Le lotte dei pastori non si processano
1 Aprile 2023[Francesco Casula]
Nel tribunale di Nuoro, il 29 marzo scorso, a quattro anni dai fatti, sono stati processati dei pastori sardi. Formalmente 13 persone, imputate di blocco stradale: per quattro il Pubblico Ministero ha chiesto otto mesi con la sospensione condizionale della pena; per gli altri nove l’udienza è stata rimandata al 27 settembre.
In realtà sotto accusa è la grande sollevazione del 2019 che coinvolse l’intero mondo pastorale con intere famiglie, con l’occupazione pacifica delle carreggiate della 131 e non solo: protestavano contro il prezzo irrisorio del latte, che non copriva neppure i costi di produzione (sessantadue centesimi al litro!).
I Sardi tutti dovrebbero solidarizzare ed esprimere vicinanza ai pastori sotto processo, da parte di uno Stato da sempre storicamente nemico di questo mondo e che oggi sferra un attacco repressivo incredibile, criminalizzando la loro protesta.
Nel sostenere i pastori occorre capire che in gioco vi è una partita immane, non solo economica ma sociale, ambientale, culturale. Il pastore infatti non è solo una delle una delle tante figure sociali e la pastorizia non è solo un comparto economico: le sue produzioni certo costituiscono ancora un nucleo fondamentale del nostro prodotto interno lordo, ma il mondo pastorale in Sardegna ha prodotto ben altro che latte, formaggi, carne e lana (con il relativo indotto): ha dato luogo al pastoralismo e ai codici e valori che esso sottende e che in buona sostanza costituiscono il nerbo della civiltà e dell’intera cultura sarda.
Per intanto però occorre sottolineare che la pastorizia, come comparto economico, nonostante crisi e difficoltà, nella storia ha sempre retto e i pastori, ancora oggi, non sono una sorta di tribù sopravvissuta alla storia. Nonostante i reiterati tentativi storici di interrarli, liquidandoli insieme alla loro cultura etnica resistenziale.
Ha retto perché si tratta dell’unica industria, endogena e autocentrata, che verticalizza la materia prima – il latte soprattutto – e crea un indotto che nessuna altra industria nell’Isola ha mai creato. L’unica “industria” legata al territorio e ai saperi tradizionali, diffusa ubiquitariamente, al contrario dell’industria per “poli”. Che presiede, salvaguardia e difende l’ambiente, che è in forte simbiosi con la storia, la tradizione, la civiltà, la cultura e la lingua sarda.
Se muore il pastore e la pastorizia, ripeto, non muore solo una delle tante figure sociali o un comparto economico ma la Sardegna intera: il suo etnos, il suo universo culturale, artistico e rituale. Ad iniziare dall’immaginario simbolico rappresentato – fra l’altro – dalle maschere di carnevale; dall’immaginario musicale rappresentato soprattutto dal Canto a tenore, riconosciuto dall’Unesco, nel 2004, come patrimonio immateriale dell’Umanità: è il secondo riconoscimento alla Sardegna da parte dell’Unesco dopo il Nuraghe di Barumini; dallo stesso immaginario sportivo (con s’Istrumpa) e ludico (con la morra).
Ma c’è altro ancora: sottesi al pastoralismo vi sono codici e valori che storicamente hanno segnato e impregnato la civiltà sarda: il comunitarismo, i codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità, l’onore e tutti gli altri componenti della cultura pastorale. ”Un patrimonio secolare – scrive Bachisio Bandinu – che dall’età dei nuraghi, ha prodotto una cultura, un simbolo, una scuola di vita, un modo di essere, praticamente scomparso in Europa, che perdura ancora oggi, in Sardegna, pur nella sua forma attuale di civiltà: produzione economica, organizzazione sociale, coscienza culturale.
Non come semplice revival etnologico-folklorico, come museo di tradizioni popolari, operazione di nostalgia o folklorizzazione turistica ma, pur attingendo a lingua e linguaggi, atteggiamenti e comportamenti, interessi e valori, riti e simboli del passato, pone la questione di un rapporto positivo tra locale e globale e si interroga se questa civiltà secolare sia capace di inserirsi nel processo di mondializzazione, elaborando alcuni caratteri distintivi della propria cultura per adattarsi alla nuove esigenze della contemporaneità”.
Sempre Bandinu, prosegue: ” L’oggetto-natura diventa segno-cultura, in esso c’è scritta la storia di greggi, di ovili, un mondo di sacrifici e di poesia.
Il pastoralismo in Sardegna passando attraverso gli studi sulle maschere, il canto a tenore e il ballo costituisce un’ossatura dell’economia e un universo rituale. E soprattutto un modo di parlare, di organizzare il discorso nell’uso di tempi e modi verbali, segni molto profondi quando si parla di una cultura”.
Senza la pastorizia la Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.
Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.
Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti.
Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in Mare e Sardegna.
Si avvererebbe la profezia annunciata da Eliseo Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”.
Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile,prima ancora che economica e sociale.
Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo.