Le mire egemoniche di Israele
16 Novembre 2018[Gianfranco Sabattini]
Nel luglio del 2018, il Parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato la “Legge fondamentale”, con la quale si è statuito che Israele è lo Stato nazionale del popolo ebraico.
La legge ha dato luogo a un duro scontro politico tra destra sionista e sinistra liberale: la prima, arroccata dietro l’affermazione che la nuova “Legge” non fa altro che sancire la prassi con cui si è consolidata l’idea che, sin dalla sua nascita, lo Stato ebraico fosse lo Stato degli ebrei; la seconda, impegnata a denunciare lo snaturamento del sistema democratico realizzato che, per quanto imperfetto, è riuscito sinora a conciliare la “ebraicità” dello Stato con la prospettiva del riconoscimento della parità di diritti a tutti i suoi cittadini (ebrei e minoranze non ebraiche). L’attuazione della Legge fondamentale, perciò, è destinata a tradursi – afferma Alon Harel, Professore all’Università ebraica di Gerusalemme (in “La fondamentale legge di Israele”, Limes n. 9/2018) – in un “sistematico attacco alle libertà democratiche del Paese, un ulteriore passo in avanti verso l’istituzione di una democrazia illiberale e autoritaria”.
A parere di Harel, per capire le ragioni della destra sionista nel definire Israele lo Stato-nazione degli ebrei e il suo inserimento nel contesto proprio dell’attuale Medio Oriente occorre scorrere brevemente la storia costituzionale di Israele; ciò consentirà di cogliere perché sia stata approvata una “Legge” che, se attuata, comporterebbe la negazione della liberalizzazione del Paese.
La famosa risoluzione n. 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (che ha posto fine al mandato britannico sulla Palestina), che era destinata a risolvere il conflitto tra ebrei ed arabi, proponeva, com’è noto, la divisione del territorio oggetto del mandato fra due istituendi Stati, uno ebraico ed uno arabo (con Gerusalemme sotto il controllo internazionale). Il rifiuto della risoluzione da parte dei Paesi arabi ha causato la Guerra arabo-israeliana del 1948-1949 (per gli israeliani “Guerra d’indipendenza”; per gli arabi “la Catastrofe”); ma in piena guerra, il 14 maggio del 1948 gli ebrei hanno proclamato la nascita dello Stato d’Israele.
La risoluzione dell’ONU aveva anche stabilito che entrambi gli Stati nascituri dovessero dotarsi di una “Carta costituzionale democratica”, della quale Israele, nella stessa proclamazione istitutiva del 14 maggio, prevedeva la scrittura da parte di un’Assemblea costituente elettiva; obiettivo disatteso disatteso, per via del fatto che la parte ebraica della popolazione era troppo frammentata, impedendo che si mantenesse fede all’impegno assunto; infatti, alcuni gruppi religiosi erano riluttanti a condividere la redazione di una Carta costituzionale, sostenendo che non ce ne fosse bisogno, in quanto la Torah (la Legge che, per la religione ebraica, contiene gli insegnamenti e le prescrizioni impartiti da Mosè al popolo di Israele) era la vera Costituzione del popolo ebraico.
Nel 1950, però, è stato raggiunto un compromesso, in base al quale la prima Knesset avrebbe assegnato alla Commissione per la Costituzione, il Diritto e la Giustizia il compito di redigere una proposta di Costituzione per lo Stato. Della proposta finale, la Knesset ha accolto solo specifiche parti, approvando una serie di “Leggi fondamentali” riguardanti gli aspetti concernenti l’organizzazione dello Stato (il governo, il potere giudiziario, la presidenza e la Knesset). Dopo oltre quarant’anni sono state approvate due nuove “Leggi fondamentali”, di diversa natura rispetto alle prime: una, nel 1992, sulla dignità e la libertà umana, ed un’altra, nel 1994, sulla libertà di occupazione.
Le due “basic laws” hanno introdotto – a parere di Harel – due importanti principi: il primo stabiliva che Israele era uno Stato “ebraico e democratico”, mentre il secondo (che investiva direttamente la libertà di movimento dei palestinesi in Israele) stabiliva che i diritti sanciti dai due provvedimenti “non potevano essere violati se non da una legge in linea con i valori dello Stato di Israele”. L’adozione dei due principi ha segnato l’inizio della cosiddetta “Rivoluzione costituzionale” israeliana, che ha avuto come protagonista il massimo tribunale del Paese, la Corte suprema”.
Le due Leggi fondamentali sono state infatti utilizzate dalla “Corte” per riesaminare criticamente la legislazione ordinaria, al fine di rafforzare la protezione dei diritti individuali; così operando, però, il massimo organo giudiziario del Paese è stato percepito, dalla destra sionista conservatrice, come attore politico di parte, invece che un “organo neutrale di aggiudicazione”. La reazione conservatrice ha assunto varie forme, la principale delle quali è consistita nel premere sulla Knesset (avvalendosi della propria partecipazione alla costituzione della maggioranza che sosteneva il Governo) perché promulgasse una legislazione autoritaria antiliberale.
