Le radici e le ali
1 Maggio 2017Marino Canzoneri
Non me ne voglia l’amico e compagno Ennio Meloni se uso il nome della associazione di cui è presidente per cercare di sviluppare un piccolo pensiero sull’oggi e sul cosa fare. In questi ultimi tempi, per alcuni versi così difficili e preoccupanti, sono emersi alcuni fatti in controtendenza, che non mi pare siano stati analizzati a sufficienza.
La vittoria di Siriza in Grecia, l’exploit di Bernie Sanders negli Stati Uniti, l’elezione di Corbin a presidente del Labour Party britannico (che, malgrado il mal di pancia di alcuni deputati laburisti, chiude l’era Blair), il clamoroso risultato del candidato alla presidenza della Repubblica francese Melanchon (che al primo turno prende il triplo dei voti del candidato ufficiale del PSF Hamon), l’eccezionale risultato del referendum istituzionale del 4 Dicembre in Italia sono derubricati dalla stampa e dal giornalismo main stream come mera espressione del populismo o tutt’ al più del populismo di sinistra.
Populismo, una espressione omnicomprensiva sotto il cui ombrello si catalogano i fenomeni politici più diversi, e proprio per questo non spiega alcunché, non mi pare essere una categoria adeguata a spiegare i fenomeni citati in precedenza. Essi sono la punta emergente di una insoddisfazione nei confronti dei partiti ufficiali della “sinistra”, insoddisfazione che coinvolge sempre più larghi strati di popolazione in vaste aree del così detto mondo occidentale. A me pare di scorgere, in questi fenomeni che attraversano la sinistra occidentale, una riscoperta di radici profonde che le élites di questi paesi hanno tentato di occultare e estirpare in tutte le maniere, negando loro ogni diritto di appartenenza alla sfera politica.
Emblematico a questo proposito il caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Col presidente Reagan e con la premier Thatcher non si attua solo una profonda trasformazione del capitalismo anglosassone (e quindi mondiale), ma inizia una narrazione che ha trasformato quei due paesi da terra delle opportunità legate all’esistenza di un forte stato sociale e allo sviluppo di un forte movimento sindacale, alla lotta contro i monopoli, all’esistenza di una fitta rete di associazioni che proteggeva il singolo dalle angherie del potere, in terre di individui in perenne lotta l’uno contro l’altro; in società basate sull’individualismo più sfrenato, in cui tutto si riduce a merce.
Ebbene, dopo più di trenta anni di questa narrazione, portata avanti non solo dalla destra ma anche dai due partiti principali della sinistra convertitesi al liberismo e da tutti i giornali rappresentativi del mondo intellettuale, si scopre che due persone che si autodefiniscono socialisti, che si richiamano esplicitamente al mondo del lavoro, che hanno come perno centrale delle loro politiche la ricostruzione delle comunità locali, statali e nazionali, hanno un seguito elettorale addirittura maggioritario nell’elettorato giovanile, che può contrastare l’elezione e l’ascesa di movimenti xenofobi, razzisti se non dichiaratamente nazifascisti.
Lo stesso discorso si può fare per gli altri casi dei paesi occidentali non anglofoni. Molto interessante mi pare anche il caso della nostra Italia. Il voto referendario, con la sua affluenza elettorale, segnala la presenza (minoritaria ma non per questo irrilevante) di una parte del nostro popolo, soprattutto fra i giovani, legata ai valori profondi della nostra nazione: Costituzione nata dalla Resistenza, solidarietà fra pari, impegno per la difesa della democrazia rappresentava e, soprattutto, non rassegnazione all’esistente, non rassegnazione al fatto che i nostri figli e i nostri nipoti debbano vivere peggio di noi e dei nostri padri. La politica della sinistra ufficiale sta rispondendo a questa novità in modo fragile e frammentato, privilegiando scontri e leadership invece che l’ascolto e lo studio di soluzioni praticabili.
Prevalgono slogan e divisioni. Cosa si può fare allora? (Che fare? Mi sembra presuntuoso). Cosa si fa? Parto ancora da una radice, da un fatto che all’inizio degli anni ’70 ha segnato non solo la vita di molti di noi, in Sardegna ma direi un po’ dappertutto: l’istituzione delle scuole popolari nelle periferie e nei quartieri disagiati di molte città del mondo. E’ stato pubblicato lo scorso anno, un testo che ricorda, rielabora e testimonia l’esperienza di Cagliari. Le caratteristiche principali che si possono riscontrare sono il volontariato, la gratuità, la solidarietà, il lavoro collettivo e cooperativo, la ricerca di metodi e soluzioni nuove ma soprattutto, voglio sottolinearlo, il superamento, pur fra diffidenze, incomprensioni e talvolta persino di ostilità, di barriere ideologiche e di divisioni, in nome del risultato da raggiungere: dare agli allievi non solo strumenti per capire la realtà, ma anche, grazie agli allievi, capire meglio anche noi la realtà, comprenderla e trasformarla; soprattutto far sì che essi potessero conseguire la licenza media.
Insomma l’orizzonte e il vicinato tenuti insieme dalla concretezza degli obiettivi da raggiungere e dall’utopia di una trasformazione radicale della società. E’ possibile qualcosa di analogo oggi? Secondo me sì. Non solo è possibile ma esiste già. Esiste, persino in Sardegna; per molti versi è molto più diffuso di quel che si pensi, e non è detto diventi anch’esso, come allora le scuole popolari, progetto politico e di vita per molti. Il 7 Aprile a Roma in via Tortona, presso il teatro “Don Orione”, l’Arci ha dato il via alla prima manifestazione che celebra i suoi 60 anni. Erano presenti molti leader della sinistra, rappresentata in tutti i suoi colori: Fratoianni e Pisapia, Ferrero e Gori, ma anche Emiliano, Orlando e Orfini. Un piccolo miracolo raddoppiato dal fatto che si son parlati, e intendo per parlare non solo intervenire ma anche ascoltare, difendere le proprie posizione comprendendo le ragioni altrui e senza insultare.
