Lavorare in Sardegna
16 Novembre 2015Marco Ligas
Pubblichiamo l’intervento di Marco Ligas su Lavoro e riordino delle attività produttive durante l’assemblea della coalizione sociale in Sardegna. (red)
Inizio questo intervento con una considerazione che riterrete senz’altro ovvia, tuttavia è della massima importanza: il lavoro non solo è un aspetto fondamentale della vita delle persone ma deve essere qualcosa di più di una fonte di reddito; non essendo una merce deve avere un valore esistenziale, deve garantire cioè la realizzazione delle aspettative dei lavoratori e delle lavoratrici e al tempo stesso una vita dignitosa; non può limitarsi a rispondere ad un bisogno “assistenziale”. È all’interno di questa concezione che bisogna assicurare il lavoro non solo a chi lo ha già, ma anche a chi lo sta perdendo definitivamente e a chi non lo trova.
Sarà il reddito di cittadinanza che potrà risolvere questi problemi oppure il Reis o il reddito minimo garantito oppure quello di dignità? Da un po’ di tempo si parla molto di queste proposte. Non so quale potrà essere la più praticabile, sono certo comunque che questa questione dovrà essere affrontata con determinazione, soprattutto con le lotte congiunte degli operai e dei disoccupati; e dovrà affrontare le emergenze di oggi anche garantendo le giovani generazioni, tutelando il diritto allo studio, sostenendo la formazione e la crescita culturale e professionale, permettendo a migliaia di persone di uscire dal ricatto della precarietà, del dover accettare un lavoro purchessia, pur di avere un reddito (spesso misero quanto le condizioni di quel lavoro). Insomma, è fondamentale un nuovo piano del lavoro che sappia garantire una continuità, delle certezze.
Le risorse ci sono, basterebbe usare quelle che ora sono destinate alla disoccupazione e alla mobilità, integrate dai risultati di una vera lotta all’evasione fiscale e dalla tassazione progressiva di rendite e patrimoni, perché un nuovo e moderno concetto di cittadinanza non può prescindere da una diversa distribuzione della ricchezza.
E non dimentichiamo le spese militari (L’esempio di queste settimane con le esercitazioni svolte nella nostra isola è eloquente: la presenza di 36.000 militari accompagnata da diverse decine di unità navali e da alcune centinaia di aeroplani è un’iniziativa assurda. A parte il disastro ambientale, chi affronta le spese di questa pazzia e perché si sostengono queste spese quando i bisogni sono altri?).
Anche a causa di queste contraddizioni credo che si colga nel paese la necessità di un adeguamento dei modelli produttivi, cioè il bisogno di una scelta politica e sindacale che affronti con spirito propositivo i cambiamenti in corso nella società. Si tratta di scelte a volte difficili da realizzare. Ma questo è un obiettivo che deve porsi la coalizione sociale e di cui incominciamo a parlarne oggi in Sardegna.
Sono del parere che per affrontare queste questioni sia opportuno partire dalle esperienze che abbiamo vissuto nei nostri territori nel corso degli ultimi decenni. Esaminando quel che è successo dobbiamo porre in evidenza, e sottolinearli con decisione, due aspetti fondamentali: 1) l’intervento, a volte massiccio, della grande industria che ha usufruito di contributi statali spesso decisivi per il suo sviluppo, 2) l’assalto selvaggio del territorio e il disastro ecologico che ha determinato. Nella fase iniziale di questi interventi abbiamo registrato una crescita notevole dell’occupazione, soprattutto nel secondo settore. Già a metà degli anni settanta però è iniziato il declino di questo processo. Soprattutto a causa delle vicende internazionali, si è progressivamente ridotto il numero dei lavoratori dell’industria ed è iniziato il ricatto delle diverse aziende nei confronti dello Stato e della Regione. Il messaggio padronale era chiaro: “da soli non riusciamo a far sopravvivere queste nuove strutture produttive, abbiamo bisogno di un sostegno”. E per anni è andata avanti questa modalità relazionale. È successo a Porto Torres, dove è nato uno dei più grandi poli petrolchimici europei , la famosa Sir la cui nascita risale al 1959. La crisi ha favorito l’arrivo dell’Eni e via via la presenza dell’Enel, della spagnola Endesa e infine della tedesca E.On. Intanto, il sito industriale vero veniva suddiviso in più aziende, anche straniere e non tutte dalle strategie di lungo periodo.
In questi ultimi anni (ultimo tentativo) è stato firmato un Protocollo di Intesa per la “Chimica Verde (la spesa prevista 1,2 miliardi, i nuovi occupati 103, che passerebbero dagli attuali 582 a 685). Ma è saltata anche questa ipotesi proprio nei giorni scorsi.