La Legge fondamentale sullo Stato nazionale è il punto d’arrivo della copiosa promulgazione, da parte delle Knesset, di norme che sono valse a limitare i diritti individuali, sulla base di un antiliberalismo adottato come collante della coalizione governativa. Il testo della “Legge”, approvato con 62 voti a favore, 55 contrari e 2 astenuti, è stato volutamente pensato e approvato – sostiene Harel – per “controbilanciare i valori liberali che hanno caratterizzato la rivoluzione costituzionale degli anni Novanta”. Al riguardo, egli osserva che La novità della “Legge non sta tanto nella volontà di affermare l’ebraicità dello Stato israeliano, quanto “nella voluta omissione di qualunque riferimento ai valori universali”, compresi quelli che dovrebbero consentire la definizione di Israele “Stato ebraico e democratico”.
La reazione alla “Legge”, com’era possibile prevedere sulla base della risicata maggioranza con cui è stata approvata, ha diviso l’opinione pubblica. I suoi promotori si sono schierati a difesa della tesi secondo cui, essendo divenuta la società israeliana troppo occidentalizzata, era necessario porre rimedio al fatto che il sistema legale fosse diventato eccessivamente liberale, sacrificando “i valori ebraici e nazionalisti”. Sintomatiche, della divisione dell’opinione pubblica determinata dall’approvazione delle “Legge” del luglio 2018, sono le argomentazioni (riportate in “Pro e contro lo Stato della nazione”, in Limes n. 9/2018) di qualificati rappresentanti degli schieramenti contrapposti, quali: Zalman Shoval (membro del Comitato centrale del partito nazionalista Likud) e Shmuel Sandler (ricercatore senior presso il Besa Center for Strategic Studies dell’Università di Bar-Ilan), fra i sostenitori; Denis Charbit (professore all’Università di Israele) e Said Zeedani (professore di filosofia presso l’Università di Al-Quds di Gerusalemme), fra gli oppositori.
Zalman Shoval, in “La democrazia in Israele non è un esperimento multinazionale”, sostiene che l’importanza dell’atto fondamentale del luglio 2018 risiede nel fatto che esso serve a stabilire “l’affinità tra Israele e il popolo ebraico nel mondo”, per cui il significato principale della “Legge”, al di là delle speculazioni politiche, è quello si sancire che Israele è lo Stato nazionale del popolo ebraico e non lo “Stato ebraico”, fugando in tal modo, non solo le accuse fondate sulla connotazione religiosa di quest’ultima espressione, ma anche quelle rivolte ad Israele di discriminare le altre religioni, in quanto negatrici per gli ebrei della loro identità nazionale, dunque del “loro diritto di avere uno Stato”
Non meno decisa è la difesa della nuova Legge fondamentale da parte di Shmuel Sandler; in “Così ci garantiamo contro la deriva binazionale”, egli sostiene che l’incomprensione delle “Legge” nasce dal fatto che non si tiene nella dovuta considerazione la distinzione tra Stato e nazione; lo Stato, sostiene Sandler, è nato come entità territoriale, al fine di garantire sicurezza a coloro che lo occupavano; la nazione è un prodotto molto più tardo ed è “il risultato dell’idea democratica secondo la quale, come l’individuo ha il diritto di definire il proprio governo, il collettivo ha il diritto di definire la sua identità”. L’incontro tra le due entità (Stato e nazione) è avvenuto quando “unità e identità storica” si sono unite dando origine ai moderni Stati-nazione, la cui nascita tuttavia non ha potuto evitare che in molti di essi (come poi accadrà con lo Stato di Israele) vivessero anche gruppi con una diversa identità nazionale.
La nuova Legge fondamentale, secondo Sandler, avrebbe quindi lo scopo di definire il carattere di Israele come “Stato della nazione ebraica”; coloro che la contestano, perciò, esprimono solo una netta opposizione all’identità ebraica garantita dallo Stato di Israele, mentre la contrarietà araba alla “Legge” non è assolutamente legata, come sostengono i suoi oppositori, all’uguaglianza civile, in considerazione del fatto che questa è assicurata agli arabi come pure ad ogni altra minoranza che vive oggi in Israele.
Contro la destra conservatrice, gli oppositori alla “Legge” sollevano argomenti di principio e pragmatici, L’atto del luglio 2018, essi sostengono, contiene provvedimenti che, se attuati, risulteranno difficilmente conciliabili con uno Stato democratico, peggiorando sicuramente i già problematici rapporti ora esistenti con le minoranze presenti nel Paese, soprattutto con i Drusi (un gruppo etnoreligioso che professa una religione monoteista di derivazioni musulmana, distintosi per il contributo di sangue profuso nelle diverse guerre combattute dallo Stato di Israele).
