Le piantagioni dell’utopia

1 Settembre 2011

Piero Careddu

Inizia da questo numero a scrivere per il Manifesto Sardo Piero Careddu, sommelier magistrale, chef di eccellenza, nomade dei fornelli, delle cantine e della spiritualità, compagno di tante battaglie. Nel Manifesto Sardo si parla di politica, cultura, ambiente, identità territoriali. Un luogo che speriamo ideale per la sua ricerca e le idee che da essa si potranno trasmettere, senza troppe mediazioni e diplomazie. Benvenuto (red.).

L’idea centrale di questa rubrica è quella di ragionare su alimentazione e tradizioni con lo sguardo rivolto al disastro ambientale. Tenteremo di spiegare che praticamente tutto ciò che arriva sulla nostra tavola è costituito da veleni e inganni e che la principale colpevole della distruzione del pianeta e della nostra salute è l’agricoltura intensiva, insieme a un’idea di sfruttamento della terra e degli animali che ha come unico obbiettivo il profitto sopra ogni altro valore. Il rischio di essere accusati di fare terrorismo è forte ma, incurante di questa insidia, aggiungerò al concetto che qualsiasi articolo, qualsiasi manifestazione, iniziativa e dibattito su ecologia e distruzione del pianeta, è sempre troppo poco rispetto al dramma di un’apocalisse non troppo lontana.

Bottiglie senza radici. Un buon punto di partenza per questo percorso di analisi è il vino: elemento cardine della cultura alimentare quotidiana di gran parte degli esseri umani, impregnato di una grande quantità di valori simbolici e spirituali, negli ultimi settant’anni ha subito importanti mutamenti organolettici e concettuali che lo stanno privando di quella grande capacità di essere messaggero delle tradizioni e del linguaggio di un territorio. Utilizzerò il pretesto della vite e del vino per iniziare questo viaggio della speranza verso un’agricoltura che ponga al centro la salute e non gli utili netti delle multinazionali produttrici di fitofarmaci e pesticidi, ma vorrei precisare che i concetti che esprimerò più avanti valgono per qualsiasi prodotto della terra e , di conseguenza, per gli animali da allevamento.
Proviamo a vedere da vicino il modo naturale di nutrirsi della vite.
La parte “sotterranea” della pianta è costituita da un impianto di radici primarie grosse e legnose, che si sviluppano per pochi metri e hanno la funzione principale di ancoraggio al terreno, e un più complesso sistema di radichette secondarie, o peli radicali, che in condizioni di normalità può arrivare a molte centinaia di metri esplorando il terreno e individuando il nutrimento migliore per la pianta. I fertilizzanti chimici sono costituiti soprattutto da sali minerali che, somministrati disciolti in acqua, hanno sulla pianta un devastante effetto di mutazione di abitudini e personalità:
a) alla vite che beve quantità prestabilite di sali viene tolta la capacità di decidere, in sinergia con la luce solare, come e quando nutrirsi.
b) grazie al nutrimento artificiale le radici secondarie non hanno più voglia e bisogno di scavare nel terreno alla ricerca di “cibo”. Questo porta alla morte di quell’universo sotterraneo costituito, oltre che dai peli radicali, da tutta una serie di microorganismi che convivevano armonicamente e che conosciamo comunemente come humus. Aldilà della caduta di personalità di vini prodotti da piante incapaci di leggere ed esplorare il proprio terreno, la scomparsa progressiva dell’humus ha privato la terra di un importante filtro: di conseguenza tutto ciò che è farmaco, diserbante, pesticida riesce ad arrivare alle falde acquifere inquinandole.
c) nutrendosi di sale la pianta ha sempre maggiore bisogno d’acqua e irrigazione e questo stride non poco con la fase di emergenza idrica che attraversiamo. Inoltre l’eccesso d’acqua si insinua nei tessuti appesantendoli a discapito di qualità organolettiche e nutritive e li rende maggiormente attaccabili da parassiti fungini rendendo inevitabile l’uso di ulteriori prodotti chimici che rimangono nella pianta e in un terreno sempre più avvelenato!
d) dicevo che il metabolismo della pianta è regolato dalla luce e che la nutrizione artificiale ignora completamente le esigenze metaboliche della vite che accumula sali minerali in quantità eccessiva senza riuscire, appunto, a metabolizzarli. Questo eccesso di salinità fa letteralmente impazzire la povera pianta che cerca di difendersi dallo stress da ipernutrizione chiudendo gli stomi e limitando quella fotosintesi che è la base naturale del nutrimento biologico di tutto il regno vegetale.
Il fatto che in circa otto/nove mesi un vigneto si trasformi, da distesa spoglia e scheletrica, in un trionfo di materia sotto forma di foglie, raspi e acini e frutto della fotosintesi: carbonio gassoso trasformato in solido grazie all’aiuto del sole. La foglia, la maggiore utilizzatrice di energia solare dell’universo, già stordita dai trattamenti e dallo stress salino interrompe la fotosintesi con la conseguenza, tra le altre, di perdere aromi e polifenoli fondamentali nella costruzione della VERA personalità di un vino.
Provare per credere: schiacciare con la mano una foglia di un vigneto trattato e ascoltare l’inquietante croccantezza di foglia secca nonostante il finto verde brillante. Per questa ragione la maggior parte degli enologi, complici di questo modo malato di fare vino, obbligano gli agricoltori a diradamenti massacranti che hanno come risultato vini-caricatura i quali, essendo oramai privi di carica polifenolica naturale, necessitano di enzimi, tannini e aromi da legno nuovo. Aggiungo che i tannini indotti da legno non sono digeribili come quelli naturali dell’uva provocando spesso intolleranze e allontanamento dalla piacevole abitudine di bere un buon bicchiere di vino.