Le gravi conseguenze verificatesi a Porto Torres non sono un fatto isolato. Si parla ancora poco dell’esito di una ricerca sugli effetti del benzene nella composizione del Dna dei bambini che vivono nelle vicinanze della Saras.L’ultima rilevazione ci informa chele leucemie colpiscono a Sarroch il 30 per cento in più rispetto al resto della Sardegna e potrebbero essere collegate al benzene distribuito nell’aria dalle grandi industrie.
In questi ultimi tempi, come se niente fosse, si moltiplicano le operazioni di invasione dell’isola: si va dalle trivelle nel Montiferru, ai radar dell’Asinara, da Olbia a Capo Sandalo (Carloforte), alle finte serre fotovoltaiche di Narbolia e Milis. E neanche si possono legittimare queste iniziative con i livelli di occupazione previsti perché sono prossimi allo zero.
Dal contesto regionale non poteva mancare il centro Sardegna. Negli anni settanta il Pubblico (AnicFibre) e il privato (Montefibre) si accordano e avviano due catene di produzione di fibre. Gli occupati sono 2700, forse uno dei più grandi sconvolgimenti sociali in Sardegna con pastori e contadini che diventano operai. La rivoluzione dura poco e dagli anni novanta gli occupati si riducono a 200. Gli effetti inquinanti di questa presenza sono però gli stessi. Oggi quel che resta è una produzione energetica che a detta degli stessi lavoratori usa tecniche fra le più arretrate d’Europa: ben poco rispetto alle aspettative iniziali di Ottana.
Non voglio farla lunga su questi temi. E neppure (voglio) sottovalutare come la riconversione delle attività produttive ponga aspetti strettamente collegati alle nuove tipologie degli interventi previsti. Faccio un esempio: come è possibile che i metalmeccanici o i chimici che hanno vissuto le loro esperienze lavorative all’interno di quei settori, all’improvviso scoprano nuove professionalità. Non si tratta di questioni irrilevanti, sono abbastanza importanti perché riguardano le esperienze lavorative e sociali di intere comunità.
Un esempio emblematico lo viviamo attualmente nel Sulcis dove i lavoratori dell’Alcoa sono impegnati in una lotta che viene condotta per la difesa della fabbrica. La lotta non è facile perché incontra ostacoli sia da parte dell’azienda sia da parte delle istituzioni che oppongono una resistenza su un aspetto non secondario: la definizione del costo dell’energia che è indispensabile per la ripresa del funzionamento dell’azienda.
È pertanto necessario che la lotta in corso degli operai dell’Alcoa trovi il sostegno sia sindacale che politico, avendo la consapevolezza che un’eventuale chiusura della fabbrica non potrà segnare la fine della storia operaia ma costringerà tutti noi a reinventare nuovi processi produttivi capaci di garantire il diritto al lavoro, la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici e la tutela del territorio.
Non affronto in modo specifico il tema degli appalti per ragioni di tempo; penso che altri lo faranno. Voglio solo sottolineare che gli appalti promuovono una normale politica di riduzione dei costi di lavoro, conforme ai processi in atto nell’epoca della globalizzazione, del fiscal compact, della spending review, del jobs act e così via: meno salari e più profitti per le imprese, in nome delle tutele crescenti, come dice il nostro stimato Presidente del consiglio. È superfluo sottolineare che questa politica richiede un’opposizione severa.
Chiudo questo intervento ponendo un problema molto importante: la presenza nell’isola delle basi militari. Sappiamo che le esercitazioni che vengono svolte non solo inquinano, non solo sottraggono parte dei nostri territori utili per la promozione di attività produttive, ma sono anche funzionali alla preparazione dei conflitti armati. Non possiamo tollerare nessuna di queste cose. Queste conseguenze però ci costringono ad una riflessione: la chiusura delle basi o il loro ridimensionamento comporta necessariamente l’individuazione di nuove attività che dovranno essere svolte dai lavoratori impegnati attualmente nelle basi militari. Non saremo noi, oggi, in modo astratto e intellettualistico, ad indicarle.
Saranno gli stessi lavoratori a farlo, individuando i settori nei quali riconvertire la loro attività ed i percorsi di formazione necessari, in questo supportati dalle forze politiche e sindacali. Ma perché questo avvenga è necessario che noi stessi partecipiamo; dar vita alla coalizione sociale significa anche questo: essere presenti nella fase della programmazione delle attività produttive a stretto contatto con chi è alla ricerca del lavoro.