Denis Charbit, ad esempio, in “Un argine è stato infranto”, sostiene che l’approvazione delle “Legge” corrisponda in realtà all’“esigenza confessionale”, propria del nazionalismo sionista, di stabilire che Israele è “uno Stato ebraico soltanto se si conforma alle prescrizioni della tradizione religiosa”; il contrario di quanto viene affermato nella Dichiarazione d’Indipendenza dello Stato d’Israele. Tale dichiarazione” – afferma Charbit – ripone “molto chiaramente su due pilastri la propria legittimità e ragion d’essere, uno particolarista e uno universalista”: il primo afferma che è in Israele, e in Israele soltanto, che risiede il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico; il secondo identifica Israele con uno Stato democratico. Perché Israele sia Stato nazionale e democratico, i due connotati devono essere indissolubili; la nuova “Legge”, invece, si preoccupa solo delle natura ebraica dello Stato, escludendo il carattere democratico e sacrificando il principio dell’uguaglianza civile di tutti i suoi cittadini. Con la dissociazione dei due elementi costitutivi, conclude Charbit, “poco importa che il nefasto potenziale della legge possa manifestarsi o meno, quel che conta per la sua gravità è la omissione del principio di uguaglianza in un testo avente natura costituzionale”.
Infine, secondo Said Zeedani, in “Più etnia = democrazia”, tra le molte conseguenze negative, la “Legge” avrà quella di istituzionalizzare l’esistenza di due categorie di cittadini nello Stato nazionale di Israele: gli ebrei, da un lato, e i non ebrei, dall’altro. In altri termini, secondo Zeedani, la norma costituzionale avrà la conseguenza di sancire la superiorità razziale dei primi rispetto ai secondi, facendo diventare i pari diritti democratici appannaggio solo dei primi. Tuttavia, la protesta dei non ebrei (in particolare dei palestinesi), seguita all’approvazione della “Legge”, non basta ad impedire la discriminazione che si intende consolidare; la protesta dovrebbe trasformarsi in lotta, perché il regime di superiorità e di discriminazione razziale, inaugurato nel 1948, non cesserà, se ci si limita solo ad ostacolare l’attuazione dell’odiosa nuova Legge fondamentale: occorrerà, sottolinea Zeedani, che la battaglia di quanti si sentono discriminati sia indirizzata “contro tutte le leggi, le politiche e le pratiche che sostengono l’edificio discriminatorio”, con l’obiettivo finale di “far prevalere in modo esplicito la componente democratica su quella razziale (ebraica) nella definizione giuridica dello Stato d’Israele”.
Perché, con l’approvazione della nuova Legge fondamentale, lo Stato di Israele ha voluto introdurre, nel contesto della propria società, ulteriori motivi di contrasto, destinati ad aggravare quelli che già esistono? Alcuni sospettano, come fa ad esempio l’Editoriale di Limes, che per Israele, inventarsi Stato nazionale in uno spazio indeterminato, qual è quello mediorientale, a nome di una comunità la maggior parte in diaspora, può rivelarsi per esso (lo Stato di Israele) solo un azzardo, ovvero un “trapianto a costante rischio di rigetto”. La nuova legge può essere giustificata solo sulla base di aspirazioni egemoniche, motivate non tanto da ragioni di sicurezza, quanto da altre di natura economica e geopolitica in generale. Tradotta in questi termini, è arduo pensare che l’attuale politica di Israele possa garantire stabili e sicuri vantaggi futuri.
Perciò, nell’acuire i contrasti sociali con l’approvazione di una “Legge” che avrà l’effetto di scatenare prevedibili accuse di razzismo provenienti perfino dal mondo ebraico, interno ed esterno, gli obiettivi palesi o occulti che Israele tenta di perseguire sono destinati a incerto successo. Peccato! Il mondo perde come punto di ispirazione l’esempio di un popolo che, nonostante sia stato perseguitato per accuse del tutto infondate, è riuscito con caparbietà e sacrificio a conservare la propria identità in condizioni avverse, sino ad ottenere, da parte della comunità internazionale, il riconoscimento del diritto ad avere un proprio “focolare domestico”.
Cedendo a pulsioni religiose ed egemoniche, per scopi tutt’altro che identitari, lo Stato di Israele, a settant’anni dalla sua fondazione, sta logorando il largo patrimonio di credibilità e di ammirazione che gli ebrei, come popolo disperso e perseguitato, erano riusciti ad accumulare; il ricorso a procedure istituzionali negative ai danni delle minoranze etniche presenti al proprio interno, mostra di Israele un’immagine non diversa da quella di altri Stati, delle cui decisioni politiche, soprattutto nella storia recente, una parte del suo popolo è stata vittima.