.
Oggi è giunto il momento di imboccare decisamente la strada del rifacimento dello Statuto Sardo, una nuova Carta de Logu, come vera e propria Carta Costituzionale di Sovranità per la Sardegna, che ricontratti su basi federaliste il rapporto Sardegna-Stato Italiano, Sardegna-Europa e che, partendo dall’identità etno-nazionale dei Sardi, ne sancisca il diritto a realizzare l’autogoverno, l’autodecisione, l’autogestione economica e sociale delle proprie risorse e del territorio, il diritto a usare e valorizzare la propria lingua e cultura, a gestire la scuola, i trasporti, il credito, le finanze e l’ordine pubblico. Il potere, infine, in settori fondamentali quali la difesa e i rapporti internazionali, di esprimere parere vincolante in merito a tutte le iniziative che tocchino gli interessi vitali della Sardegna.
Se non si fa questo, si abbaia alla luna: e mentre il Nord, con la sua “Autonomia differenziata” correrà, noi continueremo a stare fermi. Anzi: a andare dietro. Beati e beoti con la nostra “Insularità” in Costituzione. Ovvero con il nulla.