Un miracolo appunto nell’attuale quadro della sinistra italiana. Ma non è di questo che volevo parlare. Il fatto è che sono state presentate anche alcune attività che il variegato movimento Arci realizza sul territorio nazionale. Sono una mappa rappresentativa di una realtà di cui si parla poco se non per insultarla ed accusarla di non si sa bene che loschi traffici (per fortuna a far questo sono solo i politici e qualche altro personaggio); realtà di cui l’Arci è solo una parte, anche se non trascurabile. Si tratta di una decina di migliaia di circoli di volontariato, dediti alla cooperazione e che hanno fatto del servizio al prossimo la ragione della loro esistenza. Spesso queste associazioni collaborano fra loro, e i loro aderenti rappresentano in parte il variopinto mondo della sinistra; altri sono cattolici, religiosi di varie confessioni. Più spesso cani sciolti, si diceva ai nostri tempi, e anche il livello di impegno e di volontariato è diversificato. Pochi sono professionisti dell’associazionismo, i più pagano per lavorare al servizio degli altri.
La gratuità, la cooperazione, la ricerca di soluzioni nuove e innovative sono elementi ricorrenti; rispetto a 35 anni fa manca forse il furore ideologico di quei tempi, ma il ragionamento politico c’è già. Che fanno queste milioni di persone impegnate nel volontariato e nell’associazionismo, culturale e non? A Rieti ci si occupa dei diritti delle persone con orientamento non eterosessuale, uno sportello per la comunità LGTB di conoscenza, mutuo aiuto e informazione sui diritte delle persone gay ed eterosessuali. Ma a Cagliari c’è l’Arc, a Sassari il MOS (Movimento Omosessuale Sardo). A Torino, la mensa popolare “L’ISOLA CHE C’E’” una rete di circoli Arci coordinata dal comitato Arci Torino, sforna accoglienza e pasti caldi, soprattutto nei mesi invernali, con numeri che hanno raggiunto i 35 mila pasti erogati in due anni. In Sardegna c’è la rete della Caritas che va incontro a chi non ha da dormire e mangiare. Sempre a Torino, il circolo Arci Deina organizza la memoria.
Si tratta di viaggi di formazione ed educazione non solo alla cittadinanza attiva ma alla vita stessa per migliaia di ragazzi, accompagnati nei luoghi europei dove nel bene e soprattutto nel male si è scritta la storia della piccola ma potente Europa. Le trincee della prima guerra mondiale, Vienna e la mitteleuropa ma soprattutto l’universo dello sterminio e del genocidio scientifico, l’universo concentrazionario nazifascista della seconda guerra mondiale. In Sardegna l’Arci Sardegna, col contributo di Amministrazioni Comunali e RAS, ogni anno accompagna un centinaio di ragazzi, all’interno del progetto “promemoria Auschwitz” di Deina nella visita dei campi di Auschwitz – Birkenau. I ragazzi tornano poi profondamente mutati, alcuni decidono di diventare “testimoni” usando la loro preparazione e la loro partecipazione al viaggio come elemento di comunicazione e cambiamento con chi non ha potuto partecipare al viaggio.
Restituiscono alla comunità di appartenenza l’esperienza che hanno avuto il privilegio di vivere. Si tratta in realtà di una lunga teoria di esperienze piccole, se volete disordinate, che hanno un filo rosso comune: rendere vivibile la comunità di appartenenza, unire il passato col futuro attraverso l’impegno collettivo non solo per il benessere delle persone ma per il ben vivere delle comunità. Dai circoli di intervento per la difesa della legalità nelle terre di mafia e criminalità organizzata ai circoli che promuovono la cultura dei ceti subalterni nelle aree di insediamento tradizionale dell’Arci, dalla creatività artistica musicale, cinematografica e teatrale ai progetti per l’accoglienza e il sostegno ai migranti e non solo. In Sardegna? Beh! Forse i nomi li conosciamo tutti, solo li consideriamo marginali, esterni, poco funzionali, alla politica “vera”, occupata in “ben altro”. La “Collina”, “Casa Emmaus”, Il “Mediterraneo Film Festival – Giornate del Cinema”, “Barbariciridicoli” e tanti altri, ciascuno con un pezzo di comunità, ciascuno con un pezzo di utopia per migliorare il mondo in cui sono inseriti.
Cosa manca e cosa fare? Manca un senso comune. Ci sono tanti tasselli di un puzzle e tutti questi tasselli sembrano non combinare mai. Nessuno che possa essere unito ad un altro, non abbiamo un disegno, un modello di riferimento con cui cercare di unire i tasselli. Chi dovrebbe fare questo? La politica di sinistra, ma è impegnata in altro. Purtroppo! Chi frequenta questi luoghi fra i politici? Mi sbaglierò, pochi e rigorosamente senza incarichi esecutivi, e forse è proprio perché frequentano questi luoghi che la politica li esibisce come fiori all’occhiello ma non dà loro alcun incarico per “fare politica vera”. Ecco, la sinistra se vuole vincere facendo politica di sinistra e non realizzando, coi nostri voti, la politica della destra, (intendo per politica di sinistra la politica che ha come radicamento sociale i ceti sociali subalterni, in primis lavoratori e disoccupati, e come obbiettivo la risoluzione dei problemi di quelle classi) dovrebbe cominciare a ribaltare questo paradigma e rilanciare l’utopia di una società più vivibile partendo da quel non poco che già si fa.