In un modello di società tardo-capitalista dove la forma e le mode continuano a prevalere su ogni altro valore e dove si continua a bere vino e consumare prodotti agricoli per il 95% della produzione mondiale se non malati sicuramente non sani, in pochi parlano dell’agricoltura intensiva come causa primaria della morte del pianeta, : ben oltre il problema pur grave delle emissioni.
Proviamo a immaginare che anche solo la metà di quelle foglie che non fanno più fotosintesi riprendessero per miracolo a fare il proprio mestiere, ebbene! avrebbero il potere e la capacità di fissare una tale quantità di carbonio da rendere inutili e sorpassati persino i protocolli di Kyoto! L’agricoltore di oggi è vittima e carnefice di se stesso: responsabile, spesso inconsapevole, dei cambiamenti climatici e della catastrofe. Attraverso l’attività microbica del suolo, dove ancora c’è, il carbonio raccolto dall’atmosfera attraverso i processi dell’humus, si trasforma in humus attivo, sostanza capace di trattenere tre volte il suo peso in acqua. Tutto è drammaticamente collegato: la zona più ricca di humus d’Italia era la Pianura Padana. L’humus tratteneva l’acqua piovana durante i periodi critici e la restituiva ai corsi d’acqua durante la stagione secca creando e rifornendo più grande fiume italiano.

Ora che l’humus è morto e il terreno non riesce più a trattenere l’acqua piovana, ad ogni abbondanza di pioggia avvengono inondazioni, frane, smottamenti e spesso morte e costi sociali elevatissimi. Ancora si può aggiungere che all’arrivo della stagione calda i fiumi, non avendo il naturale rifornimento da un sottosuolo ormai sterile, si seccano dando a fenomeni siccitosi con danni sociali incalcolabili.
Tutto questo per fare vini costruiti per un mercato che li chiede omologati e finti e per prodotti agricoli perfetti dal punto di vista estetico ma privi di valori nutritivi, armonie stagionali, personalità.
Vie d’uscita? Certo che sì, e ne parleremo in una delle prossime puntate.

5 Commenti a “Le piantagioni dell’utopia”

  1. Fabio D'Uffizi scrive:

    come sempre illuminante.
    grazie Piero.

  2. Giacomo Oggiano scrive:

    Caro Piero felice di incontrarti. Sono di ritorno da una settimana di vacanza che ho passato nella Garonna (il traghetto per Marsiglia della compagnia di stato francese applica lo sconto residenti e costa la metà rispetto a quello per Genova): St. Emilion, Pomerol, Margaux, Medoc, Bordeaux ….. Un mare di verde fatto di vigne, mai visto, sicuramente tonnellate di CO2 sequestrata all’atmosfera; anche tanta uva, anche lì già matura. Non so se quella viticoltura possa definirsi intensiva, ma i vini che ho assaggiato, nella mia ignoranza, mi son sembrati ottimi e, sopratutto, con un rapporto prezzo/qualità convincente.
    Ciò che mi ha colpito è l’attenzione al terroir definito quasi esclusivamente su base geologica. E sì, la vite i microelementi se li prende dalla nuda roccia, troppa frazione organica nel suolo ammazza i sentori. Le vigne più pregiate erano impiantate su una distesa di ciottoli. E’ il terroir che conferisce carattere e differenzia i loro vini a parità di vitigno. Ma se il 95% dei vini che beviamo è dopato siamo fritti. Spero che anche quei vini fatti da maestri con tradizione pluri-secolare non siano di plastica. Se lo sono mi scopro plasticofago. Perchè ai vini, magari fatti come nell’Arcadia, ma tutti ugualmente puzzolenti, ossidati, e col “girato” indipendentemente dal territorio di provenienza io non ci torno.

  3. Piero Careddu scrive:

    ciao Giacomino caro… anch’io felice di incrociarti! per la chiusura del cerchio sul mio essere perplesso su quelli che chiamo per comodità “vini convenzionali, ti chiedo di aspettare una delle prossime puntate di questa rubrica, quando proverò ad affrontare il tema scottante dei lieviti selezionati; non so cosa tu abbia bevuto e soprattutto non mi permetto di affermare che i vini convenzionali sono cattivi; semmai il contrario: ricchi di appeal, seducenti, ruffiani; ovviamente il mio era un discorso generale e in chiave ambientalista; una cosa è certa: si possono fare grandi vini, vini che sono lo specchio fedele del loro terroir, senza utilizzare un grammo di chimica, nè in vigna ne in cantina!

  4. Giulio Angioni scrive:

    Salute!

  5. Giovanni Cocco scrive:

    attendo speranzoso la via d’uscita compagno Careddu! :)

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